Circa un anno fa stavo preparando un esame di storia contemporanea con una collega dell’Università. Lei aveva un sorriso che illuminava la stanza ogni volta che mi capitava di fare una delle mie famose battute. Il programma di studio andava dalla Santa Alleanza alla Seconda Guerra Mondiale. Il telefono squillava in continuazione perché il mio appartamento era stato trasformato in un punto di ritrovo per studenti di diverse facoltà. Scambio di appunti e registrazioni, sbobbinamenti fino a tarda ora, incontri per nuove storie sentimentali, tutto si svolgeva avendo come centro nevralgico il mio piccolo appartamento in affitto pagato dai miei genitori. C’era, ogni giorno, un via vai non indifferente. Era un bordello. Ma io continuavo a rimanere concentrato e le uniche attenzioni che non rivolgevo all’esame erano per Sonia, la mia attraente compagnia di studi.

Mancavano pochi giorni all’esame e Sonia decise di trascorrere una notte da me perché così l’indomani avremmo iniziato molto presto a ripetere le lezioni a memoria. Sonia aveva attirato l’attenzione di tutti gli amici che bazzicavano la casa e che non erano iscritti all’Università. Questo significava che il giro di frequentazioni stava aumentando senza controllo e che gli amici degli amici avevano trovato nel mio postribolo un nuovo punto di riferimento. La gelosia delle altre studentesse che si fermavano a dormire d’abitudine si era accesa improvvisamente. Con gli amici più intimi facevamo spesso delle discussioni sulla possibilità che le relazioni sessuali potessero rovinare dei rapporti consolidati nel tempo.

Questo rischio si presentava spesso durante il periodo universitario. Fortunatamente, a me non era ancora accaduto. In quel periodo il mio migliore amico era Riccardo Venturi. Frequentava giurisprudenza e aveva due anni più di me. Indossava spesso giacca e cravatta, pastrani dai colori spenti, scarpe lucide e senza lacci. Aveva un aspetto autunnale, smorto, demodé. Io e lui, fino a quel momento, avevamo avuto gusti piuttosto differenti in fatto di donne e non erano mai sorti problemi del genere. Fino a quando non vide Sonia.

Iniziò a corteggiarla, alla sua maniera, e proprio il giorno dopo che Sonia decise di passare la notte con me, Venturi si affrettò a fare alcune mosse decisive. Durante quella notte, io e Sonia passammo diverse ore stretti l’uno all’altra, baciandoci piano e toccandoci dolcemente per scoprire i nostri corpi. Lei mi aveva guardato con aria del tutto naturale, a un certo punto, con il suo sorriso e i suoi grandi occhioni, mi aveva detto: Vorrei amarti.

«Non ci sono problemi» avevo risposto ingenuamente. «Penso che col tempo...».
«Hai la protezione?»
Rimasi senza fiato.
«Intendevi in quel senso?» Mi misi a sedere sul letto. «Non avevo capito. Ma, dovrei avere qualcosa nel cassetto». Mi alzai e camminati goffamente nel buio cercando di fare meno rumore possibile.
«Li tieni sempre pronti, vero? Scusa, era solo una prova, avevo bisogno di capire».
«Ma no, ti sbagli, non so nemmeno se c’è qualcosa. Non devi avere quei pensieri, io non ci stavo proprio pensando».

Fu molto intenso. Io ero teso, lei era a suo agio. Ci adormentammo alle prime luci dell’alba. Il suo modo risoluto mi aveva spaventato. Il desiderio però aveva preso il sopravvento. Meno male che mancava poco all’esame di storia, altrimenti rischiavamo di mandare all’aria il lavoro fatto fino a quel momento. L’indomani, vista la notte insonne, decise di tornare a casa sua ed io dormii finché non mi chiamò alle nove della sera per raccontarmi una storia buffissima.

Venturi era andato a trovarla nel pomeriggio. Non sapevo che lui avesse l’indirizzo, non sapevo come aveva fatto a rintracciarlo. Era arrivato a casa di Sonia con una rosa a gambo lungo e le aveva fatto la dichiarazione. Alquanto demodé, come il suo modo di vestire. Ma certamente romantico. Non pensavo le piacesse così tanto. Sonia, raccontandomi il fatto, era sembrata piuttosto piccata, perché aveva creduto fosse nostra abitudine passarci le ragazze. Le spiegai che non era affatto così e che se avessi saputo delle intenzioni di Venturi sarei intervenuto. Avrei fatto di tutto per evitare quest’imbroglio. Dal canto suo, Venturi, si era sentito raccontare da Sonia della notte appena trascorsa con me e non c’era rimasto bene.

