Un saggio disse: “fate attenzione ogni volta che aprite la bocca, pensate prima a quello che volete dire e se possibile cercate di non essere preda delle emozioni. Nel caso poi decidiate di farlo in presenza di una donna, beh allora, massima cautela”.

Lo ammetto, non ho mai seguito queste regole. Se oggi ripenso a quella volta in cui dissi a una ragazza “ sei bellissima perché non hai tatuaggi”, frase incautamente pronunciata dal sottoscritto sulla spiaggia di Paraggi il giorno 12 settembre di due anni fa, non posso che dare ragione a chi dice che la trama complessa delle nostre vite viene sempre generata da una semplice frase, a volte da una sola parola, pronunciata con leggerezza. Dalla quale, piano piano, poi tutto prende forma.

—Posso dirti una cosa?
—Sì, certo, dimmi.
—Sei bellissima!
—Grazie! I complimenti fanno sempre piacere.
—E ti dico di più, sei bellissima perché non hai tatuaggi, sì, sei la prima ragazza che incontro senza tatuaggi sul corpo.
—Ahi! Ci conosciamo da pochi minuti ma ti devo già deludere. Mi dispiace.

—Vuoi dire che…
—Voglio dire che… insomma sì, un tatuaggio ce l’ho, ma non posso dirti dove. Non tutti possono vederlo.
—Intrigante. Devo considerarlo un invito?
—Secondo te? (iniziando a ridere insieme ad un’altra ragazza)
—Non conosco neppure il tuo nome. Io sono Francesco.
—Ciao Francesco, io sono Nabi, lei invece è Vanessa, la mia migliore amica.

E detto ciò, continuando a ridere, le due ragazze si erano messe a correre verso il mare e subito si erano tuffate e io, immobile, ero rimasto a guardarle accecato dal riverbero del sole sull’acqua. Una visione che insieme al mistero del tatuaggio nascosto aveva già preso ad alimentare in me innumerevoli fantasie. Era settembre, il preludio dell’autunno e io mi sentivo il più fortunato in quella spiaggia ammantata di luce dorata. In realtà non dovevo essere lì.

Avevo accettato per caso all’ultimo di accompagnare il mio amico Jan a trovare la nonna nella casa di famiglia a Paraggi, mi aveva detto: “dai, che poi ci facciamo un tuffetto, conosci Paraggi?”. Io avevo risposto di no e lui subito mi aveva incalzato dicendomi: “allora hai un doppio motivo per venirci, anzi triplo, c’è un panettiere che ogni giorno sforna la focaccia come quella di Recco ma meno unta”, e io di fronte al sentore di quella fragranza ero capitolato. Così, due ore dopo, mi ero ritrovato come se nulla fosse a camminare sulla spiaggia a piedi nudi, incantato alla vista del mare, con la salsedine a solleticarmi il naso e un grande senso di rilassatezza che sembrava non volermi abbandonare mai. Così è stato fino al momento in cui ho visto lei.

Alla sera, messa a letto la nonna, io e Jan ci siamo piazzati in terrazza con le nostre birrette e i nostri discorsi esistenziali senza capo né coda. Era bello goderci il freschetto settembrino mentre i rami di una grossa palma, mossa dal vento, producevano un frusciare continuo, lento e rassicurante. Ad un tratto si sono aggiunti altri suoni, note squillanti, voci dall’oscurità, con Jan ci siamo guardati e abbiamo capito trattarsi delle due ragazze incontrate in spiaggia. Il caso aveva deciso che si trovassero a pochi metri da noi, sul terrazzo della casa accanto, a quel punto la conversazione è continuata rimbalzando da un terrazzo all’altro in un crescendo di eccitamento.

Verso mezzanotte il mio amico Jan ha cominciato a sbadigliare e poco dopo ha dato forfait e si è congedato e manco si fossero messi d’accordo anche Vanessa dopo pochi minuti non si è più vista né sentita, tant’è che alla fine mi sono ritrovato solo a chiacchierare con Nabi e la nostra conversazione è proseguita lieve e gradevole per un tempo indefinito fino a quando lei mi ha detto: “perché non ci facciamo un bagno sotto le stelle?”. E per quanto ardita mi fosse parsa all’inizio quella proposta una parte di me la trovò semplicemente naturale e bella. Accettai.

Ci ritrovammo sulla stessa spiaggia dove poche ore prima era avvenuto il nostro primo incontro, un particolare degno di nota, almeno per noi, anche se nessuno dei due aveva osato menzionarlo apertamente, era visibile nei nostri sguardi, quello era già un ricordo, il primo, di noi due insieme.

Non avevo mai fatto un bagno in mare di notte prima di allora e me ne vergognai. Che esperienza incredibile! Niente Luna, buio pesto e scintillìo riflesso di stelle ovunque. E se ciò non fosse bastato, il movimento dei nostri corpi nell’acqua a provocare magiche scie fosforescenti. “È il plancton”, mi sussurrò con naturalezza la mia sirena prima di scivolarmi in braccio e mordermi con delicatezza il labbro. Ho un ricordo preciso di quel nostro primo abbraccio in acqua, lei pareva un’anguilla, mentre le immagini di ciò che avvenne dopo si stemperano nella memoria come certi sogni al mattino quando si resta sospesi e si vorrebbe non dover tracciare mai un confine definitivo con la realtà.

