A Marina di Ravenna, ma anche a Marina Romea e a Punta Marina, il mare lo devi scoprire. Forse non è un caso; queste città balneari avvisano prima, nel loro nome, che lì c’è il mare.
Altrimenti non lo vedi.
Oltre al nome, però, esistono e resistono altri segnali, una specie tutta particolare di cortine naturali; alcune vivono ancora, altre non ci sono più.
Dove ora c’è il porto industriale una volta c’era una strada che dalla Darsena di città, costeggiando il canale, conduceva a Marina di Ravenna. Resistono invece, magari per poco tempo ancora, il sentiero in mezzo alla millenaria pineta e, al suo limite, le dune.
E sulle dune, i capanni.
Nei capanni, come scrive più avanti Cesare Albertano, vi è “l’idea primordiale della capanna” e i gesti delle persone che lì hanno condiviso riposo, gioco delle carte, cibo, riparo dal sole e da piogge improvvise. Vi è una sorta di sacralità che, con le sue tradizioni, ha origine dalla terra. I ravennat* infatti continuano ad amare più la terra del mare.
E interrompere e annullare questa sacralità è un assassinio.
Tutte le volte, infatti, che si cancella la memoria della tradizione si crea un’assenza, un vuoto legato al lutto.
E ora i capanni balneari, la mostra, la denuncia, sono temi che affronterà Cesare G. Albertano, già docente di Storia e di Materie Letterarie presso le Scuole di Istruzione Secondaria in Italia e presso l’Università di Tucuman (Argentina) e di Granada (Spagna), autore di saggi, romanzi e testi teatrali nati dalla sua attività di ricercatore storico indipendente. E mio caro amico.
I capanni balneari
Sul litorale ravennate, tra il mare e la pineta, ancora si intravede un’infilata di capanni balneari, oggi sempre più rada, quasi sparita. Reperti di una storia passata incastonati nel territorio, segni consolidati nel paesaggio, quasi archetipi di case in miniatura ma così umili da richiamare piuttosto l’idea primordiale della capanna. Sono nati sulla sabbia più di cento anni fa, ne sono rimasti in tutto una settantina, conservati nella quasi totalità dei casi in buone condizioni. Costruiti per ripararsi dal vento e dal sole, usati come deposito per sedie e sdraio, luoghi ideali per pennichelle nel meriggiare pallido e assorto del nostro paesaggio, scelti per cocomerate diurne o come alcove notturne. Appartengono a quel mondo che stava per scoprire il tempo libero, nati dalle nuove abitudini di realtà locali che sarebbe perfino improprio ascriverle al fenomeno del turismo, ma che spingevano intere famiglie dalla città o dalla campagna a scoprire il mare da raggiungere in bicicletta o con mezzi pubblici.
Modesti, appoggiati sulla sabbia, erosi dal vento, quattro assi tenuti insieme da qualche chiodo, una pianta che non supera i due metri per due, alcuni dotati di una piccola verandina in facciata, altri di una finestrella, il tetto a due falde con una altezza massima di due metri e mezzo, dai colori accesi, in genere azzurro o verdone, anche se oggi quelle vernici al sole si sono spesso trasfigurate in monocromi che ben si mimetizzano con la sabbia. Così si andava al mare nei primi anni del Novecento e per una buona parte dei decenni successivi – un’evoluzione delle nuove pratiche mediche inaugurate nell’Ottocento, legate alla talassoterapia e all’elioterapia, in quel vero e proprio fenomeno che avremmo poi chiamato turismo.
Negli anni Trenta il piano regolatore prevedeva che, oltre alle aree destinate alla realizzazione di stabilimenti balneari, fosse anche prevista la costruzione di capanne private per raggiungere la completa valorizzazione della spiaggia. Poi nel dopoguerra irruppe il boom economico, quello che ha trasformato i paesaggi e alterato le fasce costiere in nome del turismo di massa.
