Ma cos’è l’arte? Tutto quello che fa l’uomo? La riproduzione della natura? Un viaggio alla scoperta della bellezza? Oppure è libertà? O ancora un linguaggio che cerca di trasmettere emozioni e di avvicinarci all’inconscio?
Nessuno è mai riuscito fino ad oggi a fornire una convincente definizione dell’arte e per questo forse non fu così colpevole il funzionario della dogana statunitense che riuscì a vedere solo un pezzo di metallo in una scultura che qualche decina di anni dopo sarebbe stata battuta da Christies alla ragguardevole cifra di 27 milioni di dollari.
D’altronde all’inizio del secolo scorso solo le rappresentazioni naturalistiche venivano ritenute elementi artistici e quell’oggetto di bronzo lucido su una base di metallo poco aveva a che fare con un uccello in volo, come invece pretendeva il proprietario-artefice.
Così il doganiere lo classificò come ‘utensile da cucina’ destinato al commercio sul quale non poteva essere applicata l’esenzione fiscale. A niente valsero le indignate proteste dell’autore della scultura, Costantin Brancusi, e dell’amico artista che lo accompagnava, Marchel Duchamp.
Per sdoganare il suo ‘Uccello nello spazio’ e esibirlo al Brummer show Brancusi dovette pagare gli oltre 200 dollari che l’irriducibile doganiere gli chiedeva, equivalenti e superiori ai 2000 dollari attuali. Ma l’artista non era tipo da lasciar passare questa offesa e chiese giustizia. Così, mentre all’interno della comunità intellettuale internazionale si tornò a discutere ancora una volta su cosa fosse un’opera d’arte, un tribunale statunitense fu chiamato per la prima volta a prendere una decisione su questa materia indefinibile.
Dal 21 ottobre 1927 al 26 novembre 1928, giorno del giudizio, si alternarono davanti ai giudici avvocati e testimoni. «Quello che chiamate uccello somiglia ad un uccello per voi?», chiedeva il giudice riferendosi a quella ‘lama’ lucente e un po’ ricurva, materia di tanto contendere. E ancora: «Se voi lo vedeste lungo la strada non pensereste di chiamarlo ‘uccello’, vero?». Alla fine, però, i giudici riconobbero che quell’oggetto, pur se non fedele al modello che voleva rappresentare, era piacevole da guardare e lo identificarono finalmente come scultura.
Ma se Brancusi aveva vinto quello che a buona ragione è considerato il processo più celebre della storia dell’arte, l’intera vicenda gli procurò amarezza e delusione. «Non ho voluto scolpire un uccello, ma un volo», si giustificava lui, sottolineando la dimensione metaforica, poetica e filosofica dell’opera. Oggi quegli uccelli nello spazio piccoli e grandi, di marmo, di legno o di bronzo levigato che brilla come l’oro, spiccano il volo dall’ultimo piano del Centro Pompidou, abbracciando i cieli di Parigi dalla vetrata piena di luce.
Sono il cuore della mostra dedicata all’artista rumeno che ha inventato la scultura moderna, semplificando i volumi fino a raggiungere forme perfette ed essenziali di grande equilibrio e armonia. «La rottura provocata da Brancusi nella storia della scultura è tripla», sottolinea la curatrice dell’esposizione Ariane Coulondre. «Prima di tutto il gesto, perché lui affronta direttamente la materia, abbandonando la tecnica del modellaggio, in atto dal Rinascimento a Rodin, che permetteva correzioni o cambiamenti. L’altra rivoluzione è quella della forma, che Brancusi semplifica per andare al di là delle apparenze, alla costante ricerca dell’essenza delle cose. Infine lui rivoluziona la stessa visione della scultura facendola interagire con lo spazio che la circonda».
Non a caso il giovane Brancusi, arrivato a Parigi a 28 anni dalla nativa Romania, lascerà dopo pochi mesi l’atelier di Rodin, perché ‘all’ombra dei grandi alberi non nasce niente’ e perché quei corpi perfetti che il grande maestro lo chiamava a scolpire altro non gli sembravano che ‘cadaveri di modelli’. Lui, invece, era alla ricerca della purezza delle forme, della dimensione spirituale degli oggetti che si nasconde nella materia. La sua è una sfida diretta al marmo, al bronzo o al legno. Nel suo atelier non ha assistenti, né praticanti. È solo di fronte ai materiali che nella sua ‘filosofia’ hanno un’energia propria e comandano sul soggetto. Ciò che esce dalle sue mani deve essere l’anima del visibile. «Ciò che è reale non è la forma esteriore», diceva, «ma l’essenza delle cose».
