Parigi, intorno agli anni Settanta del XIX secolo. Attraverso velocemente Place de la Concorde. Ho fretta. La piazza è quasi vuota. Ho lo sguardo rivolto in basso, attento a dove metto i piedi. In fondo, sul margine alto del mio cono visivo, scorgo il ministero della Marina, l’inizio di rue de Rivoli, i giardini di Tuileries dietro il muro di recinzione e una macchia, che dovrebbe essere il monumento in omaggio alla città di Lille, ma non ne sono sicuro. Intravedo una carrozza che sta entrando tranquillamente nella piazza da sinistra. Sono assorto nei miei pensieri. Poi, improvvisamente, girando lo sguardo verso destra mi accorgo che proprio accanto a me sta attraversando la piazza in direzione opposta alla mia il visconte Ludovic-Napoléon Lepic con le sue due figlie Eylau e Jeanine, insieme al loro leviero Albrecht. Noto che un signore alla mia sinistra si ferma a osservare il visconte. La scena senza dubbio merita attenzione.

Il visconte come sempre è elegantissimo nel suo completo grigio e il cilindro nero, come eleganti e disinvolte sono le figlie. Il visconte non si è accorto di me, cammina immerso nei propri pensieri con un ombrello sotto il braccio sinistro e con un bel sigaro in bocca.

È la scena dipinta da Edgar Degas nel 1875. Degas ci mostra un incontro casuale, privo d’importanza, un evento che rimane sullo sfondo della nostra vita e che sarà subito dimenticato. Non vi è niente di eroico, memorabile. Non c’è la rappresentazione dei valori immortali della Patria, della Religione, della Scienza. Non viene esaltata nessuna virtù morale o civile. Il dipinto non vuole educarci, non vuole farci nessuna morale, non vuole imporci la presenza ingombrante dei grandi uomini da cui dovremmo trarre ispirazione, né eroiche gesta di santi, condottieri e capitani d’industria. D’un tratto, tutta la pittura occidentale viene risucchiata in un passato che non ci appartiene più.

Ma cosa intende dipingere Degas? Non vuole né celebrare, né contestare, né esaltare valori. Non vuole sottomettere la sua attività di artista a un programma o a un’ideologia. Con la propria pittura vuole ‘semplicemente’ partecipare al suo mondo, e fermarsi qui. E in effetti Degas dipinge il proprio mondo, il mondo borghese della Parigi della seconda metà dell’Ottocento immerso nei suoi riti e nei luoghi che frequenta: l’Operà, il balletto, i bordelli, le corse dei cavalli. Non traduce la propria osservazione in un programma: assiste al gioco della vita senza alcun intento celebrativo. Ma come sfuggire a una rappresentazione posticcia della vita sociale?

Già, perché ogni volta che l’individuo si presenta sulla scena sociale, mette in scena una rappresentazione di sé: fornisce agli altri l’immagine che gli sembra quella più appropriata, accettabile, conforme alla parte che vuole giocare nella grande commedia umana.

Per cogliere il vero celato sotto la rappresentazione di sé Degas deve inventare un punto di vista. Sa che deve sfuggire alla trappola osservatore-osservato. Vi è una bella poesia di Laing che spiega questa trappola:

Stanno giocando a un gioco. Stanno giocando a non giocare a un gioco. Se mostro loro che li vedo giocare, infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare al loro gioco, di non vedere che vedo il gioco.

Degas è consapevole che se mostra di stare osservando il gioco sociale, la punizione sarà che gli altri si mostreranno a lui artista-osservatore una maschera. È la punizione che l’artista dovrà sopportare. È la punizione degli artisti impegnati a fare i ritratti di uomini illustri. Sa che solo i grandi maestri sono stati in grado di vedere sotto il velo della rappresentazione e mettere a nudo l’animo del soggetto in posa.