Restano di quel trascorso sfocato e inafferrabile molte sensazioni tattili, di odori, sì, soprattutto di odori, come il profumo dell’asciugamano con il quale ho avvolto il corpo infreddolito di Nabi quando è uscita dall’acqua o l’odore di umido dell’androne della casa sconosciuta dove mi sono ritrovato pochi attimi dopo con i piedi ancora pieni di sabbia, pieno di fiducia ma anche inquieto per quel mistero che si disvelava, i sensi in subbuglio, ma anche altre immagini, una scala che saliva, le sagome dei mobili in una piccola camera, una candela che qualcuno prontamente accendeva, le nostre ombre sul muro che non smettono di abbracciarsi, il volto di Nabi, il corpo di Nabi, un lenzuolo singolo da dividere in due, fuori già il primo chiarore, l’alba.

—Sei gay?
—No, non sono gay, è solo che non mi va di fare l’amore così, al primo incontro.
—Mah, non mi sembri molto normale, di solito i ragazzi è quello che vogliono.
—Io no. Possiamo stare abbracciati, come ora, e godere uno dell’altra. Ti va?
—Ma sì certo, ero solo un po' stupita.
—Hai già avvertito Jan che stanotte non torni a casa?
—Hai ragione, forse è meglio che gli mandi un messaggio.
—Hai fame? C’è della focaccia. È di ieri, se vuoi possiamo riscaldarla.
—Dopo, forse dopo.
—Dopo cosa?

Prima che lei potesse terminare quella frase io cominciai a baciarle la bocca a e da lì scesi lungo il collo e poi ancora più giù roteando la lingua intorno a quei suoi seni, piccoli e duri come il marmo, mentre il suo corpo, tutto, cominciava ad agitarsi, tutta la pelle s’imbrividiva al tocco delle mie dita e pareva gemere festosa mentre ancora scendevo con la testa, la bocca e con gli occhi ad esplorare il suo ventre palpitante fino alla piega dell’inguine e al taglio sacro ricoperto di rada peluria adolescenziale.

Laggiù ad attendermi, inaspettato, il tatuaggio di una piccola farfalla blu che mi fece sorridere, in realtà non per aver scoperto il suo segreto ma per una cascata di ricordi infantili che irruppero nella mia testa e non mi mollarono, e si trattava di ricordi lontani a lungo dimenticati, diventati improvvisamente limpidi, come la storia dell’avvocato Zamboni grande collezionista di farfalle e la mia passione di bambino per quell’universo multicolore, mentre i mugolii di piacere di Nabi si intrecciavano alla mia gioia silenziosa creando in me uno stato di estasi indescrivibile.

—Ma chi diavolo è ‘sto avvocato Zamboni?
—Come scusa?
—Sì, ho detto proprio avvocato Zamboni. Pochi minuti fa mentre mi deliziavi con i tuoi baci ti ho sentito ripetere questo nome, sembrava quasi volessi recitare un mantra.
—Oh no! Ho parlato ad alta voce? Posso spiegarti. Il fatto è che…
—Non mi devi nessuna spiegazione, ormai so che sei un tipo particolare, mi piaci così come sei.
—Nabi! Ho trovato il tuo tatuaggio!
—Veramente?

—Sì. Ed è per questo che…
—Tesoro! Tu sai di essere il predestinato, vero?
—Predestinato io? In che senso?
—Nel senso che quando ho fatto quel tatuaggio mi sono ripromessa di appartenere per sempre al primo che l’avrebbe trovato.
—Wow! Che onore. Mi commuovi. Ma allora ora che facciamo coppia fissa posso raccontarti la storia dell’avvocato Zamboni.
—Ma ancora con ‘sto nome?
—Vieni Amore, torna a letto dal tuo predestinato.

L’avvocato Zamboni non voleva fare l’avvocato. Ma non poté scegliere. Quando ci si ritrova in una famiglia dove tutti gli uomini da generazioni hanno fatto quello, gli spazi di manovra per immaginarsi altro sono estremamente limitati. Infatti Nando Zamboni, per tutti gli amici Nanny, studiò da giurista e a suo modo riuscì bene nella professione e in città fu presto stimato e rispettato da tutti. Ma la grande passione di Nanny furono sempre e solo le farfalle. La sua collezione, anche grazie ai cospicui proventi dello studio legale da lui diretto, divenne presto una delle più importanti al mondo. L’avvocato Zamboni non disdegnò mai di fare lunghi viaggi, esponendosi a rischi e disagi, pur di reperire rari lepidotteri con i quali arricchire la sua già invidiabile raccolta.

Anch’io da piccolo ero appassionato di farfalle. Le catturavo tutte le volte che potevo nei campi intorno a casa, grazie all’ausilio di una rudimentale retina fissata a un bastone. È stata mia nonna a mostrarmi come addormentare le mie piccole prede con un batuffolo di cotone impregnato di alcol, soprattutto mi ha insegnato come stendere e fissare ali, antenne e zampette con spilli sottili in modo da conservarne le forme armoniosamente una volta seccate. Mentre già in me faceva capolino lo spirito del collezionista, in mia nonna albergava più che altro un interesse estetico-scientifico dal sapore vagamente Biedermeier, passione che trovava la sua massima espressione in terrificanti composizioni di fiori secchi, bacche e farfalle, il tutto incollato su cartoncini neri, messi sotto vetro e incorniciati con listelli di legno scuro dall’immancabile bordo dorato.

Caso fortunato volle che mia nonna, in veste di traduttrice madrelingua tedesca, venisse un giorno contattata dal Zamboni il quale da tempo era alla ricerca di qualcuno che traducesse per lui i cataloghi di una nota casa d’aste di Berlino. Ricordo ancora l’arrivo sotto casa della Lancia Flavia dell’avvocato e le lunghe sedute in salotto a porte chiuse a parlare di insetti rari ma soprattutto di farfalle per non dire della quantità di libri e schede fotografiche multicolori che, partito lui, rimanevano in giro per casa e che a noi nipoti ci era dato ogni tanto il permesso di ammirare.