Aveva capito l’errore, proprio dopo la sua dichiarazione. Ora eravamo tutti e tre perplessi. E non sapevamo come uscirne.
«Potevi spiegarti meglio, non sapevo che t’interessasse, avrei evitato di fare figuracce» mi disse Venturi al telefono quella sera.
«Ho cercato di dirti che c’era qualcosa tra noi, ma non hai capito. Hai il prosciutto sugli occhi, ecco il problema».
Comunque l’esame di storia andò malissimo. Né io né Sonia riuscimmo a passarlo.

Quell’estate, io, Venturi e altre due colleghe universitarie andammo a lavorare in un villaggio turistico molto esclusivo. Una delle due colleghe si chiamava Marta e io ne ero completamente innamorato. Aveva la carnagione olivastra, gli occhi verdi e alcune efelidi sulle gote. Portava i capelli raccolti in pressanti trecce rasta. Quell’estate non facevo altro che parlare di lei a chiunque mi si avvicinasse. Ero diventato logorroico, ripetitivo, tedioso. Ricordo ancora il pomeriggio in cui, per la prima volta, per filo e per segno, raccontai a Venturi dei sentimenti che provavo nei confronti di Marta. Eravamo in un market di una famosa località turistica della Sardegna in Costa Smeralda. Stavamo comprando alcune bottiglie di vino. Mi ero preso una cotta bestiale.

Ricordo che pensavo di farci dei bambini, lasciare l’Università e cercarmi un lavoro serio, andare a vivere con lei, esserne succube e altre stupidate del genere. Avrei voluto che Marta facesse di me ciò che voleva, ammazzarmi se fosse stato necessario. Venturi cominciava a rompersi, mi ascoltava con indifferenza o non mi ascoltava per niente, ma sapevo che era fatto così. Quando non era lui ad essere protagonista di qualche storia, non riusciva a provare interesse.

Viveva in un suo microcosmo chiuso e buio e il solo pensiero di uscirne, anche solo per un momento, era per lui inaccettabile. Marta non era la tipa che si sarebbe fatta conquistare dalle smancerie. Amava essere conquistata con decisione. I suoi spasimanti erano giocatori di tennis, surfisti, istruttori di quella che oggi si chiama zumba, ma che un tempo erano balli di gruppo da villaggio turistico. Io non avevo lo spirito necessario, non avevo la forza, non ero in grado. Non sapevo come sfruttare l’attrazione minima che diceva di provare nei miei confronti. Era una questione di equilibri sottili. Bastava poco per mandare tutto a monte.

Ricordo che una sera, al villaggio di cui eravamo ospiti - Venturi doveva tenere delle conferenze, il fratello di Marta insegnava surf, io mi occupavo del teatro come responsabile delle prove e della scenografia - successe qualcosa di davvero riprovevevole. Mi sembra di sentire ancora il profumo intenso di ogni piccola pagliuzza che copriva il terreno polveroso del villaggio. L’odore di legno umido dei bungalow, del detersivo delle cucine, dei disinfettanti dei bagni, l’odore salino che vorticava dal mare e che si mischiava a questi altri. Stavamo seduti a sorgeggiare qualche bicchiere di vino nel patio del bungalow del fratello di Marta, sgronocchiavamo toast inaciditi e pretzel mollicci arrivati chissà da dove. Si sentiva in sotto fondo la musica dei Buffalo Springfield che il cantante per l’intrattenumento aveva scelto per la sua esibizione. Nessuno di noi conosceva quelle canzoni. Marta ruppe il silenzio. Disse: Vorrei dormire con Samuel, stanotte.

Il vino mi andò di traverso. Non ero pronto a dormire con lei. Ma ne avevo una gran voglia. «Semplice, Denise dorme con me e voi andate nell’altro bungalow» disse Venturi. Denise era la compagna di stanza di Marta. Io e Venturi naturalemente dividevamo un bungalow, che lui riteneva territorio sacro. Aveva tutte le sue cose diposte nel bagno come un killer sociopatico, le lenti a contatto, la spazzola, le creme, i liquidi. Tutto in ordine decrescente, bottigliette, cosmettici, tagliaunghie. Mai visto niente di simile. Nell’armadio, stesso discorso.

«Io non mi muovo dal mio letto» disse Denise.
«Come non detto» disse Marta.
«Stavo scherzando» disse Venturi dopo aver incassato un’occhiattaccia che gli avevo lanciato in maniera per niente celata.
«Non importa ho detto, lasciamo perdere» aveva confermato Marta.