Degas sceglie la via di non mostrare di vedere il gioco. Scegli un punto di vista defilato, nascondendosi allo sguardo del soggetto osservato. Così può farsi osservatore senza essere attore del gioco sociale. Ma è solo il primo passo. Il secondo consiste nell’osservare il soggetto quando è fuori dal gioco della rappresentazione sociale, quando è solo con se stesso, quando il comportamento esteriore è diretto da movenze interne, più corporee che spirituali. I soggetti di Degas sono corpi in movimento: corpi che sbadigliano, corpi che si riposano, corpi di stiratrici estenuate dalla fatica, corpi di piccole ballerine che si massaggiano le caviglie, corpi di donne che si attorcigliano per lavarsi in una tinozza, corpi che, come il visconte Lepic, semplicemente camminano.

La nuda esigenza del corpo impone il gesto, e per Degas questa è la porta d’accesso ad una pittura della ‘verità’: la scoperta dell’uomo in sé e non per sé.

L’intenzione non basta. Ora deve inventare un linguaggio pittorico per mettere in forma l’evento quotidiano, inessenziale ed involontario. Un evento non necessariamente bello secondo i canoni della composizione, secondo ciò che nelle accademie artistiche viene intesa come ‘la bella forma’. Il dipinto del visconte con le figlie e il cane è un brillante esempio del linguaggio compositivo di Degas. In uno spazio vuoto irrompe una forma in un piano troppo ravvicinato.

Le figure sono tagliate a metà come con colpo di forbici. Anche l’osservatore e la carrozza che entrano in scena da sinistra sono colti in sospensione, parte dentro e parte fuori della cornice del quadro. La scena è una nuda e fugace apparizione, fermata miracolosamente sulla tela nella continuità di una trama temporale che ha un prima e un dopo. Anche lo spazio prosegue oltre i margini del dipinto. Non basta.

Degas crea un campo di tensioni rompendo ogni simmetria: le figure del visconte e delle figlie, troppo di lato e troppo in basso, si discostano dalla simmetria centrale (prima tensione); il visconte non si erge dritto ma pencola a destra (seconda tensione); guarda a destra mentre le figlie e il cane volgono lo sguardo a sinistra (terza tensione); dietro di loro, lo spazio troppo vuoto della piazza costringe l’occhio dell’osservatore a percorrere il bordo superiore e quello di sinistra per trovarci qualcosa (quarta tensione). Tutto appare animato, provvisorio e disordinato. Un’immagine non memorabile di vita colta al volo, distrattamente.

Per far sì che un evento occasionale diventi memorabile, Degas estrae i gesti dei protagonisti e la composizione del dipinto da una moltitudine di bozzetti preparativi. Sa che la verità intuita con uno sguardo e con una emozione va poi ricostruita dalla memoria se vuole diventare arte. Afferma:

Va molto bene copiare quel che si vede; ma molto meglio disegnare quello che non si vede più, se non nella memoria: è una trasformazione in cui l’immaginazione collabora con la memoria, e così non si riproduce se non quello che vi ha colpiti, cioè l’essenziale.

E ancora:

Un quadro è una cosa che richiede tanta furberia, malizia e vizio, come l’esecuzione di un crimine; bisogna falsificare e aggiungere un tocco di natura …

La malizia dell’artista Degas sta nel trasfigurare l’evento quotidiano purificandolo dal grigiore e dall’opacità, estrarlo dallo sfondo della vita, per reinventarlo e sollevarlo a una dimensione a-temporale e a-materiale, nella stessa regione eterna e mitica dove già gli dei e gli eroi vivono la propria vita immutabile.

Degas risponde così alla domanda che Georges Perec si porrà nel 1989 a proposito della letteratura: “Ciò che accade veramente, ciò che noi viviamo, il resto, tutto il resto, dov'è? Ciò che accade tutti i giorni e che ritorna ogni giorno, il banale, il quotidiano, l'evidente, il comune, l'ordinario, l'infraordinario, il rumore di fondo, l'abituale, come renderne conto, come interrogarlo, come descriverlo?”. Degas avrebbe molto da insegnarci su come vivere con maggiore pienezza, felicità e meraviglia l’esperienza quotidiana. Ma non scrivo per fare la morale. Però vi ricordo il dialogo di Alice con la Duchessa:

“Forse non c’è una morale” si arrischiò a dire Alice. “Piano, piano, piccina!” replicò la Duchessa. “C’è sempre una morale, basta saperla trovare”. […]. “Che mania ha di trovare la morale in tutte le cose!” pensò Alice fra sé.