La frequentazione dei due continuò a lungo. Nel frattempo io arricchii la mia collezione con due esemplari di Libellulas Ariosa catturati durante una fruttuosa gita estiva in montagna. La mia passione per le farfalle contagiò anche alcuni miei compagni di scuola tra i quali un certo Leo, un grassone dalla naturale propensione al bullismo. In classe il momento dell’intervallo, tra una lezione e l’altra, divenne ben presto una occasione per confrontare le rispettive raccolte, a volte per fare dei cambi. Venne il giorno in cui Leo cominciò a millantare l’avvenuta cattura di un grosso lepidottero notturno, un esemplare rarissimo di Acherontia Atropos, la famosa Sfinge testa di morto, e lo fece con aria di gran sfida esibendo continuamente immagini tratte da un libro di scienze ma mai mostrando la farfalla vera.

Poiché anch’io da tempo ero alla ricerca della medesima e avevo preso per vera la parola del mio borioso compagno, mi cominciò a montare dentro una gelosia incontrollata che continuò a perseguitarmi per giorni e giorni e fatalità volle che proprio in uno di quelli l’avvocato Zamboni venne a casa di nonna con i suoi cataloghi e, in particolare quella volta, anche con una serie di preziose vetrinette colme di farfalle vere, coloratissime, soprattutto rare, che incautamente lasciò a mia nonna da visionare - lo fece per un motivo pratico legato alle traduzioni; morale, io di fronte a tanta abbondanza non riuscii più a trattenermi e in un momento di pace pomeridiana, quando tutti i grandi pisolavano, mi intrufolai in soggiorno, aprii una delle teche e mi impossessai della farfalla più grande che c’era, un bestione con l’apertura delle ali di quasi 20 cm e queste ultime di un blu cangiante, contrastato da macchie nere scintillanti come seta.

Ricordo bene quale fu il mio primo pensiero, no no, nessuna vergogna, niente sensi di colpa, solo il piacere pregustato di vedere Leo schiumare d’invidia. Nonostante ciò, forse presago come di una bomba pronta a esplodere, non corsi dagli amici a far vanto della nuova acquisizione. Certo, il giorno in cui il grave ammanco venne scoperto non tardò ad arrivare. Ricordo ancora oggi le urla del Zamboni nel salotto di casa e le espressioni costernate della nonna che dopo l’incontro mi fece il settimo grado sospettando un mio coinvolgimento nella vicenda, arrivando a minacciarmi, insomma tensione massima in famiglia per giorni e giorni.

Non ammisi mai la mia colpa, negai sempre. Il Zamboni dopo un’ultima urlata e varie telefonate concitate sparì dalla circolazione. Nel frattempo pensai bene di nascondere la farfalla gigante in solaio, in mezzo a scatole di scarpe vecchie, convinto che una volta calmate le acque avrei potuto tranquillamente integrarla alla mia collezione. Ma lì la dimenticai.

—Vuoi dirmi che è ancora lì?
—Teoricamente sì.
—Ma scusa, a questo punto vendiamola. Mi sembra di aver capito che là fuori nel mondo esistono pazzi pronti a tutto pur di avere farfalle rare.
—Mah, non lo so. Non so bene in che condizioni sia, dovrei vedere. Domani quando torno a casa passo a dare un’occhiata.
—Io intanto mi attivo e guardo su EBay.
—Wow! Ma quanto sei svelta tu!

—Per caso ti ricordi come si chiamava la tua preziosa farfalla?
—Morpho Minelaus o Menelaus... questo me lo ricordo bene.
—Ecco guarda, su Google c’è Morpho Menelaus, lepidottero americano oggi estinto.
—Nooo! Estinto?! Ma allora la sua valutazione sarà altissima, domani vado subito a cercarla.
—Direi!
—Nabi, Nabi, mi gira un po' la testa. Stanno succedendo troppe cose e tutte insieme, io...
—Forse ti manca qualche ora di sonno. Non è che stai cercando una scusa per riportarmi a letto, eh?!
—In effetti non mi dispiacerebbe ridare un’occhiata a quella tua farfallina preziosa...

Andare alla ricerca della farfalla nascosta non fu una passeggiata. Quando la ritrovai, nascosta nel solaio di casa di nonna tra vecchi mobili e vasetti di marmellata dimenticati, mi prese un terribile senso di colpa retroattivo, cominciai a ripensare alle tensioni che la mia omertà aveva causato in famiglia, all’espressione di mia nonna che anche in punto di morte mi chiese solennemente se sapessi dove fosse finita misteriosa farfalla scomparsa e non ultimo a tutta l’energia che avevo dovuto produrre negli anni passati per non cedere mai alla tentazione di vuotare il sacco. La farfalla era intatta, con il suo colore cangiante come di seta indiana, un po' più piccola di come me la ricordavo ma questo già me l’aspettavo.

Nabi, nel frattempo, si era molto appassionata a tutta la storia e dopo lunghe trattative era riuscita a convincermi a mettere in vendita la farfalla e con nostra grande sorpresa è subito spuntato un signore giapponese, un certo Ken Takahata, che da Tokyo ha scritto una mail appassionata dicendo di voler assolutamente acquistare la nostra Morpho Menelaus e di essere pronto a pagare qualsiasi cifra.

Inutile dire che la notizia ci colpì profondamente. Per diversi giorni io e Nabi non fummo capaci di parlare d’altro e non parlo di liste di cose belle da fare con l’arrivo di quella insperata pioggia di denaro, no no, mi riferisco soprattutto ai rimorsi, a come elaborarli, a come fugare i dubbi e le paure che ignoravo di portare ancora dentro di me.

