Sam parcheggiò la sua Ford sotto casa di Giusy. Da circa tre mesi, Samuel prendeva lezioni di ballo, Giusy era la sua dama. Giusy studiava Economia, Samuel era rimasto bloccato con l’esame di Statistica della facoltà di Scienze Politiche. Quindi i due erano diventati anche compagni di studi. Ciò che per la facoltà di Scienze Politiche era un esame vero e proprio, l’esame di Statistica, per la facoltà di Economia era una introduzione alla Matematica. Giusy in pochi giorni aveva fatto capire a Samuel quella materia così anomala. E ora le possibilità di passare l’esame erano aumentate concretamente. Per questo lui non riusciva a dire alla sua dama che ne aveva abbastanza delle lezioni di ballo. Che avrebbe voluto mollare. Non poteva proprio, sarebbe stato un irriconoscente.
Scese dalla sua Ford e camminò verso il portone del palazzo in cui viveva Giusy. Citofonò e sentì la voce esile della dama invitarlo a salire. Premette un bottone per sbloccare il meccanismo dell’ascensore e la noiosa cabina scese. Sam si accorse che la serratura che teneva chiusa la porticina era stata divelta. Non era possibile aprirla con facilità. Dopo aver aspettato per qualche minuto, decise che sarebbe stato meglio fare le scale. Arrivò sull'uscio ansimando. Era buio. La lampadina del pianerottolo era fulminata. Intravide un piccolo sacchetto con dell'immondizia dentro e dei numeri arretrati di giornali impilati e legati e gettati in terra. La porta era mezza aperta. Giusy si stava specchiando e tentava di sistemarsi degli orecchini tondi. Lo fece accomodare nel salotto. La casa era vuota, o almeno così sembrava.
«Ci metto un attimo, siediti sul divano» Sam si sedette e cominciò a rimuginare. Era una serata sprecata, come tante che gli capitava di vivere nell’ultimo periodo. Una ricchezza di momenti buttati via. Pensò che in fondo, la maggior parte del tempo che forma una vita è data da ritagli di tempo passati infruttuosamente a star fermi. Le cose importanti sono così poche. Il tempo è relativo. Cinque minuti chiave per ogni giorno. Il resto solo inutilità. Arrivò Giusy e lo informò che era pronta e che potevano andare.
La scuola di ballo distava pochi minuti dalla casa di Giusy. Erano in anticipo. Ciò nonostante, Sam decise di superare le altre auto nella corsia di svolta per poi incanalarsi, nei pressi del semaforo, nella corsia che permetteva di proseguire dritti. Nella confusione, finì per attirare l’attenzione di un vigile solerte. Fu costretto ad accostare.
«Mi dia i documenti» disse il vigile.
Sam fece una fatica non indifferente nel cercarli. Patente e libretto stavano sepolti dentro il cruscotto. Nel tentativo di arrivare prima, rimase fermo poco dopo l'incrocio per più di dieci minuti, ricavando da quella furbata una multa e il ritardo alla lezione di ballo. Giusy la prese con filosofia. Non era certo lei che doveva pagare. Sam non poté trattenere una considerazione sul fatto che, se si fosse trattato di una serata romantica, con un'altra ragazza, quell'episodio non gli avrebbe certo risparmiato una figuraccia.
«Siccome invece si tratta di me…» disse la dama spazientendosi un poco. Il vigile porse la multa. «Ha qualcosa da dichiarare?» «Si» disse Sam. «Sono uno studente e pago le tasse» «Sono veramente spiacente. Questo è il bollettino, così paga direttamente alle poste e non avrà problemi con i suoi genitori» «Ma per chi mi ha preso?» disse Sam. «Non ho di questi problemi».
Quando arrivarono alla sala da ballo, Samuel e Giusy si accorsero che la temperatura all’interno era completamente diversa da quella dell’esterno. Fuori tirava un vento del cavolo, da morire, un freddo cane. Dentro c’era molto caldo. Alcune ventole giravano per rifornire i ballerini di aria fresca. Iniziarono a danzare quasi subito: mazurca, fox-trot, tango. A metà lezione, le dame e i ballerini vennero divisi per la spiegazione dei cambi del jive. Sam era accaldato e si tolse il maglione. Si mise in riga con gli altri, aspettando che i maestri impartissero le direttive. Un vecchio con la pancia prominente gli stava di fianco e tentò un approccio.