Stentavo a crederci. Ero desolato. Quello stronzo di Venturi aveva rovinato tutto. Marta era fatta così, con lei dovevi cogliere ogni attimo al volo altrimenti era la fine. Nessuna aveva saputo tenermi sulla corda in quel modo. Era uno spettacolo circense, fatto di equilibrismi e di attimi da catturare morbosamente. Dopo cena, dentro al nostro bungalow si respirava un’aria tesa. Cercavo di legare un cappio nel collo di Venturi, quando Marta entrò con indosso una maglietta nera, scolorita, e un paio di mutandine bianche. Si distese nel sofà della stanza fra noi e si girò dalla parte di Venturi. Le sue forme in penombra erano da brividi.

Fece alcuni movimenti che ci lasciarono interdetti. Venturi tentò di divincolarsi, ma lei lo impedì per via della discussione avuta durante la cena. Non feci nessuna mossa, perché niente mi levava dalla mente che Venturi sarebbe potuto sparire in mille modi diversi se avesse voluto, invece di stare lì a guardarci. Fui io ad abbandonare la stanza. Andai nell’altro bungalow dove l’amica di Marta, che fino a quel momento era rimasta fuori dalle nostre vicende amorose, dormiva. Anch’io mi appisolai. Poco dopo, erano passati forse alcuni minuti, la porta del bungalow creò un boato, svegliandomi. Marta stava di fronte a me in lacrime.

«Perché mi hai lasciato sola con quello?»
«Che cosa è successo?»
«Ha tentato di violentarmi».
Uscì dal bungalow e dovetti seguirla fino a dietro il teatro, vicino alla spiaggia, dove il cantante stava per finire la sua esibizione. Marta piangeva senza riuscire a smettere.
«Ha tentato di violentarmi, non voleva lasciarmi andare. Non dici niente?»
«Non so che dire, io penso... che non ci credo…». Si mise a correre e sparì.

Venturi stava sdraiato sul suo letto. Aprii la porta con violenza e gli chiesi di raggiungermi in spiaggia. Quando lo vidi arrivare, grosso e muscoloso, ebbi un attimo di esitazione, poi, guardando la faccia da bonaccione stronzo, mi venne voglia di colpirlo, e chiunque lo avrebbe fatto al mio posto. Vedendoci in quel momento, però, si capiva che non eravamo credibili. Eravamo due personaggi sbagliati, privi di scorza, senza profondità. Due marionette. Quando mi fu vicino iniziai a parlare e lui stesso sembrò sollevato dalla mia scelta di non agire. Disse che l’aveva provocato e che lui si era comportato come faceva solitamente in quelle situazioni. La chiamò stupida gallina. Insomma, nessuno si esprimeva così neanche allora.

«Mi hai portato qui con queste due stupide galline, la colpa non è la mia».
«Ti avevo detto che ero innamorato di lei. Ci hai provato senza pensare alla nostra amicizia».
«Lei ha detto che non lo è di te. È ambigua. Ci sta provocando».
Sapevo che non era innamorata di me, ma questo non aveva importanza. Soprattutto ora.

Feci la valigia in fretta e furia. Li insultai. Mentre Marta cercava di fermarmi, penso di averla colpita. Poi sono andato a rinchiudermi in macchina. Sarei voluto scappare via e lasciarli là ma la sbarra che delimitava l’ingresso del villaggio era chiusa. La guardiola era vuota. Non si poteva uscire con la macchina durante lo spettacolo. Che assurdità. Avevamo urlato. Il guardiano stava tornando alla sua postazione. Continuava a fissarmi.

«Che vuoi tu? Vai a fare il tuo lavoro» urlai. Lui venne verso di me per picchiarmi. In un bungalow di fronte si accese una luce fortissima. Marta e l’amica salirono in macchina. Chiusero la serratura. Il guardiano provò a forzare, poi se ne andò pensando che fossimo degli idioti. Marta mi stava fissando.
«Vogliamo chiarire questa faccenda?»
«Se dovessi dirti cosa penso, la nostra amicizia sarebbe finita».

Marta scese in lacrime sbattendo la portiera.

Denise dietro aveva iniziato a blaterare: Io penso che.
«Non provo niente nei vostri confronti ad essere franco. Siete solo di passaggio come altre persone che ho conosciuto. Perché non vai a quel paese pure tu?»
Anche lei sbattè la portiera dall’altra parte. La stagione estiva di svago e lavoro finì malissimo, come l’esame di storia. Venni licenziato e tornai a casa da solo.