Neppure la ricevuta della banca con l’accredito di 50.000 euro parve mitigare tutte quelle turbolenze. La gioia certamente ci fu ma offuscata da mille pensieri contraddittori. Di positivo c’era stato sicuramente il fatto che avevo cominciato a vivere con Nabi, un cambiamento epocale che avevo potuto fare con leggerezza. Ci siamo scelti una bella casa in una bella zona della città, siamo stati all’Ikea a comprarci tutto quello che ci passava per la testa e in bagno abbiamo sostituito le vecchie piastrelle bianche con altre, moderne, decorate con farfalle multicolori.

Proprio in quel periodo mi capitò di fare uno sogno strano in cui c’era l’avvocato Zamboni che, in una casa piena di farfalle libere, mi guardava ridendo invitandomi ad entrare mentre io opponevo resistenza. La cosa peculiare però non fu tanto il contenuto del sogno ma il modo in cui quel sogno cominciò a tormentarmi. Non riuscivo a liberarmene, più cercavo di cancellarlo dalla mia mente e più sembrava che volesse tornare indietro, riproponendomi sempre le stesse immagini e procurandomi inquietudini e stati d’ansia che non avevo mai provato prima.

Un giorno a Nabi espressi apertamente il desiderio di scrivere all’avvocato Zamboni per raccontargli la verità e forse chiedergli scusa. Lei mi guardò, scosse la testa in segno di disapprovazione e non disse una parola. Meno male che non mi feci influenzare. Il risultato di quella scrittura fu sorprendente. Il mal di testa e l’ansia scomparirono all’istante. E la risposta alla mia lettera, giuntami un mese dopo, lasciò tutti a bocca aperta.

Gentile Francesco, grazie per la tua lettera, è proprio vero che la vita non smette di sorprenderci! Non so dirti quanto le tue parole mi abbiano commosso e divertito, l’immagine di te bambino che non resiste alla tentazione di far diventare più bella la sua piccola collezione sottraendo furtivamente l’esemplare più grande e colorato dalla vetrinetta del grande collezionista sembra tratta da un libro di fiabe.

Tu non mi devi niente, caro Francesco (bel colpo la vendita giapponese!), sono io piuttosto che ti sono grata - e lo sarò eternamente - per quello che hai fatto, anche se tu non potevi immaginare le conseguenze del tuo atto. Quando Nando tornò a casa dopo aver scoperto la vetrinetta vuota, ti parlo di più di vent’anni fa ormai, scoppiò tra di noi una lite furiosa durante la quale io potei esprimere tutta la mia frustrazione e la mia rabbia dopo dieci anni di matrimonio con un uomo capace di amare solo ed esclusivamente le sue farfalle, oggi forse direi solo sé stesso… in ogni caso la scomparsa della farfalla fu la goccia salvifica che fece traboccare il vaso. Dopo una settimana chiesi ed ottenni il divorzio. Non ricordo di aver preso una decisione più saggia in tutta la mia vita. Per questo ti dico ancora grazie.

Mi chiedi di Nando, quello che posso dirti è che dopo il nostro divorzio è andato un po’ via di testa o forse ha fatto anche lui qualcosa di rivoluzionario che avrebbe voluto fare da sempre, ha mandato a quel paese suo padre e tutta la famiglia di avvocati, lui stesso ha appeso al chiodo la toga, si è fatto crescere i capelli e la barba e con tutte le sue farfalle è partito per la California. Il resto lo ignoro e neanche mi interessa saperlo. Spero solo per lui che abbia trovato la felicità.

Con i miei più cordiali saluti.

Ester Campana

Quella lettera fece sicuramente da spartiacque tra il burrascoso periodo del ritrovamento della farfalla e il tempo in cui la vita pareva finalmente poter prendere un corso più lineare e pacato. Non è un caso che solo dopo aver fatto pace col mio passato – perché di quello si trattò - mi sentii pronto per fare nuovi progetti con Nabi. Ma come aveva scritto la ex moglie del Zamboni, la vita non smette mai di sorprenderci. Infatti, dopo circa tre mesi dall’arrivo della sua lettera, trovai nella cassetta della posta una busta lunga con il mio nome, affrancata con un francobollo degli Stati Uniti.

Gentile Francesco, spero che questa lettera ti trovi in forma. Il mio nome è Thomas Geary, non ci conosciamo ma forse presto succederà che ci vedremo perché il mio caro amico italiano Nando Zamboni, che invece tu conosci, non sta bene e mi ha chiesto di prendere contatto con te per dirti che vorrebbe tanto incontrarti, per questo ti invito a prendere seriamente in considerazione la possibilità di prendere un aereo e venire in California a trovarlo. Sono certo che non avrai di che pentirtene. Aspetto quindi con fiducia una tua risposta e ti mando un caloroso saluto da Palos Verdes.

Thomas

Istintivamente pensai a uno scherzo, non so di chi ma sicuramente uno scherzo, forse di Jan. Sì, ci eravamo visti recentemente e in quella occasione gli avevo raccontato tutta la storia della farfalla, e poiché mi sentivo in debito per avermi invitato al mare, il luogo in cui avevo incontrato Nabi, mi ero spinto oltre e gli avevo detto anche del suo tatuaggio, lo so, non avrei dovuto, in ogni caso sì, poteva essersi trattato di Jan. O forse Leo, il mio ex compagno di scuola, il ciccione, quello che ci bullizzava tutti e che si era appassionato di farfalle come me. Proprio l’altro giorno mi ha chiesto l’amicizia su Facebook e non ho resistito alla tentazione di stuzzicarlo proprio sul tema delle farfalle; è possibile che in quel modo gli abbia toccato un vecchio nervo scoperto e si sia voluto vendicare.