«Le difficoltà durante il primo giro mi confondono».
Gli venne addosso quasi calpestandolo mentre lo diceva. Durante il pomeriggio, nella biblioteca dell'università, una ragazza corpulenta e con la faccia pesantemente truccata gli aveva rivolto la parola chiedendo come andassero gli studi. Samuel aveva spiegato con parole inconsistenti che il docente di diritto, di cui tutti avevano tanta paura, non era poi la carogna che si diceva. La ragazza aveva prodotto un'espressione di inebetimento sentendo quelle sue parole. Samuel era rimasto perplesso e indispettito.
Che cavolo vogliono queste persone? Perché mi rivolgono la parola se nemmeno sanno chi sono? E e poi per dirmi cosa? Tutte queste parole sterili, fiato sprecato in frasi prive di significato, così, tanto per dire.
I suoi giri di danza erano tanto imperfetti quanto inefficaci, mentre danzava, privo di concentrazione, sudava e pensava ad altro. La mente non si svuotava, non si rilassava, era contratto e goffo. Forse la ragazza dell’università l’avrebbe incontrarla nuovamente in biblioteca. Già, ma per farci cosa? Terminò l'ultimo giro con un errore e si trovò di fronte agli enormi specchi della sala. Non poté non guardarsi. Vide la sua figura intera come raramente gli capiva di fare e fu il crollo di tutte le sue sicurezze. La barba incolta che gli dava più anni divenne segno di sporcizia. I capelli tagliati corti e ordinati sparirono. Gli stivali sembravano racchiudere un piede troppo piccolo per uno della sua età. La sua altezza, che fino a quel momento aveva rispettato i canoni della normalità, lo fece sentire basso. Riuscì persino ad immaginare alcune macchie giallastre nelle tasche dei jeans nuovi, diventati logori. Forse incominciava a puzzare.
All'uscita dalla sala da ballo dovette accompagnare la sua dama da una collega che aveva gli appunti per il giorno dopo. «Ferma qui», disse Giusy. «Prendo il faldone, poi compriamo le pizze e dopo cena studiamo. Farò in un attimo».
Sam se ne stava dentro la Ford parcheggiata con una ruota sopra il marciapiede. Le altre auto continuavano a passargli vicino. Poco distante c’erano alcuni binari del trenino cittadino. Li osservò per un pezzo aspettando che Giusy scendesse. Si sentiva frustrato dalla fine della giornata che non ne voleva sapere di arrivare. Il suo cervello, secondo lui anomalo, non la smetteva di produrre pensieri. Una macchina di pensieri da esaurimento. Pensieri difficili da trattenere tutti insieme, una macchina sempre in funzione, che creava un fardello troppo pesante da trasportare. La sicurezza andata a puttane, l'interesse smarrito nelle persone che continuava a frequentare con inanità, le ragazze di cui non riusciva ad essere innamorato, così come della sua vita e delle sue attività. Un senso di smarrimento e futilità lo avvolse.
Una fragilità sconosciuta si abbatté su di lui. Un blackout riprodotto sempre in forme diverse attraverso nuove combinazioni che scorrevano una appresso all’altra. Poi c’era la sfiga. Era davvero un periodo sfigato. Era come se dei fari enormi lo avessero puntato, il protagonista incauto nel palco del teatrino stabile dei falliti ben accetti. Gli esami che si accumulavano, la vita sociale che non decollava, la multa che avrebbe dovuto pagare in silenzio, l’apice di quella giornata, di quel periodo nero, di quel buco profondo che lo stava inghiottendo.
Giusy tornò in fretta, per fortuna.
«Che figuraccia. Ho sbagliato il piano, ricordavo fosse il quarto e invece era il quinto. Ho suonato il campanello, è uscito fuori questo ragazzo che non conoscevo, non sapevo che dire. Ho chiesto di un appartamento con sole ragazze, ma sembrava parlassi arabo. Avrà pensato che fossi una scema. Poi sono salita nel piano di sopra e mi ha aperto una mia amica. Le ho chiesto che cosa ci facesse là e mi ha risposto che ci abitava. Era la coinquilina della mia collega. Sono proprio una scema. Pensa che questo pomeriggio sono arrivata alla lezione e pensavo di essere in anticipo, così ho salutato a voce alta i ragazzi che erano presenti. Mi hanno guardato malissimo perché la docente era già lì alla cattedra e io non l'avevo vista. Continuo a farne una dopo l'altra».
