La sera precedente era uscito quasi per caso un discorso di quelli che si fanno dopo aver bevuto e fumato: «E se si potesse mandare qualcuno identico a te a fare tutte quelle cose che non si ha voglia di fare?» Esordii. «Tipo?» Rispose il mio amico passandomi la bottiglia quasi vuota. «Tipo andare alla posta, fare la spesa, le pulizie… cose così». «E tu che faresti?». «Guarderei tutti quei film che non ho mai tempo di vedere ad esempio».
Nel mezzo del discorso la tv era accesa in sottofondo e passava uno di quei programmi di moda con bellissime donne che sfilano. Il telecomando era troppo lontano per alzarsi e cambiare canale. Fissavamo la tv inermi. «Vedi ora avrebbe cambiato canale per noi» continuai. «E perché? Sono bellissime… guarda la mora, per una così andrei alla posta, farei la spesa e le pulizie altroché». «Ma se non l’hai mai fatto in vita tua!» Esclamai lanciandogli un cuscino in faccia.
Dopo qualche secondo di ipnosi davanti alle modelle continuò: «Io non manderei nessuno a fare le faccende al posto mio, tanto vale non farle, ma se proprio ci tieni c’è Alvaro qui all’angolo, facci un salto». «Ma chi? Alvaro lo scultore?». «Lui, quello che ha la bottega». «Non mi serve una statua ma un sostituto». «Infatti Alvaro ha la bottega d’artigiano, fuori, alla luce del sole… ma nel retro…». «Nel retro?» Balzai dalla poltrona con l’energia che non avevo messo neanche nell’ultimo rapporto sessuale. «Ti ricordo che Alvaro ha la Porche, secondo te, un artigiano, di questi tempi, come fa a pagarsi un’auto del genere?».
Il discorso morì lì ma la curiosità restò viva. L’indomani, convinto che le parole del mio amico fossero figlie dell’alcol, o comunque che Alvaro semplicemente spacciasse, ci passai lo stesso; non avrà un sostituto per me ma magari qualcosa di forte.
Entrai.
La bottega di un artigiano è sempre la bottega di un artigiano, era così da piccolo ed è così, incasinata, polverosa e disordinata, ora. Parlai diretto, senza mezze misure. Dopo anni che passo di qui dovrebbe averlo capito che non appartengo alle forze dell’ordine.
«Alvaro buongiorno, mi servirebbe quello che tieni nel retro». Lui sorrise. Alzò la testa e mi scrutò dall’alto in basso. «Ti costerà un po’, non sei proprio piccolino insomma». «Dici che per fare effetto su di me serve una dose alta?» Chiesi. «Sei impazzito ragazzo? Io creo sostituti su misura con l’intelligenza artificiale, non droghe. La mia faccia era quella di un ragazzo davanti alla lavagna nell’ora di matematica.
Alvaro mi fece strada nel retro. Tendine anni Sessanta, impronta digitale, riconoscimento facciale e codice di verifica a due passaggi con lo smartphone e spalancò dinanzi a me un laboratorio del tutto diverso dalla sua bottega.
C’erano computer di ultima generazione, cavi, pezzi di ricambio, tessuti e ogni genere di diavoleria che tiene nascosta un hacker esperto di robotica. «Vieni accomodati su quella poltrona» disse indicandomi una specie di trono elettronico al centro della stanza. Iniziò a fare delle verifiche digitando dati sul computer, prese delle misure col metro alla vecchia maniera, scarabocchiò a matita qualcosa su dei fogli… poi continuò: «Ti costerà un bel po’», e poi riprese a trafficare. Alla fine, scrisse una cifra su un foglio e me la mostrò, non navigo nell’oro ma neanche muoio di fame, quindi accettai con la promessa che venisse fuori un lavoro eccellente.
Alvaro mi attaccò cavi, caschi, prototipi di articolazioni, mascherine per gli occhi e io eseguii tutti i suoi ordini alla lettera; mi scattò delle foto da diverse angolazioni e alla fine mi congedò dicendo che aveva tutto e che il mio sostituto sarebbe stato pronto per lunedì mattina e che la consegna era direttamente a casa. Aspettai quei giorni con impazienza, non avevo voglia di pensare ad altro e iniziai le prove per quando il sostituto sarebbe stato attivo: mangiavo e lasciavo tutto lì, non pulivo, non riordinavo… mi sparai di seguito decine di film, fumai a ritmo d’allenamento di un maratoneta, e soprattutto staccai il telefono… non volevo esserci per nessuno finché il sostituto non ci sarebbe stato per me.