Insomma, mentre mi scervellavo alla ricerca del responsabile di quella sospetta lettera fake Nabi già selezionava le offerte dei voli per Los Angeles. Mentre io neppure lontanamente prendevo in considerazione la possibilità di un incontro col Zamboni, lei – mi rivelò più tardi – quell’incontro l’aveva segretamente sempre auspicato e più volte immaginato e quindi per lei quella lettera non solo era genuina ma andava presa sul serio, alla stregua di un dono giunto dal cielo.

Neppure quando, con somma vergogna, le rivelai di non aver mai preso un aereo in vita mia, lei assunse le mie difese mostrando una qualche forma di comprensione. “Ci facciamo due canne prima di partire così dormi per tutto il viaggio”, questa fu la sua risposta. Io che credevo di poter stare tranquillo, io che pensavo di aver superato le prove più dure della vita ora mi apprestavo ad incontrare il sommo Zamboni, l’ultima persona al mondo che avrei voluto rivedere. Mai la vita mi apparve tanto beffarda come in quel momento. E non ero più nella posizione di rifiutare o fuggire. Quella volta ero in trappola. Una settimana dopo eravamo in volo diretti a Los Angeles.

—Sergente Alison, si occupi della ragazza mentre io faccio quattro chiacchiere con il signorino.
—Ehi! Ma che modi sono, lei non ha nessun diritto di… e non mi tocchi!
—Ragazzo, ascoltami bene, qui siamo negli Stati Uniti, io sono il comandante della polizia dell’aeroporto di Los Angeles e fino a prova contrario, qui comando io. È chiaro? Quindi ora mi fai la cortesia di svuotare le tasche e di mettere su questo tavolo i tuoi effetti personali. Il mio collega, l’agente Norman, mi ha detto che dai documenti risulti italiano, posso sapere qual buon vento ti porta da queste parti?
—Sono in vacanza con la mia ragazza.
—Questo l’avevo già intuito. Diretti dove? Avete già stabilito la durata della vostra permanenza?
—No, veramente…
—Ah, questa risposta mi rende pensieroso, ma ricominciamo dalla prima domanda, dove siete diretti?

—Sì, certo. Il nostro obbiettivo è raggiungere la penisola di Palos Verdes, vicino a Torrance.
—Avete un indirizzo preciso? C’è qualcuno che vi sta aspettando?
—Sì, abbiamo degli amici che si stanno aspettando.
—Ah sì? Posso sapere i loro nomi? Dove stanno di casa questi vostri amici? Sono italiani? Americani?
—Una persona si chiama Thomas Gaery, poi c’è Nando Zamboni. Loro vivono nella comunità di Blue Butterfly.
—Ma pensa un po' che nome interessante. Un’altra domanda: è la prima volta che venite in USA?

—Assolutamente sì.
—Bene, direi che ci siamo, sei collaborativo, stai andando bene. Ora però, se non ti dispiace vorrei dare un’occhiata al tuo zaino e…
—Maggiore! Abbiamo appena controllato la ragazza, ha una farfalla tatuata sull’inguine.
—Sergente Alison, chiami l’agente Morgan, a questo punto fatele un controllo accurato, non vorrei sbagliarmi ma il mio fiuto mi dice che…

—Allora ragazzo, dove eravamo rimasti? Vediamo un po' cosa ci hai portato dall’Italia. Dunque, abbiamo un salamino, beh, questo già ti costerà una bella multa, le leggi federali non permettono l’importazione di carne suina, non lo sapevi?
—Veramente no.
—È scritto chiaro sull’application form del visto. Ma andiamo avanti, ah ecco. E queste due scatole cosa sono?
—Ehi! Per favore faccia piano, ci sono delle farfalle là dentro.

—Farfalle? L’avrei scommesso. Vuoi vedere cosa ci faccio io con le tue farfalle? (così dicendo butta per terra le scatole una alla volta e inizia a calpestarle)
—Ma cosa fa? Ma è pazzo? Le mie preziose farfalle! Ma come si permette? Io, io…
—Mi permetto, mi permetto, e ho ragione, guarda che belle buste di polvere bianca in mezzo alle tue fottute farfalle. Il mio fiuto non mi ha mai ingannato. Ora dovrai giustificare tutta questa roba davanti al giudice. Ti auguro di passare un lungo periodo di meditazione al fresco nelle nostre carceri federali.

—Droga? Ma non è possibile? Ci deve essere un equivoco, vi giuro che io non c’entro nulla con tutto questo, sono pronto a spiegare.
—Alza le mani e mettile contro quel muro, non te lo ripeterò una seconda volta, ok?
—Ehi capo, abbiamo perquisito la ragazza, è pulita, aspettiamo però l’esito delle radiografie.
—Io avevo con me solo delle farfalle, ho diritto ad avere un avvocato, sì io voglio in avvocato.
—Agente Morgan mi porti via questo giovane spacciatore. Non è il genere di persona che amiamo qui in California, vero? (e rivolgendosi alla collega) Ma quei fricchettoni di Palos Verdes non li avevamo sgomberati definitivamente qualche anno fa?
—Evidentemente hanno ripreso a trafficare le loro farfalline.
—E dire che il sindaco aveva promesso di spianarli con le ruspe.

—Francesco! Francesco!
—Oddio! Dove sono?
—Tutto bene tesoro, stai tranquillo. È stato solo un brutto sogno.
—Ci hanno portato via le farfalle?
—Quali farfalle, scusa?
—Che stress, sono ancora dentro il mio incubo. Ma dove siamo?
—Siamo nel nostro motel di Torrance, siamo arrivati stanotte in America, ricordi? Poverino, il jet-lag deve averti preso male. Vieni, ho appena fatto il caffè, ti aiuterà a tornare alla realtà. Hai visto che bel sole? Ha appena iniziato ora ad albeggiare.

