Vivian Maier fotografa l’eccedenza della realtà cogliendone soltanto l’essenza. Un’essenza che coincide con ciò che è stato piuttosto che con ciò che ne rimane. È un’eccedenza che viene prima nel suo sguardo e non una reliquia ossia un ciò che resta del reale. La Maier non coglie o non sa cogliere il superfluo, l’eccessivo, non conosce mai la posa, lo studio, esclude dal proprio sguardo quella che è l’attuale autoreferenzialità delle immagini ridotte a marca di consumo che mai sconvolgono, pose che non scompaginano, non feriscono. La Maier agisce per sottrazione, decostruisce, parcellizza, protagonista discreta dei suoi scatti se non occasionalmente e per riflesso.

Afferma così un esser-ci autentico e mai narcisistico, una consapevolezza di essere tanto da non sentire la necessità di mostrarsi se non come ombra o come appunto riflesso. In compenso, il suo sguardo si nutre e ci nutre di quotidianità altrui, più regista che fotografa, più narratrice di eventi, di tranches de vie talmente consueti da risultare inconsueti, attuali e inattuali al contempo, pertanto validi per ogni tempo. I suoi scatti «pungono» à la Barthes, non vi è studium né posa e, pertanto, è l’immagine stessa che «sguarda», che convoca, che invita. La realtà quotidiana ne esce come «sacralizzata», «benedicente», risultato del sacrificium dell’artista che sottraendosi afferma il grande Altro dell’arte.

Solo in Van Gogh o in Ligabue troviamo una potenza espressiva così piena di essere, che non ha necessità di esporre, ostentare ma di descrivere (solo) ciò che c’è, ciò che costeggia il vuoto, come fa l’argilla che proprio attorno al vuoto trova la possibilità del vaso. La Maier sconosce l’autoscatto come forma di memoria di sé o a futura memoria; a questo predilige gli squarci, le ferite, i tagli che la impressionano e con cui transitivamente impressiona.

Oggi, di fronte al vuoto interiore che caratterizza un’umanità anestetizzata e inconsapevole è nel selfie che l’io cerca di riprodurre sé stesso, per cogliere la sicurezza di vivere ancora. La pratica maniacale del selfie non è riconducibile a una forma di narcisismo che rimarrebbe comunque nell’alveo di un soggetto che c’è per quanto possa essere disturbato, il selfie riproduce uno svuotamento, non costeggia il vuoto come la vera arte. Esso è il vuoto.

Nell’impossibilità di “vedersi vedersi”, i selfie sono appunti per rammentarsi di esistere ancora una volta. Tutto è ridotto a pose che si ripetono compulsivamente, serialmente, con una bulimia la cui ritualità prevede l’ingozzarsi per poi rigettare sui social media. La fotografia digitale, oggi, non immortala più un evento o un’opera, ma la nostra presenza a quell’evento o dinanzi a quell’opera. La fotografia digitale è l’ultima frontiera di un narcisismo che esclude, sacrifica l’evento in nome di una memoria esibita e non più custodita. Il volto invece e la Maier lo sa bene, sempre richiede distanza.

Si tratta di un “tu” e non di un “questo” che è a solo a mia disposizione. Proprio perché il volto ha perso il suo sguardo, allora diventa possibile cliccare con il dito sull'immagine di una persona o finanche cancellarla. Lacan direbbe che l'immagine racchiusa nel touch screen è priva di sguardo, essa serve solo come “pascolo” degli occhi che soddisfa i miei bisogni.

Lo schermo digitale, nella misura in cui scherma completamente dalla realtà, non lascia trapelare nulla. In altre parole: è piatto. Senza occhi, né sguardo. La Maier è, invece, custode rigorosa e attenta della realtà da lei immortalata come lo è stata dei piccoli che le affidavano nel suo lavoro di bambinaia.

In Vivian Maier non manca mai la mancanza. La mancanza, nel suo sguardo prima e nella sua fotografia poi, colma il vuoto e si fa domanda. Non necessita di pose se non quelle che imprevedibili accadono e le si manifestano. Questa sensibile artista in vita non sviluppò né tantomeno stampò nessuno dei suoi scatti, ritrovati poi solo casualmente.

Bibliografia

F. Diotallevi, Dai tuoi occhi solamente, Neri Pozza, 2018.
J. Maloof, C. Siskel, Alla ricerca di Vivian Maier. La tata con la Rolleiflex, Feltrinelli, 2018.
J. Maloof, Vivian Maier. Una fotografa ritrovata, Ed. Contrasto, 201.