Non si può non rimanere impressionati dinanzi alla vita e ai dipinti di questo “sublime misantropo” innamorato della natura, delle bestie e del mistero connesso, sotteso ed eccentrico a una realtà letta e dipinta senza alcuna idealizzazione, ma al contrario restituita interamente come sublimazione di pulsioni, che spostano il loro oggetto da un irraggiungibile compimento sessuale per “la donna” che non conoscerà mai, verso una meta più elevata e di maggiore valore comunitario.
In Toni el mat le tesi sulla sublimazione freudiana sono tutte incarnate e dirette verso un’arte primordiale nei contenuti e almeno inizialmente negli strumenti per poi divenire soddisfazione sociale e affermazione del grande “Altro” della creazione artistica. Arte come avvicinamento, come modalità di estensione di un io che, irriducibile a ogni schema sociale, vuole raccontarsi, vuole arrivare, rendersi fruibile, prossimo. Attraverso i colori, così come nei soggetti, che siano insetti, serpenti, mucche, aquile, tigri, cavalli o ancora il proprio stesso volto, Ligabue rimuove tutto ciò che non è conforme all’idea che ha di sé, ossia sa di essere Artista, e non matto anzitutto, si riconosce pittore in azione, ne sente tutto il peso come un dono necessario, violento, archetipico.
Le sue opere lo strappano da ogni catena psico-sociale, strappando il medesimo spettatore dallo sguardo consueto sul mondo, aprendo squarci che mostrano un universo inedito, nuovo, cruciale. In Ligabue come in Van Gogh si può fare esperienza dello Stoss di Heidegger, dell’urto dello choc che apre a un mondo tutto nuovo facendo collassare quello precostituito e producendo uno sguardo diverso per intensità, durata, direzione, profondità.
Ligabue entra e introduce un mondo sorprendente, mai scontato, ove la luce, il colore, la matericità della tela o della creta si fa essa stessa opera delle mani dell’uomo e quindi gesto, un gesto che è sempre portatore di un nuovo significato. Per questo il pittore apolide e abbandonato, rinchiuso, vilipeso, disprezzato come matto e diverso è capace come pochi nel primo Novecento di lasciar nel cuore la traccia di un incontro. Un’esperienza simile a un incontro sorprendente è il trovarsi vis a vis con la sua Faccia ossuta già di per sé opera, segno e significato al contempo.
I suoi autoritratti hanno qualcosa di «elettrico» che scuote, qualcosa che resiste, ma che ad un tratto si arrende, come dovettero arrendersi i suoi contemporanei e riconoscerne tutto il genio. Il prodigioso contro l’ordinario: così potrebbe essere riassunto il percorso di questo artista extra-ordinario che, come Salgari, non viaggiò mai nelle terre che amava narrare, ma che come un prodigio, appunto, è stato capace di “vedere” e descrivere mondi mai direttamente sperimentati.
Le sue “bestie” di altre terre strappano lo spettatore dall’ordine del consueto, abitudinario, dalla ripetizione seriale del già conosciuto e del già pensato. Il perturbante è sempre in agguato, che si tratti di un moscone sulla fronte, o del naso sanguinante, di un falco che si avventa su una preda inconsapevole o di un serpente che stritoli una tigre: in Ligabue tutto si fa attesa e sorpresa.
Ligabue è artista totale inscindibile dalla propria umanità delicata e ferita di continuo, ecco perché la bellezza espressa dai colori accesi e violenti è una bellezza che urtica, ferisce. Ligabue non copia la natura, ma si fa natura in un processo più simbiotico che mimetico; egli urla, ripete versi animaleschi, grida impossibili, si colpisce fino a grondare sangue per rendere il proprio naso come quello di un’aquila, senza alcuna intenzione autolesionista, ma al contrario seguendo quel processo di sublimazione che ha come oggetto definitivo l’incontro dell’altro attraverso la realtà concreta delle sue centinaia di opere.
Un genio, forse infelice, ma generoso nel ricordare che immaginazione e fantasia non sono altro da noi, ma rappresentano l’altro nascosto tra le pieghe del consueto, portatore di sorpresa e stupore continui.