Dalla prua, seduto, intona “Riderà”. Non lo conosco bene. La confusione va, la sua voce è isolata e calma.

Attraverso le grosse finestre verticali vedo nebbia, cala sino a far sparire l’esterno. Strette su una seduta a tre, in quattro mastichiamo frutta secca. I termosifoni sono spenti, si sta bene. La luce bianca illumina tutto, l’atrio dell’ascensore, la macchinetta con snack e caffè. Non smette di piovere, abbiamo i piumini bagnati. Li lasciamo sugli schienali di ferro. Siamo stanche ma, da grandi, distinguiamo la vita dalla morte. Ridiamo e ci facciamo serie, allineandoci all’argomento. Andrà bene. I corridoi dell’ospedale sono vuoti. É sabato. È difficile immaginare che, al di là di quel campanello, ci sia un reparto pieno. Da qui, sembriamo sole, mentre fuori, la tempesta svuota le strade.

Uscendo, sotto la pioggia, mi chiedo se ho perso tutto. Ispirazione, conoscenza, stabilità.

Nell’ultimo anno, corretta troppe volte. Sottolineata sbagliata. Non sei tu. Non fare così. Perché fai così. Cos’hai. Dovresti essere in questo modo. Assurda!

You can’t fix me because I’m not broken.
I don’t need to be fixed. Ok! I’m me”.

[Non puoi ripararmi, non sono difettosa.
Non ho bisogno di essere riparata. Ok! Sono solo me.]

(Shameless – serie tv)

È metà febbraio, sembra già primavera. L’inverno è sparito e si è portato i miei cappotti.

Sono responsabile. Rispetto scadenze, adempio ai doveri. Ho perso il tempo del pensiero per farlo. Cancello frettolosamente i capoversi nervosi. Me ne libero. Li scrollo, come la pioggia dai piumini bagnati. Basta trascinarmi contestando. Vado avanti, ho bisogno di fermarmi.

Lei mi chiede se sono triste. Alla domanda, chi ci circonda al tavolo zittisce, aspettando. Allora, mi giro a destra, lo guardo. È spettinato, sembra buffo e sbotto in una risata incontrollabile che la trascina. Sembriamo uguali. Anche quando ridiamo. Il modo in cui parla e muove, siede scomposta sulla sedia, di lato, con una gamba piegata, tirata su, in cui convive con la coscienza, uscendone sconfitta, di tanto in tanto. La voglia di trovare tempo per stare sola. Magrezza e dita di mani lunghe, come il nonno. Va bene. Le risate hanno risposto alla domanda. Penso di essere esaurita e che lo sappiano ma, riso e sbadigli sono contagiosi. Ci lasciamo andare.

Non sono onnipotente, nessuno crollerà se mi fermo. Ci sono momenti, un pomeriggio in ospedale, per i quali bisogna essere liberi, sfuggono al controllo.

In camera da letto, il vetro sporco del balcone è pieno di scritte, tracciate con il suo dito, quando appannato. Disegni e saluti. Leggo “I’m happy”. Non ci avevo fatto caso prima. Sicuramente, lì da molto. Tutto attorno gli infissi, la tinteggiatura, è picchettato di muffa che si estende a cornice lungo il perimetro del soffitto. Insalubre, nessuno di noi interviene. Attraverso con lo sguardo il tracciato sul vetro, l’albero spoglio ha consegnato la prima foglia. Fa caldo.

Non posso essere arrabbiata, il sole non me lo consente. Sono la stessa, non essendolo. Nuova di zecca e antica, con un drappo in più scolpito. Un cliente mi invia la foto di una barca a vela durante una regata, penso che sia il momento di un cambio di rotta.

Esco per lavoro. Mi accompagna. L’auto in curva spoglia la visuale di un balcone con un anziano senza gambe. Messo al sole, una pianta a seccarsi. La signora bionda del primo pianerottolo rientra trainata dal cane e ride allo strattone vitale, ringraziandolo, senza parlare. L’energia, dal guinzaglio agli angoli della bocca, le ricorda che ha fatto bene a ricominciare. L’ho vista triste in passato, ora ricorda il sorriso accogliente di Laura Linney. Lasciamo entrare in auto i vicini per un breve passaggio, sino alla clinica. Lui ha una gamba da medicare e lei borbotta, per quel minuto che trascorriamo insieme. Non riesce a uscire, lei si precipita. Vanno via ma, resta un odore dolciastro di sigaretta. Il signore del piano terra ha dovuto smettere. Si è ammalato. É alto e magro come uno spillo, da un po', ormai, i suoi vestiti hanno lasciato i mozziconi spenti e quando parliamo non sono distratta dal ricordo di mio padre.

Rientrando, penso al sole, sperando di trovarlo con i raggi obliqui sul minuscolo terrazzo, quando vedo l’ombra mi spengo delusa. Prendo a spazzare, come a dirgli che sarò pronta ad accoglierlo. Mi butto sul letto per qualche minuto e mi rialzo facendo leva sul polso per mettermi seduta. Un dolore intenso mi blocca e penso di essermi giocata qualcosa.

Devo fermarmi. Sono ingolfata. Alzare la testa. Non parlerò a un mare che mi vuole diversa, dirottata, a fondo, seguirò le onde di un tempo buono, della corrente, riderò.

E se ci diranno
Che per rifare il mondo
C'è un mucchio di gente
Da mandare a fondo
Noi che abbiamo troppe volte visto ammazzare
Per poi dire troppo tardi che è stato un errore
Noi risponderemo: «no, no, no!».

(Luigi Tenco, E se ci diranno)