Ricorda una persona. Mentre ti saluta. In cucina, mentre prepara. Quando fa quello che non sopporti.
La dottoressa che parla ha raccolto i riccioli neri. Agita i risultati delle analisi. Non sono in grado di prendere una decisione. Dico “come vuoi” e mi affido.
Esco da questa stanza, torno al triage. Devo fare alcune telefonate. Prendo il corridoio che porta alla cappella. C’è una persona seduta a sinistra, in penombra. Non scendo la passerella. Ripercorro la strada al contrario.
Due uomini, appena entrati chiedono di cambiare venti euro per il caffè alle macchinette cicalanti. Lo offro, è più semplice. Cammino avanti e indietro e incrociandoli, ringraziano ancora con un cenno.
C’è una persona in pigiama, accanto a una sedia a rotelle dove poggia la tanica con liquido marrone. La testa bendata alla meno peggio, come l’improvvisata fasciatura dopo una rissa, e il trucco tatuato la fanno sembrare sciatta ma pronta a uscire. Che ha preso? Smetto di fissarla prima che se ne renda conto, come al ristorante indiano Taj Mahal, quando la donna palestinese ha ordinato tre uova sode. Prese, divise in due con le unghie. Ne ha spremuto una metà come un agrume, uscito il tuorlo, ha mangiato il resto. L’ho fissata irrispettosamente, come l’assistente di una cerimonia. Di tanto in tanto ha sorriso a Billie, acquattata sul pavimento.
Al telefono riassumo notizie e il cervello le elabora. Mi è salito un groppo in gola, ho interrotto il racconto. Sento che sto per piangere e mi trattengo.
Sulla destra si dirama un corridoio quasi buio, un antro dove nascondersi, soggiornare. Accedo ma, non ho tempo.
Mi lascia tutto e tiene con sé solo il cellulare. Le porte dell’ambulanza si chiudono e lei parte mentre cerco un taxi.
Quando arrivo è già tardi. Hanno iniziato e non posso raggiungerla. La guardia all’ingresso mi indica chiaramente l’uscita.
Fuori fa freddo e non ho il maglione. Attraverso la strada e mi avvicino al mare calmo, investita dalla solita aria umida. Improvvisamente, fuochi d’artificio. È domenica e le strade sono ancora piene nonostante, sia mezzanotte passata.
Sono quasi le due, infreddolita decido di tornare. Mi fermo all’ingresso e chi lo aveva interdetto, lo sollecita, con un gesto che mi porta a sé. Mostra le foto del figlio a Tenerife. Non lo sento bene attraverso il vetro e mostro interesse a fatica. Resto in piedi e mi vorrei sedere e quando mi siedo dopo poco mi alzo.
È tardi quando alcuni infermieri scendono le scale alla fine del turno. L’intervento è finito. Non andrò, come suggerisce, restando in attesa di una chiamata.
Afferra il citofono. “Dottore, la figlia della signora è qui e non andrà via”. Il cavo a spirale attraversa uno spazio libero stendendosi. Mi ricorda un vecchio telefono. Era un po' che non avevo una cornetta con il filo, da attorcigliare e ingarbugliare, durante una spensierata lunga conversazione. Il medico sembra poco incline al confronto ma, fa il suo dovere e spiega procedura e conseguenze.
Esco. Svolto a destra in cerca di un taxi. Prima decine, ridotti ad uno. Mi chiede se preferisco una strada piuttosto che un’altra. Mi verrebbe da dire: “fa come vuoi”. Gli dico la più veloce e la più breve. Parte, mentre rispondo ad un’altra telefonata. La ripetizione mi sfianca.
Sono quasi le tre. A casa dormono tutti. Billie mi accoglie scodinzolante. Accendo il lume e mi infilo a letto per non dormire. Si sveglia e mi tocca i capelli, leggermente, come se non sapesse come fare con me. Non mi abbraccia.
Mi guardo il polso e vedo il bracciale che nella fretta le ho dovuto sfilare. Un bracciale alla moda che male mi si abbina. Entro in cucina, perché la vita resiste al sonno. Guardo la striscia della macchia di muffa lasciata sulla piastrella della cucina dal suo pompelmo gigante.