Basta guardare Mademoiselle Pogany, ritratto idealizzato della bellezza universale per capire il senso della sua arte. Enormi occhi a mandorla, volto ovale, bocca minuscola e sguardo vuoto. Un condensato di emozioni che nasce da un’armonia perfetta. Certamente la signorina Margit Pogany, artista ungherese approdata a Parigi per andare a scuola di pittura, non assomigliava per niente a quel ritratto. Brancusi l’ha eseguito a memoria, dopo che lei aveva lasciato frettolosamente Parigi, interrompendo anche il legame che l’aveva unita allo scultore.
La Baronessa Renée-Irana Frachon, musicista, grande viaggiatrice e poetessa, passeggiava invece nell’atelier quando Brancusi faceva qualche schizzo da cui poi avrebbe ricavato il ritratto che gli era stato chiesto. Che ancora una volta ritratto non era, ma solo forma pura e armonica. Ed eccola La musa addormentata con gli occhi chiusi e il volto isolato dalle spalle e dal collo che si abbandona alla dolcezza dei suoi sogni. «È uno scultore molto delicato e personale, le cui opere sono tra le più raffinate», scriverà di lui il poeta e critico d’arte Guillame Apollinaire.
Non sempre, però, Brancusi ricevette lodi dai suoi contemporanei. Oltre all’affaire americano del suo Uccello nello spazio che lo aveva condotto in un’aula di tribunale, un altro scandalo lo vide protagonista quando, nel 1920, esibì al Salon des Indipendentes la sua Princess X, che nella sua idea avrebbe dovuto rappresentare la femminilità. Ma quando Matisse, che faceva parte della giuria, vide l’opera esclamò divertito: «Ecco un fallo». E Signac, che di quella giuria era il presidente, pretese che fosse ritirata. Ma una petizione di giornalisti, artisti, letterati e scienziati, tra cui Picasso, Braque e Marie Curie, alzarono la voce reclamando l’indipendenza dell’arte, tanto che Signac fu costretto a riammettere l’opera.
«È l’eterno femminile ridotto alla sua essenza», spiegava Brancusi. Ma in realtà l’ambiguità non mancava e ancora oggi chi può dire se siamo di fronte all’immagine piuttosto verosimile di un fallo oppure a quello ideale di una donna? O forse, come si domanda qualche critico, Princess X è l’incarnazione del desiderio sessuale femminile?
Certo non è facile addentrarsi nei meandri del pensiero di un artista nello stesso tempo riservato e socievole, misterioso e schietto, un po’ mago e un po’ bambino. Arrivato a Parigi dai Carpazi dopo un lungo viaggio a piedi, prima di diventare famoso ha fatto un po’ tutto, compreso lavare i piatti in qualche osteria. Qualcuno lo ha descritto come un isolato o, peggio, come un eremita, ma in realtà era un uomo colto che sapeva di letteratura e di filosofia.
Il suo atelier al numero 8 dell’Impasse Ronsin era luogo di feste dove si parlava di arte, ma si beveva anche champagne e si ballava. La mostra in atto al Centro Pompidou prova a far entrare il visitatore nella testa di Brancusi ricostruendo non solo la carriera dell’artista, ma anche la sua vita, a cui si sono affacciati, tra gli altri, Modigliani, Léger, Duchamp, Man Ray, Tristan Tzara e Ezra Pound.
Centinaia le fotografie con cui lui stesso immortalava le varie opere per meglio mostrarle in tutte le loro sfaccettature e centinaia i dischi che lui, grande appassionato di musica, ascoltava durante il lavoro.
Ricostruito anche l’atelier di Impasse Ronsin che negli ultimi anni della sua vita era diventato di per sé un’opera d’arte dove esponeva, come su un palcoscenico teatrale, le sue molte opere secondo posizioni e luci diverse. Così Leda, figura della mitologia greca sedotta da Zeus trasformato in cigno, nelle mani di Brancusi prende essa stessa la forma di un cigno stilizzato che si rispecchia su un disco di acciaio che gira in continuazione per riflettere i diversi effetti luminosi.
Fuori dall’atelier lo scultore è alla ricerca della monumentalità. Due le Colonne senza fine con cui si vorrebbe metaforicamente unire la terra e il cielo: una, alta 7 metri, nel giardino di un amico in Francia, e l’altra di 30 metri eretta in Romania come omaggio funerario ai morti di Targu Jiu.
«Ma non cercate formule oscure né misteri nelle mie opere», ammoniva lui. «È la gioia pura che voglio donarvi».
Brancusi morì nel 1957 e lasciò in eredità tutte le sue opere e il suo atelier alla Francia. Oggi sono custodite al Centro Pompidou.