E i capanni? Sorti in modo spontaneo da un passato che ci sembra sempre più remoto, si sono trovati ai margini degli stabilimenti balneari in espansione, ma negli anni sono riusciti a sopravvivere, assumendo di fatto la funzione di presidio contro l’allargamento delle aree di servizio di quegli stabilimenti e, di conseguenza, hanno svolto un ruolo di difesa delle dune costiere e garantito il libero accesso all’arenile. Nella loro semplicità sono entrati nel nostro spazio visivo, ultimi esempi esistenti di una architettura così spontanea da diventare natura essa stessa, protagonisti nel plasmare la nostra stessa visione del litorale. Costituiscono un unicum paesaggistico, contrappuntando uno spazio fatto di dune, pineta, olivelli, tamerici e altre piante tipiche. Eppure oggi sono a rischio di abbattimento e rimozione.
La mostra “Oh, capanni!”
I capanni balneari sono stati fonte di ispirazione per molti artisti di fama come Giovanni Fattori (un gioiello ante litteram il suo "Capanno su una spiaggia" del 1865-67), Carlo Carrà, Ottone Rosai e di pittori locali come Arrigo Ranuncoli, Maceo Casadei e Werther Morigi. Non potevano che essere oggetto di interesse anche per fotografi come il grande Luigi Ghirri, ma anche per fotografi locali come Guido Guidi, Giovanni Zaffagnini, Paolo Equisetto e tanti altri ancora. Impossibile citarli tutti perché tutti hanno fotografato i capanni, artisti riconosciuti e dilettanti di passaggio, attratti dalla loro perfetta collocazione nel paesaggio.
In mostra nella sede dell’associazione "Disordine" di Ravenna vengono presentati tre sguardi tra loro diversi ma convergenti, con oggetto proprio i capanni: l’esperto occhio da professionista di Eros Antonellini, un maestro nel ricco e qualificato mondo della fotografia ravennate, sempre consapevole che fotografare non è solo un modo di vedere la realtà ma di riflettere su di essa; l’occhio spontaneo e veloce di una allieva di Guido Guidi, Vittoria Katia Zuccherelli, dilettante dello scatto fotografico perché capace di trovare in esso diletto costante e forma ricorrente di ricerca e di espressione; l’occhio artistico, onirico e fiabesco della pittura calligrafica di Mariella Busi De Logu, illustratrice dei nostri sogni e dei nostri pensieri più nascosti. Guardare è difficile, non c’è una scuola che lo insegni, ognuno impara da sé: l’occhio indaga lo spazio, la mente fruga nella memoria e come d’incanto incontriamo i capanni con i loro i profili leggeri, macchie di colore tra la sabbia e il sempreverde delle conifere di mare.
La denuncia
Oggi i capanni balneari della riviera ravennate sono a rischio di rimozione o abbattimento, anche se i motivi sono nebulosi e contraddittori, nonostante la voce di Parco Marittimo richiami il concetto di tutela e di conservazione del paesaggio e delle biodiversità. Spesso utilizzati come cartoline promozionali, sono oggi diventati degli “ingombri”, degli “abusivi” perché fuori regola al pari di catapecchie deturpanti il paesaggio e pericolose per l’ambiente. Eppure, in contesti fortemente antropizzati come quelli di Marina di Ravenna, Punta Marina, Marina Romea, il capanno costituisce un vantaggio per l’ambiente e non certo un ostacolo.
Senza ombra di dubbio sono da considerare un bene paesaggistico da riconoscere, un patrimonio culturale e storico unico da tutelare, un esempio di archeologia balneare ormai unico in Italia, una eredità architettonica ed etnoantropologica da rispettare. Non sono degli intrusi, non sono inadeguati, non hanno nulla a che fare con gli insediamenti abusivi: sono leggeri, reversibili, sostenibili, rispettosi dell’ambiente, pensosi, poetici, mai inutili, parte di noi e della nostra storia.