Ognuno di noi ha una strada. Una strada che porta a casa, alle persone più care, a ciò cui siamo maggiormente legati. Di solito la strada è sempre quella, la s'impara da piccoli, e ognuno la segue per tutta la vita. Ma capita che quel cammino si spezzi. A volte ricomincia da un'altra parte. O, dopo aver disegnato un percorso tortuoso, ritorna al punto in cui si era spezzato. Oppure rimane come sospeso. A volte, però, si perde nel buio.

(Donato Carrisi - Il Suggeritore)

Quando comunicai ai miei genitori l’acquisto di un dammuso nel paesino di origine dei bisnonni, l’espressione di mia madre dimostrò il contrario di quella che avrei voluto vedere, mentre mio padre se ne andava nell’altra stanza. “Come ti è venuto in mente Clotilde di spendere soldi in un paese quasi fantasma” disse mia madre con voce apprensiva. “Per le mie origini, mamma, per scoprire da dove provengo e per il mio lavoro di travel blogger. Il comune regala case da ristrutturare a un euro, devo solo terminare i lavori in un determinato periodo di tempo”.

Lasciai i miei genitori insieme alla loro malcelata disapprovazione e partii per la Sicilia.

Dall’aeroporto, arrivai in paese, nell’orario in cui il sole spaccava pietre e pensieri, avevo appuntamento con la ditta locale che avrebbe effettuato i lavori. Due piani, scala stretta, tetti alti e sole, tanto sole. Uno degli operai, Calogero, loquace come pochi, mi disse subito che quell'abitazione era disabitata dal 1900, anno in cui Donna Luisa, la proprietaria, scomparve dal paese. Restai a fissarlo sperando continuasse il racconto appena iniziato. Non erano semplici informazioni tecniche, era molto di più. E così Calogero, con mia silenziosa approvazione continuò. “Sapi signorina, il marito era stato dato per morto in un crollo in miniera, ma veramente non si trovò mai il suo corpo, gli altri erano tutti usciti in tempo. Donna Luisa da quel giorno, tre volte a settimana, la notte usciva, tutta impillittata, per degli appuntamenti amorosi. Manco il lutto ci tenne al marito, la svergognata. E meno male che di figli manco l’ombra. Sa cchi vitti lu Signuri. Si dici che se la faceva con i forestieri e che a casa praticava magia nera. Nessuno ha mai voluto abitarci, tutti ci stanno arrassu da questa casa, come stavano arrassu da lei. Ma, mi scusassi, la sto spaventando?” “Vedo che lei è molto informato signor Calogero”. “Sì signorina Clotilde, il paese è piccolo e le voci girano, qua non si fermano mai. Il comune ha voluto togliersi questo rudere; nessuno ci avrebbe mai abitato: sa, al sud a certe cose ci teniamo”.

Rispose con un tono fiero da indispettirmi. Anche io avevo origini del sud e questo suo generalizzare mi infastidiva.

“Ok potete andare via, ci vediamo domani mattina”.

L’antipatia che mi aveva smossa era direttamente proporzionale alla simpatia che invece mi portava verso Donna Luisa. Entrai in casa. I muri spessi trattenevano la frescura, mentre fuori si sfiorava l’inferno in terra. Non c’erano mobili, solo una vecchia scala che portava a una botola sul tetto. Salii quei pioli scricchiolanti, aprii il portello ed entrai in quel sottotetto con a terra tanti fogli e diversi libri. Mi diressi verso il piccolo abbaino che dava sulle tegole per fare entrare un po’ di aria, anche se calda. I granelli di polvere iniziarono a danzare con i raggi del sole mentre la vista da lassù sgombrò qualsiasi dubbio potesse esserci nella scelta di quel dammuso. Un termine che, prima di leggere l’annuncio sul sito del comune che lo metteva in vendita, non avevo mai sentito prima ma che al solo pronunciarlo mi aveva messo subito di buonumore e per non fare torto alla mia indole di investigatrice, feci un’accurata ricerca sul dammuso, di origine pantesca e arabeggiante.

Mi sentivo osservata da dietro le persiane delle case sulla strada. Chiusi la finestra, presi i fogli, alcuni libri e scesi al piano terra che c’era più fresco.

Dicembre 1899
Cara pagina bianca custode dei miei segreti, tra poco vedrò il mio amore.

Saper scrivere e leggere in quegli anni era cosa assurda per niente usuale, considerando che solo nel 1957 arrivò il segnale televisivo in Sicilia. Adoravo già quella donna pioniera, bistrattata e sconosciuta.

La lettera, anche se breve, continuava piena di dolcezza e non sembrava affatto che la donna avesse incontri occasionali con sconosciuti, forestieri, come li chiamava Calogero, idea comune di tutto il paese a quanto pare.

Il pane che impastavo e cuocevo durava per tre giorni, speriamo che Salvatore non si fa scoprire, così i carusi della miniera possono resistere, senza morire di fame e stanchezza.

Stavo piangendo. Luis e suo marito erano due genitori mancati, ma eroi riusciti.

C’era un tesoro in quella casa e sarei andata fino in fondo per ridare dignità a quella donna e ai nobili comportamenti, suoi e del marito che si era finto morto per aiutare quei bambini in miniera, mentre lei raccoglieva in silenzio le calunnie del paese che la emarginava.

Dovevo scoprire tutto su Donna Luisa e in cuor mio speravo di essere una sua discendente, ne sarei stata onorata. Possibile che nessuno mai avesse avuto curiosità di leggere quei fogli sparsi in soffitta? Era stata forse un’autodidatta? I libri consunti e strappati, laceri e fogli di recupero da qualsiasi cosa, lo facevano presupporre.

La casa, al termine dei lavori si sarebbe chiamata Dammuso Luisa.

Una cosa io e Luisa in comune ce l’avevamo: il significato dei nostri nomi. Gloriosa in battaglia il mio e illustre combattente il suo.

Le mie origini sono qui. E ne sono fiera.

Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso.

(Donatella Di Pietrantonio - L’arminuta)