Siamo a rimuginare su un tempo che non c’è. Al funerale, tanta gente, tanti volti noti e altri mai visti prima. Una ragazza si asciuga gli occhi prima che le lacrime precipitino, sembra quasi non piangere, se non fosse per la bocca e il colorito paonazzo. Ai discorsi dei parenti cado a pezzi ed io, meno brava, mi bagno tutta la faccia, riparata dalla folla che guarda l’altare. Perché sono lì?
Avevo solo diciassette anni quando due compagni di scuola morirono in un incidente in moto. Nel tentativo di salvare l’uno, l’altro. I caschi insanguinati sono stati condotti attraverso le file di adolescenti, al Cristo in croce. Un amico non è tornato da un’uscita subacquea. Il corpo è stato ritrovato sulla riva. Stefano, si è impiccato e io ancora mi arrabbio perché l’ho rifiutato.
Anche in quelle occasioni, la disperazione aveva riempito la chiesa. Hanno detto che sono partiti per un viaggio ma, ci incontreremo tutti, abbiamo un’unica destinazione. Hanno detto “consolatevi, andrà tutto bene”. Incontrerò anche quelli che non mi sono piaciuti, che ho tenuto lontano. A ritrovarci, valeva la pena essere eterni qui. Sicuramente mi sfugge qualcosa che il prete brasiliano, molto democratico nei racconti, verso la mista comunità presente di fedeli e non fedeli, non può chiarirmi in questa sede.
Lascio la chiesa e torno a lavoro, così, un po' tumefatta dentro ma, presentabile. Alla riunione nel tardo pomeriggio, mentre mi interrogano su CILA, guaina e impermeabilizzazione, so che qualcosa non va.
Questi giorni sono caldi e io accelerata, troppo carica. Sento uno strano disagio. Sarà un picco ovarico o l’ipersensibilità che ha caratterizzato gli ultimi mesi. Mi sento stretta, strettissima. Potrei dire che non ho imparato nulla dai corsi sulla gestione del tempo ma, non è così. Non manca l’aria. É come se fossi prossima a un’asfissia che prevedo, evito. Non vorrei spostarmi dal getto bollente della doccia. Mi sento abbattuta e stanca, sciacquo i piedi nell’acqua gelata. L’esigenza di spegnermi, dormirmi. Svegliarmi stordita. Sono irritabile, in bilico su una fune di cui non vedo capi. Non è il lavoro, le paure, i tradimenti, i lutti, l’assenza di una solitudine necessaria, richieste disattese, inadeguatezza, il respiro corto, il nervosismo, la fallimentare voglia di non essere responsabile, la stanchezza, la prudenza. É stratificato. Alloggio in un disagio che, dovrebbe essere di passaggio. Mi trovo, di nuovo, tra foglie secche in un passato da lasciare. A rimuginare su un tempo che non c’è. Inaugurare una nuova stagione di me e usare il vento per avanzare.
Imparare a non fare niente.
È arrivato il ciclo, più caldo e abbondante del solito. Mentre lavo il sangue dal margine degli slip, rifletto che quello che pensavo fosse un anticipo di menopausa, era solo stress. Così ha detto il dottore. Sono stressata. Il corpo sa quello che la mente nasconde. Il mio corpo sa più di me, devo ascoltarlo. Fidarmi. Seguirlo. Se il corpo sa ma, non sa gestire e la mente sa ma, mi nasconde informazioni che non sono pronta ad accettare, cosa dovrei fare? Stare ferma, sola, innocua. Come posso assentarmi dal dovere di madre, di sorella, amica. Il tempo non lo posso recuperare. Lei cresce. Un tempo a cui voglio assistere. Capire la storia, assistere gli atti, uno ad uno. Odio la bocca all’ingiù e il tono aspro. Vorrei farle il solletico, trovare un grado di distrazione, recuperare un’altra me. So bene che deve vedermi, anche così, non avere la foto di un fantoccio che invecchia, inalterato.
Eppure, non posso, non riesco, non ora.