Intanto arrivarono alla pizzeria e ordinarono le pizze. Sam, per rimanere in tema, raccontò alcune sue memorabili figuracce con vari professori. Tra tra una storia e l'altra c'erano dei silenzi fastidiosissimi. Vuoti in cui si perdeva a guardare Giusy e sondare il non interesse, chiedersi chi diavolo fosse quell'ennesima ragazza al suo fianco. La mancanza di familiarità lo buttava giù. Il timbro della voce di Giusy era insopportabile, i dettagli nelle smorfie del viso banalizzavano la sua bellezza. Ma quanto era pignolo!
Sono stufo di guardare tutte queste persone sempre diverse, è ovvio che poi mi viene da chiedere chi diavolo siano. Semplicemente non sono mai le stesse. Giusy si sedette dentro la Ford tenendo in equilibrio le pizze. Mentre arrivavano al portone uscì di fuori della salsa di pomodoro. I suoi pantaloni si macchiarono. «Forse ti sto contagiando la mia sfiga» disse Sam. Giusy rise.
Di sopra, mentre mangiavano, Sam non riuscì a provare nemmeno un poco della familiarità sperata, anche se il fatto di mangiare insieme a un'altra persona faceva pensare all'intimità. Anche quando iniziarono a studiare, ormai erano le undici passate, continuava ad avere sprazzi mentali di vuoto assoluto. Guardava la ragazza con cui aveva continui contatti nel ballo, con cui cenava, certe volte, con cui studiava, negli ultimi tempi. Si chiedeva chi diavolo fosse e che cavolo ci facesse con lei. Sul tavolo stavano appoggiati gli enormi orecchini tondi. Squillò il telefono e Giusy rispose. Poi suonò il citofono e lei dovette ancora alzarsi.
«Era un ragazzo che cercava la mia coinquilina» «Che fine ha fatto Laura?» «Ha passato gli esami ed ora se la spassa, beata lei» «Non dovrebbe far soffrire i ragazzi in quella maniera» «Peggio per loro, poi che ne sai di chi fa soffrire Laura» «Io m'intendo di queste cose».
Giusy era molto precisa nello studio, ma questo non disturbava minimamente Sam, perché era sicuro che stesse imparando qualcosa. Lei teneva i piedi incrociati sotto il tavolo. Come una suora tarchiata che non arriva al pavimento. Sam li vide dopo un imprevisto spostamento. Di solito questi dettagli lo nauseavano. Capitava sempre con i piccoli particolari, per tanti versi insignificanti, ma che, non si sa per quale motivo, a lui rimanevano impressi. Quella sera no, era troppo stanco e non vedeva l’ora di andare a dormire. Non sembrava esserci proprio niente di interessante in quella ragazza.
Quando andò via, uscendo al freddo della notte ormai inoltrata, sentì il bisogno del suo letto caldo che lo proteggeva. La nicchia preferita dai più deboli, come lui sapeva di essere. Salì in macchina speranzoso e pensò a come era stata brava Giusy con lui. Inizialmente non aveva capito niente della Statistica. Ma i ragionamenti di Giusy avevano acceso delle lampadine e Sam si era sentito subito meno stupido. Ed era affascinate notare quanto era naturale per lei maneggiare quei concetti. Sam non osava immaginare quanto fosse difficile il resto del suo esame. Matematica, Analisi, Economia. Lui non ce l’avrebbe mai potuta fare.
Giusy non gli interessava, non trovava niente di attraente in lei. Eppure, era una delle persone più intelligenti che conoscesse. Chissà se un giorno l’avrebbe dimenticata. Mise in moto la sua vecchia Ford e pensò ancora una volta a quella multa che avrebbe dovuto pagato in silenzio. Non c’era giustizia in questo mondo. Ai più deboli non veniva perdonato nemmeno il più piccolo errore. E questa era una lezione che doveva imparare in fretta.