Una brutta giornata chiuso in casa a pensare una vita sprecata non c’è niente da fare non c’è via di scampo mah Quasi quasi mi faccio uno shampoo uno shampoo.

(Giorgio Gaber – “Lo shampoo”)

Senza di te sono come una tazza sbeccata. Non mi manca un pezzo, sono solo rotta. Ho una nuova identità.

Sembro, indecisa sul da farsi. Sono sempre stata così. Non sono indecisa. Sono il contrario. Sento. Per questo indugio. Sono sicura di volermi alzare? Magari resto al calduccio altri cinque minuti. E indugio. Faccio la lavatrice? Ho voglia di fare colazione? Mi metto prima al pc? Cerco lavoro? Cambio lavoro? Quando inzuppo la maddalena nel caffè macchiato, nella tazza sbeccata, sono sicura di essere in equilibrio. Non lo faccio perché va fatto. Esame di diritto commerciale o partenza? Esco o resto a casa? Giro a destra o a sinistra? Cammino o mi fermo? Ci resto insieme o lo lascio? Guardo un film o una serie? Doccia o solo shampoo? Mi faccio uno shampoo. Mi godo la bellezza del supporre, rimpianta dagli angeli di Wenders che sanno di sapere sempre tutto.

Sento però costante una resistenza. La resistenza a ciò che si oppone. Agli scemi felici che si frappongono al cammino.

Povera gente, i testicoli da cui siamo nati, sono ancora sempre la nostra sostanza. Immensamente più felice è lo scemo, il povero, il malvagio, di cui funzioni il membro, che non il genio, il ricco, l'evangelico, anormale là sotto.

(Cesare Pavese – “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950”)

Ai malvagi che cercano un'isola alleata per mari ingiusti, andando a bracciate ridicole, presunte strategiche, piuttosto imbarazzanti. E che si affannino! Crepino, gonfi, tronfi, annaspando. Resistenza agli stronzi che abusano degli ingenui. Ai manipolatori. Agli ignoranti, senza ambizione per il sapere. Resistenza a quelli che non alzano mai la testa verso il cielo, spingendo altri verso il basso. Sento, il peso di quelle manone sporche, palmi, da nuca a testa, che forzano vista bassa. Cercano, invano, di portarmi, costretta, alla cecità, a non opporre resistenza. Sento, capelli appiccicati con sudore e sputo. Resistenza al disagio. Lo vedo, il buio del pozzo nel quale mi vorrebbero contenere.

Respingo fondo e panorama palustre. Spingo, talloni e punte verso l'alto, altro. Mi giro e vomito, su quelle mani grosse, unte, doppie, che apro a coppa, a cui fare resistenza. Restituisco acido, giallo, svuoto. Sento, quando mollano la presa, lasciano scie di passaggio a cui repellenza reagisce a rilascio lento. Le vedo galleggiare, dove li invito a disperare, resistendo alla pulsante tentazione di soccorrere quella perversione.

Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

(Salvatore Quasimodo – “Milano, agosto 1943”)

Resistenza alla pena. Li sento i nervi che trasferiscono agitazione alle gambe. Resisto alla sensazione, come al pensiero. Mi lavo. Razionalizzo. Scodinzolo. Resistenza alle paure degli altri. Al contagio. A chi ha concluso ma, non ha compreso. A chi ha chiesto ma, senza un perché. Ai disturbati, demotivanti, ai tossici. Ai ladri, di quelli che sottraggono pace. Ai prepotenti, ai dittatori. Ai violenti. Resisto a quelli che non rispettano piante, animali, considerandoli aberrazioni insensibili, deviati dallo stato di ospite ad ospitante. Resisto a quelli che a casa no ma, per strada sbavano la gomma da masticare a terra. Resisto ai falsi, salvando la creatività di alcuni bugiardi. Resisto a chi sfrutta, truffa, approfitta, inganna. Ai passivi e ai parassiti. Resisto alla rabbia di resistere, alla fatica. Resisto alla resistenza.

Mentre inzuppo la maddalena, mi chiedo di quell’aroma ma, non indago, suppongo l’idea che l’accompagna e quel dolcetto tradizionale mi ricorda un sottomarino. L’idea di supporre. L’idea. La questione non è se sia mandorla o cosa, la questione è il ricordo del sapore che è più sapere del sapere stesso. Non resisto all’informazione a portata di mano, non ne ho bisogno, alla lettura degli ingredienti a un passo da me. Accompagno la maddalena alla bocca e conservo immagini che sanno di memoria, mentre sbircio dall’asola della tenda rotta in cucina i campi da tennis vuoti sotto la pioggia e la terra rossa farsi compatta. Accompagno, non resisto. Ora non voglio informazioni, stringo il sapore.

Vedo la strada. O mi senti o lasciami stare. Se vuoi camminare con me, andiamo dove non devo resistere. Lasciami leggera e radicata. Accompagnami mentre io accompagno me.

Non sono ancora riuscito a sentire bene dentro di lei (…)
È questa la solitudine (…)
Nessuno ascolta quello che accade nell’altro
Nessuno guarda nel cuore degli altri (…)
Cosa ci sto a fare io qui a vagabondare e vedere come si fa giorno
e poi di nuovo notte
niente ha più senso (…)
per il momento posso solo dire
«è di una bellezza seducente».

(Wim Wenders – “Così lontano così vicino”)