Un recente volume dedicato alle muse che guidarono l’astro fulmineo di Egon Schiele (Tulln an der Donau, 1890 – Vienna, 1918) è stato il punto di partenza per ritornare su strade che ho più volte percorso durante i miei studi di storia dell’arte.
Parto, inusualmente, da un’esperienza personale poiché da tempo non mi capitava una biografia romanzata ben orchestrata come Le Fiamme di Sophie Haydock (edizioni Salani per l’Italia) che mi ha obbligata a (ri)pensare la figura centrale che l’artista, originario di Tulln in Austria, ha avuto, ha e continuerà ad avere sulle arti figurative in toto.
Un ipotetico viaggio alla sua (ri)scoperta può iniziare proprio fra le pagine dell’opera prima della Haydock (recentemente intervistata), per proseguire fra quelle della studiosa italiana Eva Di Stefano ed il suo lavoro monografico: Schiele, edito da Giunti. Il volume è un esaustivo excursus delle maggiori opere del genio austriaco, il quale – in soli ventotto anni di vita – ci ha lasciato migliaia fra disegni, opere grafiche e dipinti. L’autrice sottolinea l’impossibilità di scindere Schiele dal contesto storico – artistico viennese dell’epoca, particolarmente agli albori del 1918, quando, dopo la morte di Klimt, Egon è unanimemente etichettato come il suo successore spirituale. A detta dello stesso Klimt, il talento del giovane prodigio era senza precedenti.
Un fenomeno grandemente introiettato per dipinti che sfidano lo spettatore con un’intensità destinata ad aumentare nel tempo. E’ questo l’aspetto strabiliante del suo operato sottolineato da Di Stefano, la quale ne ricostruisce l’intera biografia avvalendosi – altresì – di raro materiale iconografico, analizzandone la travagliata infanzia (alle prese con un padre folle) fino all’arrivo a Vienna con le sue infinite possibilità, dove è in atto una svolta epocale che vede l’arte porsi nuovi quesiti. Le opere di Schiele stesso, spesso autoritratti, oppure ritratti delle donne a lui più vicine: la sorella Gertrude, l’ex amante Wally, la moglie Edith e la cognata Adele sono caratterizzati da tratti sempre più spigolosi a delineare uno stile unico ed inarrivabile, con linee taglienti che non risparmiano né le nature morte, né i ritrattati né se stesso. Il volume Giunti pone l’accento sull’utilizzo del linguaggio del corpo fra le sue pennellate, pregne di eros vibrante e convulso con corpi che si contorcono divenendo un tutt’uno con le proprie pieghe, fra ombre e lividi.
“Vedere” non è guardare. E’ qualcosa di più”, scrive Schiele nel 1911. Davanti alle sue opere, fra le sale del Museo Leopold di Vienna (depositario della Collezione più ricca al mondo di opere di Schiele) possiamo tentare di comprendere le sue parole ed i motivi di una fascinazione che perdura da oltre un Secolo.
E’ bene partire – innanzitutto – da un superbo allestimento permanente (e relativo catalogo di approfondimento) dedicato alla Vienna del 1900. Il percorso si snoda, illustrando le gesta di Rudolf Leopold (Vienna, 1925 – Vienna, 2010) e della sua strabiliante collezione nata negli anni Quaranta, quando era poco più che ventenne. Rocambolesche le sue gesta e tutte da gustare fra le sale e fra le righe (anche avvalendosi della biografia ragionata ad opera di Diethard Leopold, edita da Hirmer nel 2018). Vienna 1900 è il giusto compendio ad una delle realtà museali più importanti al mondo; focalizzato sul cambio di direzione netto portato dal Novecento. Un cambiamento filosofico, scientifico e culturale destinato a mutare radicalmente la percezione del sé, con un trionfo della tristezza ed un nuovo protagonismo dell’angoscia che trovano libera espressione in tutte le arti, non più entità separate ma totali e totalizzanti. Il Museo Leopold con oltre 8.000 opere, collezionate nell’arco di cinquant’anni presenta capolavori di Klimt, Gerstl, Kokoschka, Moser, Kubin e – naturalmente – Schiele. Il catalogo monografico che accompagna l’esposizione permanente si apre, evocativamente, su di un carboncino datato 1906 (Egon ha 16 anni) raffigurante un busto di donna che dimostra appieno l’abilità accademica dell’artista, nella perfezione delle proporzioni. Gli anni si susseguono e danno modo di ammirare le nature morte (più vive che mai) con fiori audaci per un’interpretazione completamente personale dello Jugendstil. I nudi radicali non lasciano scampo nella loro bellezza mozzafiato contorti e sublimi, pregni o privi di colore come è il caso de La Mano Verde del 1910, un disegno sorprendente dove la mano in primo piano pare avulsa dal contesto, quasi “staccata” dal resto del corpo.
La ricerca stilistica prosegue all’insegna dell’esagerazione e del contrasto. La Madre Morta (1910) con i suoi giochi di chiaroscuri e colore, buio e luce, pace ed angoscia, vita e morte. Moa, scatola magica che racchiude movimento, giochi di colore e contrasto netto tra realismo ed astrattismo. La scioccante bellezza di Piccolo Albero a Fine Autunno a simboleggiare il flebile destino dell’uomo, quasi ad evocare la propria, imminente fine. L’Autoritratto con Lanterna Cinese (da osservare insieme al Ritratto di Wally) è impossibile da narrare, occorre “ascoltarlo” nell’apparente quiete ed inalterata ferocia. Non basta una sola visita (e, forse, nemmeno una sola vita) per immagazzinare i dettagli di opere al di là dell’eterno. Un brivido percorre lo spettatore al cospetto delle opere datate 1918, anno in cui Schiele muore (a pochi mesi di distanza da Klimt e dopo aver creato il manifesto dell’Esposizione della Secessione di quell’anno) pochi giorni dopo la moglie, incinta di sei mesi, a causa dell’epidemia di Spagnola. E’ il fremito della consapevolezza che trasfigura la morte dell’uomo e dà modo al genio di tramutarsi in leggenda.