Si fece lunedì con una velocità disarmante che non me ne accorsi, finché alle otto di mattina suonò il campanello. Andai ad aprire e davanti a me comparve… io, c’ero io, tale e quale, identico, come guardarsi in uno specchio in 3D. «Piacere, sono sostituto 4536a, versione software 1.0, ma puoi chiamarmi tranquillamente… “coso”». «Coso?». «Sì, ai tuoi ordini». «Ah… beh», mi guardai intorno; la casa era un disastro. Volevo partire con ordini pesanti, in fondo non è un essere umano e comandai come fanno i veri padroni schiavisti: «Pulisci tutto, rimetti in ordine e fai queste commissioni per me» imperai allungando un foglio con una lista di cose da fare.
Senza fare tante storie si mise all’opera mentre io tornai al mio dolce far nulla. Passai ore e ore a recuperare tutta la videoteca mondiale degli ultimi anni. Alternavo film a fumo, fumo a videogiochi, videogiochi a dormite improvvise. Lui non faceva neanche tanto rumore, era quasi come non averlo in casa esclusi i momenti in cui passava davanti la tv ma dopo un paio di richiami capii che non doveva farlo. Imparava in fretta, la prima volta mi chiese un paio d’indicazioni ma poi il software si aggiornò costantemente e imparò la posizione di tutti gli oggetti in casa, i miei gusti alimentari, i supermercati che preferivo con i prezzi più convenienti, dove e come mi piacessero le cose posizionate in casa, la mia musica preferita e quando sentirla… insomma era partito da un umile 1.0 ed era arrivato al 4.0 che oramai poteva sostituirmi in tutto e per tutto. Obiettivo raggiunto, pensai.
L’indomani l’ufficio era un demone che incombeva. Visto il livello di comprensione di “coso”, potevo rischiare già dal primo giorno. Passai la serata a spiegargli tutte le stanze dell’ufficio, i colleghi, i collaboratori con annessi volti e caratteri; chi doveva trattare e come e tutte le variabili in gioco, cosa doveva e non doveva fare. Alla fine, lui apprese il mio modo di parlare e gesticolare. Era diventato a tutti gli effetti… me. Sognai ad occhi aperte spiagge sudamericane mentre il mio sostituto faceva orari terribili, rispondeva al capo, sgobbava in casa e faceva tutto quello che non volevo fare io. Mi scese una lacrima di gioia e andai a dormire togliendo la sveglia… ero libero.
L’indomani mi svegliai all’ora di pranzo. Pranzai senza preoccupazione scegliendo con cura tra i vari prodotti del frigo come se li vedessi per la prima volta; effettivamente li vedevo per la prima volta dato che la spesa l’aveva fatta “coso”.
Accesi la tv facendo scorrere le notizie del giorno mentre cucinavo. Era diventato un piacere farlo senza la fretta e lo stress. Accesi lo stereo e ballai per casa da solo come un ragazzo che ha appena dato il suo primo bacio. Mi rilassai programmando i prossimi viaggi e le ore passarono. Quando il mio sostituto tornò, quasi l’avevo dimenticato, salì un leggera ansia che finora non si era mai palesata e gli chiesi subito: «Come è andata? Ti hanno scoperto?». Lui non rispose. Subito dopo mi arrivo una notifica sullo smartphone. L’aprii e trovai il resoconto della giornata da lui passata. Era tutto positivo. “Coso” era un lavoratore incredibile, mi batteva su ogni fronte e la cosa mi fece sentire… bene. Superato da una scultura di Alvaro, potrebbe essere uno smacco ma poi guardai il pc con il mappamondo digitale aperto pronto a indicarmi la meta del mio prossimo viaggio e sorrisi. Gli feci preparare la cena e andai a dormire sereno omettendo di nuovo la sveglia.
Passò una settimana e io iniziavo a dimenticare il tono di voce fastidioso del mio capo. Ogni giorno avevo ore e ore per fare tutto ciò che volevo e il mio sostituto al ritorno m’inviava il resoconto della mia/sua giornata di lavoro; non lo invidiavo per niente. Lui era efficiente, produttivo, veloce, devoto… insomma: lo schiavo perfetto.