“Oh no!” mi dissi. “Sta ricapitando”. Era passato un anno da quell’estate deludente. Quindi era sempre estate. Uguali situazioni, sempre le stesse, e in più la frustrazione di non riuscire a mettere a frutto le esperienze già vissute. Alle prese con un esame di economia avevo conosciuto nuove colleghe e, verso la fine della primavera, avevo iniziato a frequentare il loro appartamento. Uno spazio preso d’assedio per lo più da studentesse. Si fermavano a bere il caffè, si scambiavano indumenti, trucchi, riviste.

Le fotocopie e le cassette con gli sbobbinamenti per gli esami erano ovunque. Io avevo fatto l’errore di portare Venturi con me qualche volta. Venturi quando registrava un indirizzo non lo dimenticava. Lui, tutto sommato, era divertente, conosceva i posti dove andare a bere e a ballare. Mi levava parecchie preoccupazioni. Poi era mio amico. Io e Debby avevamo iniziato a fare lunghe passeggiate sulla spiaggia. Mi raccontava del suo fidanzato che faceva vita militare. Inquadrato, noioso, bloccato sessualmente.

Io mi sentivo stanco come un uomo di quarant’anni. Gli esami preparati e non passati, le donne degli altri che non erano mai definitivamente mie, il fatto di dover sempre dimostrare qualcosa. Senza sapere cosa e a chi. Anche il mio cuore cominciava a sentirsi stanco. Se avessi portato la storia con Debby a un altro livello, se lo avessi fatto quella sera dopo l’ennesima passeggiata in spiaggia, non sarei riuscito a pensare a lei come la persona giusta per una storia duratura. Avevo bisogno di tempo. Ma lei di tempo non ne voleva sapere, perché aveva già il fidanzato che la teneva sulla corda. E lei voleva cambiare storia. Mai più con un militare. Io godevo all’idea di una mia maturità inesistente. Ma soffrivo per i discorsi di Debby.

E ogni volta che incontravo Venturi non faceva altro che parlarmi delle forme di Debby, della perfezione fisica di Debby, del viso angelico di Debby, del militare che voleva scalzare. Ed io non avevo il coraggio di dirgli ciò che lei pensava di lui.
Una sera Debby mi chiamò.
« Samuel, è successa una cosa spaventosa».
«Cosa?»
«Ha chiamato Venturi». Lei quando si rivolgeva al mio amico o quando parlava di lui ad altri lo chiamava sempre per cognome. E lui non aveva capito che quello era comunque un indizio di cosa lo aspettava. Come fai a passare sopra al fatto che qualcuno continui a chiamarti per cognome? È incomprensibile. «Avevo deciso di passare la serata con te, ho bisogno di vederti. Ma lui ha detto che passa a prendermi fra venti minuti e ha chiuso. Non ho avuto il tempo di dire niente».

«Le cose sono due. Chiami per dirgli che non esci, oppure vai con lui». «Penso che andrò con lui e cercherò di rilassarmi. Vorrei dirgli cosa provo per te in modo che non ci siano fraintendimenti». Perfetto. Un altro confronto. Un altro faccia a faccia con Venturi per spiegargli che quella non era la persona giusta per lui. Pensai che avevo voglia di viaggiare e mollare tutto. Imparare a viaggiare per trovarmi nei posti, provare un po’ di solitudine, d’incertezza. Spendere soldi per andare chissà dove e parlare altre lingue, cercando di farmi capire.

Il giorno dopo Venturi mi disse di aver passato una bella serata e che con Debby, tutto sommato, stava bene. Anche lei gli aveva detto di trovarsi bene con lui.
«Ne sei sicuro? Sei sicuro di non aver frainteso? Hai capito bene tutto ciò che ti è stato detto?» «Perché?»
«Beh, vedi, lunedì scorso ci siamo baciati. Abbiamo trascorso una serata romantica e sta pensando di lasciare il fidanzato. Io sono indeciso, ma penso che proverò a stare con lei».
«Come baciati? Non è possibile».
«Eppure è così».

Una settimana dopo mi fidanzai con Debby e riuscii a superare le difficoltà con Venturi, che dopo aver consumato gli etti di prosciutto che insisteva a tenersi sugli occhi, incontrò una splendida olandese che lo portò via da me. Quell’estate, dopo aver salvato un’amicizia e perso un’amicizia, studiai, tanto da passare l’esame di economia, e poi quello di storia. Comprai uno stereo nuovo con i soldi del viaggio che non feci. Nessun viaggio all’orizzonte, però di nuovo una ragazza fissa. Non c’è spiegazione a questi fatti, sono solo cose che accadono, che si ripetono attraverso un moto incessante, uguale e paranoico. Ed io, ancora una volta, avevo puntato sulla stabilità.