—Sì, ma che ore sono? Non dovevamo incontrare Thomas. Si è già fatto vivo?
—Purtroppo no. Ma chiamerà, tranquillo. Tesoro, vuoi dormire ancora un po'?
—Addormentarmi ora mi fa paura.
—Non mi hai detto cosa hai sognato di così brutto.
—Taci! Farfalle, farfalle, ancora delle maledette farfalle…

(tre ore dopo)

—Prova a richiamarlo, dai!
—Sono ore che ci provo, il numero suona sempre occupato. Non so cosa pensare. E tu Francesco, come ti senti? Sei pronto per incontrare il mitico Zamboni?
—Non saprei, quello che so è che sono ancora un po' addormentato. Che ne dici se andassimo sul lungomare a prenderci una boccata d’aria?
—Ci sto. Ho visto che ci sono vari caffè, ecco sì, andiamo a prenderci un caffè.
(vibrazione di telefono)
—Pronto? Thomas? Sì, siamo arrivati.
—Wildflower Cafe tra 10 minuti? Il tempo di arrivare.

L’impatto con la cittadina di Torrance fu curioso e alquanto estraniante. Si capiva che non eravamo più in Italia, al tempo stesso la lunga serie di palazzine vista mare ricordava molto certe nostre località della costa adriatica. Forse le lunghe palme meno, senz’altro non l’odore persistente di patatine fritte e hamburgers che ci avvolse senza mai più lasciarci.

Rimanemmo davanti al Wildflower cafè per più di un’ora e solo dopo aver mangiato tre donuts a testa ci accorgemmo della presenza poco distante di un furgone camperizzato con una grossa scritta Peace&Love sulla fiancata e un tipo dalla folta chioma grigia seduto al posto di guida, evidentemente impegnato in una telefonata. Due minuti dopo lo vedemmo scendere dal mezzo e venirci incontro: era Thomas.

—Son giorni campali, perdonatemi — furono le sue prime parole. — Purtroppo le cose non vanno bene al campo, Zam stanotte ha avuto una crisi. Mi conforta vedervi e vi sono molto grato per aver risposto al mio appello.
—Che succede? Chi è Zam?
—È Nanny, Nanny Zamboni, il vostro amico italiano.
—Ah, ora capisco. Scusa se insisto, noi non sappiamo nulla del signor Zamboni, tanto meno che abbia problemi di salute. Potresti aggiornarci, per favore?
—Sì, certo, lo farò mentre andiamo insieme al campo. Non temete, vi racconterò ogni cosa.
—Ma è sempre così caldo qui? — chiese Nabi.
—Ma certo, siamo in California, baby!

Dieci minuti più tardi scoprimmo quello che Thomas aveva definito “il campo”, si trattava di fatto di una comunità vera e propria, una via di mezzo tra un Ashram indiano e un campeggio semi abbandonato. All’entrata era appeso un cartello con una grande sagoma di una farfalla e la scritta Blue Butterfly. Superata una prima zona adibita a parcheggio per le auto iniziava la parte più boscosa del terreno e si intuiva la presenza di alcuni bungalows dalla curiosa forma ovale e tucul in stile africano un po’ più piccoli. Tra gli alberi penzolavano diverse amache multicolori e dalle sagome piene si capiva che erano occupate.

—Sembrano bozzoli di farfalla — disse Nabi, un filo inquieta.
—La gente dorme ancora —disse Thomas sorridendo dopo aver notato le nostre espressioni perplesse.
—Venite di qua, vicino alla spiaggia c’è la casa di Zam. Ieri sera ci siamo dati il cambio in tanti per fare la veglia. Temiamo che non riesca a superare la prossima notte, almeno così dice il dottore. Ah ecco Tang, ora ve lo presento. Lui è il cuoco del campo, da anni cucina per tutti. Noi qui mangiamo vegetariano. E voi? Anche voi siete vegetariani?
—Non veramente…
—Ciao Tang, ti presento Nabi e Francesco. Sì, loro sono gli amici di Zam, sono arrivati stanotte dall’Italia. —Benvenuti a Blue Butterfly.
—Grazie.
—Ma ora andiamo da Zam, vi accompagno.

In fondo al boschetto scorgemmo una piccola costruzione in legno, stile palafitta. Anche quella costruzione, come i bungalows, aveva l’aria un po’ dismessa, come di una struttura che attende da tempo una mano pia che la rimetta un po’ in sesto.

—Cosa fate di bello in questa comunità? — chiese Nabi facendosi coraggio.
—È una comunità di giovani nata spontaneamente nel 1974 dopo il festival California Jam a Ontario. All’epoca molti ragazzi si sono stabiliti in zona, l’ambiente era cool, tutti suonavano e immaginavano un modo di vivere alternativo — rispose Tang, prima che Thomas potesse rispondere.
—Molti amici li abbiamo persi per strada a causa della droga, altri nel corso del tempo se ne sono andati — volle precisare Thomas.

—Un centro spirituale?
—Sì, ma senza guru, senza idoli e preghiere. Qui abbiamo fatto della libertà una filosofia di vita. Io e Nanny siamo stati tra i fondatori. Abbiamo avuto anche una band per alcuni anni, ci chiamavamo Iron Butterfly. Il nostro album “Metamorphosis” quando è uscito ha letteralmente spaccato.
—Wow! Che emozione conoscere dei veri dinosauri del rock — ha aggiunto Nabi.
—Cosa vuoi dirmi? — disse Thomas. — Me lo dirai dopo. Ora andiamo che ci stanno aspettando.

