Sentivo addosso puzza, tanfo di sonno tormentato, una spinta ostinata e testarda su un pezzo di puzzle sbagliato.
La continua analisi sfiniva. Una strada senza uscita, un’insenatura soffocante, una vagina stretta. Le prime pagine di Kundera avevano avuto l’effetto di confondermi di più. Letture riprese per le quali siamo stati lettori immaturi. Che poteva sapere la ventenne dei tormenti dei quarantotto. Leggere risposte a domande sconosciute.
Andavo in giro con occhiaie che non facevano Hollywood. In dubbio se fosse trucco sciolto per l’uso di una crema inutile. Superata un’età, stanchi fa solo vecchi, non dannati. Poco contava aver dormito. Riuscivo a riposare dieci ore filate ma, restava la faccia stanca, l’espressione smunta, come se dentro non circolasse anima, un’eco.
Un’indagine inutile, senza sosta, mi stava consumando.
Estranea alle persone, protetta da sommari sorrisi. Mi sentivo come le huaraches scalcagnate di Camilla Lopez di Fante. Usata, sfruttata, distrutta. Si segnavano le rughe dal naso alla bocca, quelle che si aggiungono a un disegno per convertire un giovane in vecchio. Come piste per veicoli che accompagnano le lacrime al tornante labbra, per ricordare che la sofferenza è salata. Il contorno occhi era già partito da tempo e pensavo che al completamento della mutazione in bulldog, allora sarebbe davvero finita. Quando quel briciolo di attraente che ero stata, trasformato in polaroid da frigo, si sarebbe presentato allo sportello e avrebbe consegnato le dimissioni, avrei sì smesso di raccontarmi la bugia sulla personalità, rinunciando per una verità instabile e incostante. Esisti finché ti vedono e quando smetteranno, potrai ritirarti.
Forse per questo, lo lasciavo andare sempre lentamente, nonostante fosse nota la struttura dell’abbandono. I saluti devono essere brevi, quasi frettolosi, come scanzonati a sottolineare che va tutto bene e si tornerà e vedersi. Invece indugiavo sempre, come se in quel dolore dimostrassi di esistere. Poi me ne andavo mesta e continuavo a percorrere le ore.
Sentivo l’approssimarsi di una svolta. Una strada non può essere interminabile e l’indagine troppo puntuale per sottrarsi. Di tanto in tanto mi alzavo in punta di piedi per vedere se al di là di un dosso si intravedeva una collina, una discesa o una strada che tagliasse di netto il percorso. Una risposta a tante domande. Una complessa ma, semplice. Un concetto spaziale di Fontana. Di facile esecuzione, tuttavia unica nel suo genere. Mi trascinavo consumata.
Leggevo, convinta che quel tratto letterario che avevo tracciato, istintivamente in grassetto, mi avrebbe condotto, non senza sforzi, a una soluzione. Mi chiedevo però se il quesito stesso fosse sbagliato e per questo esitavo a trovare risposta, ostinata come ero a fare la cosa giusta o almeno a capire se fosse giusto quello che facevo. Io, costantemente criticata, che mi sentivo incompresa, una voce sottile senza consensi. Come potevo essere interprete di una forma di equilibrio condiviso. Dovevo smettere di provare a convincere che non ero così male, che forse avevo ragione, che potevano accettare il mio punto di vista, evitare di farmi la guerra.
Con i libri mi sentivo bene. Loro erano sempre più sbagliati, peccaminosi, ingarbugliati di me. Eppure, io simpatizzavo con quei personaggi. Mi sembrava impossibile non amarli e non sentirne la mancanza. Mi facevo accompagnare da loro per strada e guardavo con occhi che non mi appartenevano. Una vista più clemente della mia, più indulgente. Nei libri i protagonisti erano sempre nudi, onesti.
Al lettore non si può mentire.
Al lettore può mentire solo l’autore.
Li vedevi anche quando pensavano di non essere visti. E allora potevi conoscere l’eccitazione di Na’im di fronte alla scollatura di Dafi e quella di Adam e Tali su un talamo improvvisato e rubato, fuggiti dalla spiaggia diventata troppo ospitata, puoi entrare nella camera da letto d’albergo dove Sabina, seminuda, aspetta Tomáš e con lui sfilarle la bombetta, poggiarla sul comodino, guardandola in silenzio, prima di fare l’amore, sapendo che le loro azioni sono considerate, nessuna esclusa, inaccettabili; tuttavia, non si può non accettarle ugualmente.
Perché Henry Chinaski non deve nascondersi. Perché Molly di Céline per noi tutti è buona e ammirevole, pur da prostituta. Accettare ciò che crediamo inaccettabile, forse era questa la svolta che cercavo. La possibilità di superare l’ostacolo di prospettiva e vedere la poetica, la dolcezza dei rotti, degli squilibrati, diversi, alcolisti o puttane. La bellezza di essere se stessi, con la faccia da bulldog, le proprie azioni, che non sono comunque errori, anche ove parsi ingiustificati.
A volta trovavo sollievo a raggiungere piccole soluzioni. Aggiungevo un altro pezzo, sentivo che avrei completato il lavoro e allora tutto avrebbe avuto senso ma, forse, non c’era nulla da finire e per quante verità potessero illuminarmi, altre nel tempo a queste sarebbero subentrate, rinnegandole.
Mi chiedevo come potevo essere cambiata così tanto e mi rispondevo che ero solo cresciuta e che non aveva importanza dare senso a questa vita, quando l’unica via possibile era che fosse vissuta. Mi barricavo qualche minuto dentro questa frase, priva di significato, prima di tornare confusa. Forse dovevo abbracciarla questa confusione. Non c’era nessun destino enigmatico ad attendermi e non dovevo capirlo. La prima cosa da fare era smettere di battersi, non essere né il giudicante, né il giudicato, partendo dall’idea che va bene essere o non essere accettato.
È un inverno troppo freddo questo, per interrogarmi. Metto le mani sotto il sedere per riscaldarle. Mi rannicchio sul divano, seguita da Billie. Quest’anno il condominio ha deciso di non accendere i riscaldamenti. Fisso l’intermittenza delle luci sugli alberi dentro e fuori casa e penso che sia tardi per appisolarmi. Oggi sono tornata presto dal lavoro ma, sono usciti tutti e la casa è tranquilla ed io affamata. Non è il momento per i tarli.