Dal balcone di fronte sento singhiozzi. La disperazione delle donne ha suoni particolari, riconoscibili. La signora che implora l’ho incontrata una volta insieme a mia madre. Si sono parlate alcuni minuti. Un breve riassunto di quanto non si erano dette. Oggi piange e mi sembra dica “non lo vedrò più ma, torna a casa”. Le parole, rotte dal pianto, non sono chiare. Per questa dichiarazione è uscita sul balcone a condividere con tutti il suo dolore, nel tentativo di proteggere chi intravedo sull’uscio. Un visino pieno di incomprensione. Chi gli spiegherà cosa accade? So, con chi parla. Lo vedo alla fermata e chiacchieriamo di tanto in tanto. La mattina esce e fuma, anche lui su quel balcone.
I miei si sono traditi per anni, costantemente. Non li ho mai visti litigare, disperarsi, quando disperati. Tutto sommato, che bisogno c’era. Si sono visti, accettato lo stato. Quale alternativa abbiamo. Sono rimasti fedeli amici per il resto della vita, fino ai loro addomi acuti. Perché la fedeltà e il tradimento hanno varie facce. Un po' pentiti, a loro dire, col tempo, più inclini a credere, benevolmente, che avrebbero potuto proseguire con i loro difetti, i loro vizi, le loro intolleranze. A volersi così bene, valeva la pena. Io credo, che avrebbero coltivato troppo a lungo l’infelicità e che a dirlo era facile, a distanza. Ho sempre dedotto la fine di quella relazione e anche quando siamo andate via, nessun bisogno di discorsi. Anch’io non faccio scenate. Non so farle, non ci sono cresciuta, non mi ci hanno educata.
Mi chiedo a cosa stia rinunciando la vicina, perché, e domani, quando questa disperazione inizierà a prendere forma e avrà il suo contenitore, come guarderà ad oggi, al passato recente che la condiziona. Quello che aveva cercato, l’aveva resa felice? Se vi rinuncia è perché ritiene di avere sbagliato, di essere stata ingiusta? Perché ha cercato, se aveva? E se non aveva, aveva bisogno e ha trovato, perché vi rinuncia? Così facilmente poi. È terrorizzata e d’istinto si protegge contro l’ignoto o pensa di proteggere qualcuno, da lei? Chi proteggerà in seguito lei dai suoi eventuali rimpianti?
I miei, infine, avevano sposato l’idea del pentimento, dopo aver però rincorso la felicità. L’avevano trovata deludente? L’avevano trovata? Temporaneamente. Sappiamo che non esiste un’estasi perpetua. Se ne siamo consapevoli, perché d’istinto ne siamo tesi verso? Non dobbiamo quindi neanche cercarla? Quello che abbiamo deve essere abbastanza? Perché continuiamo a cercare se siamo pronti a rinunciarvi. Cosa ci spaventa? Rinunciamo a qualcuno, a qualcosa, o più semplicemente a noi stessi? Cosa ci preoccupa? Il giudizio, la perdita, il cambiamento, il dolore, ferire, la responsabilità, il rispetto?
Loro avevano pensato che sarebbe stato meglio restare insieme, sopportarsi. Il male minore. Avere un compagno caro, qualcuno a cui tornare, alla fine della fame, quando la corda allenta e vuoi stare fermo a guardare, te, lui, il tempo che hai lasciato andare. Di fame si tratta, qualcosa da saziare? Qualcuno che ci abbia visti e nonostante tutto decida di restare. Cosa si è l’uno per l’altro in una lunga relazione?
Ora è tutto calmo. È rientrata in casa. Aleggia ancora la sua disperazione, una vibrazione persistente. Quando lo vedrò, farò finta di nulla.
Rassetto il divano, raccolgo dal pavimento un pezzetto di carta. È un piccolo post-it bianco con la grafia di Maddie. C’è un grosso smile, di quelli con la bocca lunga e larga che fa lei in questo periodo. Un’enorme parentesi tonda in orizzontale. Piccoli occhi distanti, un fiore su quello destro e una linguaccia. Sotto, in stampatello c’è scritto: “neanche 1 brutta giornata dura + di 24 h”. Dove l’avrà letto o sentito? Probabilmente in uno di quei video YouTube che guarda quando si annoia finendo per annoiarsi di più. Neanche una brutta giornata, dura più di ventiquattro ore, mi ripeto.
È proprio così.