Salimmo una scaletta con alcuni gradini mancanti e raggiungemmo un terrazzo ombreggiato da due grosse palme. Da lì Thomas e Tang ci fecero strada per entrare da quella che pareva la porta principale. Una tenda di conchiglie proteggeva dal via vai frenetico di alcune mosche. All’interno, in una camera ampia e un po' spoglia, con un tavolo, un vecchio computer e numerose lattine di birra sparse sul pavimento, scorgemmo in fondo un letto stile ospedale e disteso sopra quel letto un vecchio canuto, anche lui con i capelli lunghi, sciolti. Assomigliava al cantante di Led Zeppelin, sì, pareva proprio Robert Plant.

Nella stanza si respirava un’aria allegra e festosamente chiassosa, alcuni bambini seminudi inseguivano un grosso cane peloso che si lasciava torturare e c’erano anche due giovani donne in pantaloni corti e canotta, apparentemente in procinto di apparecchiare un tavolino basso fissato a delle ruote. L’unica cosa insopportabile era il caldo, un caldo umido terribile. Per questo tutti i presenti, compreso Plant/Zam, grondavamo sudore da tutti i pori.

—Vieni avanti ragazzo mio, avvicinati al letto, non avere paura.
—Ma noi… noi ci conosciamo?
—È passato un po' di tempo ma io mi ricordo ancora bene di te, di quando eri bambino, sai? Erano i tempi in cui frequentavo la casa di tua nonna e tu…
—Ah, ma lei quindi è il famoso avvocato Zamboni?
—In persona, anche se nessuno mi chiama più avvocato da anni. Puoi chiamarmi semplicemente Zam se vuoi, mi sembra più appropriato (e si mette a tossire). —Incredibile.
—Che cosa trovi incredibile?
—Non mi sembra vero, incontrarla dopo tutti questi anni.

—In effetti quello che sta avvenendo in questo momento ha dell’incredibile. Jane! Jane! Ma tu hai capito chi abbiamo di fronte?
—Un’idea ce l’avrei. Mi parlasti di un moccioso che anni addietro ti ha sfilò dalla borsa una preziosa farfalla, o qualcosa di simile.
—Esattamente! Sono sempre stato convinto che questo giorno prima o poi sarebbe arrivato. E ho avuto ragione. Eccoci qua. Certo che la vita è magica. Anzi, direi comica.
—Che vergogna, io non so come spiegare, io non avrei dovuto… io… io…
—Non sprecare il tuo fiato con inutili manfrine, so tutto di te. Sappiamo entrambi come è andata. So anche che recentemente hai venduto la mia Morpho Menelaus.
—Oddio! Ecco, lo sapevo, il danno ora si moltiplica. Avrei dovuto immaginare che la voce si sarebbe diffusa.

—Ken Takahata è un amico di vecchia data, un grande collezionista.
—Allora è stato quel giapponese a tradirmi? E ora che ne sarà di me? Lei mi denuncerà? Mi chiederà di ritrovare la farfalla? Vuole indietro il maltolto?
—Oh no, nulla di tutto ciò. Ascolta, non mi manca molto da vivere, come vedi sono piuttosto malconcio (ricomincia a tossire). — Non ti ho chiesto di attraversare l’oceano per venirmi a parlare dei tuoi sensi di colpa. Io non ho avuto figli, la vita non mi ha fatto questo regalo. In compenso ho spesso pensato a te, all’episodio del furto, e da qualche tempo sono giunto alla conclusione che se avessi potuto avere figli io avrei voluto un figlio come te.
— Ma no! Ma cosa dice? Io le ho rubato una cosa preziosa, una cosa sua.

—Ma non ci stavamo dando del tu? Certo, nel momento in cui scoprii la teca vuota mi partì un embolo in testa dalla rabbia e dal nervoso. Se avessi potuto metterti le mani addosso ti avrei strozzato. La frustrazione e l’ansia in quel periodo mi distrussero letteralmente. Poi però successe qualcosa di indescrivibile e di inatteso e la mia vita cambiò. Ebbi uno scambio molto franco e acceso con Ester, la mia moglie di allora. Tra di noi volarono gli stracci, lei mi accusò delle peggior cose, io inizialmente non capii ma dopo mi giunse un’improvvisa chiarezza nel cuore e sentii dentro di me che era giunto il momento di volare via, che finalmente potevo farlo. Tutte le mie paure scomparvero all’istante. Abiurai la mia professione, presi congedo dalla mia famiglia di origine, salutai gli amici, lasciai tutto. E realizzai il sogno di sempre, andare in California e vivere da uomo libero.
—Signor Zam, non vorrei sembrarle monotono ma io continuo a sentirmi in colpa per averle creato tanto dispiacere.

—Concentrati. Fai un bel respiro e cerca di comprendere il senso di quello che ti sto dicendo. Si tratta in fondo di un processo trasformativo che potrebbe riguardare anche te. Ti stavo raccontando che all’inizio della mia vita non fu per niente facile accettare quello che mi fu presentato. Ero tarpato in tutti i modi, deviato rispetto alle mie inclinazioni, per sopravvivere dovetti fingere e accettare quello che la realtà mi aveva proposto. Mi salvarono le farfalle. Capii ben presto che la mia attrazione verso quelle piccole creature rappresentava qualcosa di più di un hobby. E per questo cominciai a collezionarle per poterle studiare. Io mi sentivo come loro, ma non lo dissi a nessuno. Imparai da loro a pazientare, esattamente come il bruco nel bozzolo attende silenzioso il suo destino e la sua metamorfosi. Con la certezza che un giorno sarebbe arrivato anche per me il momento del volo. Il momento della libertà. Certo, non basta avere le ali, quello che poi fa la differenza è il coraggio o meno di spiccare il volo. È quello l’attimo in cui si decide tutto.