Dopo oltre tre settimane che non mettevo piede fuori casa, la noia iniziò a farsi sentire. Nel tardo pomeriggio “coso” era rientrato da poco, il resoconto era perfetto e lui stava già iniziando a occuparsi delle faccende domestiche. Gli diedi l’ordine di essere vigile, come se potesse non esserlo, e scesi a fare due passi. La luce del sole mi bruciava sulla pelle, sembravo un vampiro in pieno giorno. Fissavo le persone per strada come se fosse la prima volta che vedessi un volto umano in carne e ossa. Entrai in un bar per bere qualcosa e percepire un po’ di brusio umano in sottofondo che amavo tanto e ultimamente avevo dimenticato.
Mentre ero intento a bere e godermi un po’ di confusione entrò una ragazza bellissima che si sedette a leggere un libro. Aveva un’aria familiare ma ero sicuro di non conoscerla personalmente. Feci mente locale e la trovai, lì, bellissima… sfilava in passerella quella sera, la fatidica sera nella quale era uscito il discorso sul sostituto. La modella che ci aveva bloccato qualche secondo a fissarla, quella per la quale il mio amico era disposto a fare tutte quelle cose che io, in questo preciso momento, stavo facendo fare al mio sostituto. Lo chiamai.
La telefonata durò poco, dopo qualche secondo a convincerlo che non lo stessi prendendo in girò la chiusa semplicemente dicendo: «Ora devi scegliere: vai tu a parlarle, o ci mandi il sostituto?». La buttò lì ridendo. Non aveva tutti i torti. Mi guardai un attimo riflesso nello specchio: l’aspetto era quello che era, l’odore anche peggio… non avevo badato molto a me ultimamente. Decisi che avrei mandato “coso” a rompere il ghiaccio.
Tornai velocemente a casa e diedi l’ordine. Il mio sostituto uscì subito a eseguire mentre io restai in un’ansiosa attesa che superò di gran lunga quella del primo giorno di lavoro. Passò qualche minuto, poi qualche ora. Non erano proprio le tempistiche che mi aspettavo per un approccio da bar, a meno che non avessi fatto colpo e non fossero scattate grandi chiacchierate degne di quelle commedie romantiche che avevo divorato in queste settimane. Il mio sostituto non mi sembrava di tante parole, in effetti a questo potevo pensarci prima di mandarlo in avanscoperta. Quando l’impazienza si fece insopportabile scattai di nuovo verso il bar.
Entrai affannato guardandomi intorno. Non li vidi. Il barista mi guardò e sorrise. «Scusi, ma qui c’erano per caso due, cioè uno identico a me con una bella ragazza?». «È impazzito per caso? Siete usciti insieme almeno un’ora fa». «Come un’ora fa…». «Non la vedo bene signore, vuole bere qualcosa?». «Sì grazie, qualcosa di forte». Non avevo idea di dove fossero finiti ma la cosa iniziò a non piacermi. «Senta scusi, ma come stavano quei due?». «Ehm intende forse lei con quella nella ragazza?». «Sì esatto». «Molto bene, ridevano e scherzavano… sembrava molto interessata». «Ah vedi…». «Ha bisogno di un medico?». «Ma no! Quale medico sto benissimo… senta, è complicato da spiegare quindi mi faccia pagare che vado via». Mi guardai nel portafogli ed ero sprovvisto di contanti. Mostrai la carta al barista e provai a pagare. Il pagamento venne rifiutato… innumerevoli volte.
Capii che qualcosa non andava quando guardai il mio conto e lo trovai vuoto. Corsi a casa. Dovevo fare qualcosa ma restai bloccato, fermo, al centro. Il continuo delegare le mie azioni, anche le più banali, al mio sostituto mi aveva appiattito il ragionamento, l’estro… quel guizzo di quando hai bisogno di un’idea al volo che risolva una situazione complicata: avevo perso la capacità di muovere la mia mente verso la vita, mentre un’intelligenza artificiale, nel mio corpo, aveva imparato da me a farlo.
Un messaggio sullo smartphone sbloccò quella stasi interminabile. Era il mio amico, con un messaggio scherzoso mi faceva i complimenti per essere riuscito a scappare con quella modella il giorno stesso in cui l’avevo conosciuta. Aveva visto “me” e lei con una valigia alla stazione pronti a partire per chissà dove. Mentre delegavo le cose che non volevo della mia vita a un “me” artificiale che non sono io, lui si è preso anche tutto il resto.
Rimasi immobile, da solo, al centro della stanza.