—E tu? A che punto sei tu nella vita?
—Mah, veramente io...
—Non è da tutti prendere un aereo e venire a cercare un vecchio cacciatore di farfalle.
—Non è stato facile. Se non ci fosse stata Nabi non credo che da solo ce l’avrei fatta.
—Dai, ora non farti piccolo.
—No, no, è vero. È la prima volta che prendo un aereo.
—Ah, ma allora è stata una grande prova, bravo. Anch’io da ragazzo ho avuto le mie fobie. Come ti ho detto, a lungo sono rimasto bloccato. Pensavo di non poter più muovermi, agire, crescere.
—Sono anni ormai che mi sembra di girare a vuoto, pensavo di voler studiare e ho smesso. Ora lavoro ma lo faccio per sopravvivere, passo da un posto all’altro senza alcuna convinzione forse perché…

—Forse perché?
—Forse perché il mio grande sogno non si è mai avverato e oggi credo di aver perso le occasioni e...
—Posso chiederti quale è il tuo sogno?
—Suonare in una band di musica prog. Oltretutto quel genere di musica oggi è diventato di nicchia quindi credo che con tutta la mia buona volontà il mio rimarrà un sogno nel cassetto.
—Ehi! E adesso cos’è questa improvvisa arrendevolezza?
—Chiamala come vuoi. Credo che ci sia un tempo per tutte le cose. Io quel treno l’ho perduto.
—Cazzate! Chi ti ha messo in testa queste stronzate? Ora ti voglio mettere alla prova. Dove ho messo il telefono? Jane! Jane! Tu sai dove è finito il telefono?
—Prova a guardare nel solito posto, sotto il cuscino.

—Ah! Eccolo! (compone un numero di telefono e poi si mette in ascolto non perdendo di vista i presenti). — Sara? Ciao cara, sono Zam, scusa la voce bassa ma oggi non sono in forma, come stai? (segue qualche secondo si silenzio). — Ascolta Sara, l’avete poi trovato il chitarrista giusto per la vostra band? Ah, non ancora? Bene! Scusa, intendevo dire mi dispiace, so che per te rappresenta una spina nel fianco, tu sei come tuo padre, credi molto nella musica, sei sempre stata una ragazza di profonde passioni… ehm, ti ho chiamata per dirti che il cielo mi ha portato oggi un brillante chitarrista italiano, sì è qui davanti a me, si chiama Francesco, ama il prog… certo, altrimenti non te lo avrei detto, così ho subito pensato a te... no, non l’ho sentito suonare ma sai, lui è un cacciatore di farfalle come me, quindi se dice di saperci fare con la chitarra vuol dire che è vero, non siamo mica chiacchieroni noi.

—Bene. Direi a questo punto di organizzare un incontro che dici? Domani nel tardo pomeriggio? Sì, meglio sul tardi perché altrimenti schiattate dal caldo. Tu stai sempre nel tuo caravan vicino al parcheggio di Hermosa Beach? Super! Dai che domani incontri il tuo chitarrista! Sei contenta? Io molto. No, non posso venire, ultimamente le mie gambe non mi reggono granché e poi col caldo ho gonfiori dappertutto. Però poi mi dirai come è andata, d’accordo? Ciao cara, ciao, si, anch’io ti voglio bene e ti abbraccio tanto.

—Allora, Francesco, è fatta. Domani potrai riagguantare il tuo sogno!
—Purtroppo io domani ho il volo di ritorno da Los Angeles e…
—Quante storie, puoi tranquillamente posticipare il tuo ritorno in Italia.
—Non credo, perché il giorno dopo devo fare l’apertura del bar. Se non mi presento ho paura che mi toccherà sentire l’urlo del mio capo.
—Ci tapperemo le orecchie.
—Sì, poi però resto disoccupato. Io non posso permettermelo.

—Ahi! Non mi hai ancora chiesto una informazione sulla tua futura band e guarda con quale impegno stai costruendo il tuo castello di scuse. Mi chiedo se tu voglia realizzare i tuoi sogni veramente. Fai sempre così, tu? Ora capisco. Comunque questa è la tua vita. E te la giochi tu come vuoi. Ecco, questo è l’indirizzo di Sara. È una vocalist straordinaria, il resto lo scoprirai tu. Ammesso che tu lo voglia scoprire.
—Signor Zamboni, io non so…
—Ma non mi chiamavi Zam? Dai, vieni vicino e dammi un abbraccio, Zam non ha mai morso nessuno.

Quelle furono le ultime parole che udii di Zam. La notte stessa – io e Nabi eravamo rimasti a dormire al campo, alloggiati in una tucul – venne a svegliarci Tang e ancora prima che parlasse capii dall’espressione del suo volto che era successo l’irreparabile. Lo spirito pacifico e leggero di Zam aveva lasciato il suo corpo poco dopo la mezzanotte. Tang ci invitò a partecipare ad un rituale collettivo in suo ricordo fissato per il mattino successivo. Il funerale e la cremazione sarebbero avvenuti al più presto a causa del caldo diffuso di quei giorni.

Congedati da Tang, presi per mano Nabi e insieme ci dirigemmo verso la spiaggia. Era ancora notte, spirava un venticello tiepido e forse per quello la visione del cielo e delle stelle era molto chiara. Ci spogliammo nudi e attendemmo il primo raggio del sole per tuffarci nel mare. Avremmo potuto essere ovunque. Mi sentii leggero, liberato. Quando nel rivestirmi indossai i jeans feci il gesto di cercare qualcosa nelle tasche e ne trassi fuori il pezzo di carta con il numero di telefono di Sara. Per la prima volta mi fu chiaro quello che avrei fatto da grande.