Questa celebre opera di Raffaello Sanzio (geniale pittore rinascimentale, che il critico Vittorio Sgarbi ha definito, in un suo recente libro, “Un dio mortale”) – la “Disputa del Sacramento”, un imponente affresco di 500 x 770 cm, del 1509 custodito nei Musei Vaticani (“Stanza della Segnatura”) – rappresenta la regalità di Cristo, posto al centro della scena, ma collocato sull’asse verticale della Trinità, che termina con l’ostia nell’ostensorio, per indicare il mistero dell’Eucaristia come “ordinario miracolo” per eccellenza che lega cielo e terra (sottolineato dal fatto che l’ostia è il punto di fuga prospettico di tutta la sacra scena).
A questo riguardo geniale la trovata pittorica di commisurare la portata dell’ostensorio – che contiene tutta l’ostia – con quella della aureola grande che “contiene” tutto Cristo, come a sottolinearne la stessa reale presenza nell’Eucaristia anche se non materiale ma spirituale. Inoltre, nell’ostia noi abbiamo la presenza di Cristo risorto e glorioso (come la sua posizione centrale ci evidenzia), ma in questo suo corpo glorioso rivivono eternamente – come i teologi ci insegnano – la passione a la morte compiute nel tempo e così la sua resurrezione, in tal modo che può eternamente perpetuare a nostro favore il suo Sacrifico per amore (come ci evidenziano i segni della passione di Cristo).
D’altra parte, la stessa visione dell’Apocalisse ci mostra la presentazione di Gesù come Agnello ritto in piedi e nello stesso tempo sgozzato (Ap 5,6). Altro aspetto importante è il sicuro collegamento con la S.S. Trinità, in quanto se è vero che il pane consacrato diventa solo Corpo di Cristo – in quanto solo il Figlio ha assunto un corpo – è altrettanto vero che in questo sacramento riceviamo la divinità di Cristo e, dunque, con lui tutta la S.S. Trinità. Perfetta, allora, la simmetria verticale delle tre Persone trinitarie, in coerenza con l’insegnamento già offerto dal Concilio di Firenze (qualche decennio prima) con la dogmatica precisazione della compresenza della Trinità dove sia presente ciascuna delle tre S.S. Persone, e del “Filioque”, per cui lo Spirito procede sia dal Padre che dal Figlio.
Nei due larghi spazi semicircolari poi – separati da una cornice di nubi (del resto nella Scrittura molte “teofanie” – apparizioni del sacro – avvengono proprio con visioni di nubi) – sono rappresentate la Chiesa celeste, ormai in possesso dell’eterna beatitudine, e la Chiesa terrestre o militante, che siamo noi.
Nella “Disputa” di Raffaello vediamo non soltanto l’adorazione eucaristica, ma una movimentata scuola di pensatori e teologi raggruppati intorno all’Eucaristia (le cui due figure a fianco dell’altare, con il loro solenne gesticolare, richiamano i due filosofi della “Scuola di Atene”) nel corale sforzo di penetrare sempre meglio il senso del mistero, per vivere appieno la comunione tra cielo e terra, tra Dio e l’uomo, affidato da Dio alla Chiesa. Del resto Dio ha scelto di governare il mondo coinvolgendo le sue creature, e per così dire delegando sapientemente l’opera sua a noi, con un mirabile e universale intento di “sussidiarietà”, il tutto per comunicarci la sua stessa natura divina, che sommamente si concretizza nell’Eucaristia.
E la compresenza di personaggi storici del lontano passato e del presente (di Raffaello), uniti dalla sacra “conversazione/ammirazione” delle cose divine, ci ricorda e ci attesta che l’Eucaristia non è soltanto “memoria”, ma “memoriale”, in quanto mentre la prima è soltanto il ricordo, anche se vivo, di un fatto del passato, il secondo è, invece, la ripresentazione dell’evento di cui si fa memoria, rendendolo presente per attualizzarlo in modo tale da renderlo contemporaneo a noi. Il frutto poi di questa larga benevolenza divina è quello di essere partecipi della grazia, di quell’evento universale, conformando a essa la nostra vita presente.
Molto bella poi la convergenza del “pane della parola” (sorretta dai quattro angeli posti sopra l’ostensorio), con il “pane eucaristico”1, dove la Scrittura ci orienta verso la pienezza di Cristo: incarnato e realmente presente nel divino Sacramento dell’altare. La folta schiera, poi, di personaggi evidenzia la necessità del “noi” nella Chiesa e del suo sforzo – di preghiera, di ricerca e di meditazione/istruzione scritturistica – per penetrare più a fondo il mistero di amore trinitario ed eucaristico.
E – in questa coralità (sinodalità) – non deve nemmeno stupire la presenza di un personaggio (eretico?) come quello di Savonarola; perché la grandezza dell’impresa e la raccolta delle migliori e delle più numerose voci per rendere il canto di lode meno indegno e “parziale” possibile, consiglia una comunità “inclusiva”, caritatevole e misericordiosa. Il riferimento corre immediato alla Divina Commedia dove, nel bellissimo Canto X del Paradiso troviamo la figura di Sigieri di Brabante decantata proprio da San Tommaso d’Aquino (nonostante in vita si pose con lui in contrasto e fu in odore di eresia). Questo per Dante vuol dire che “i due avversari si sono riconciliati dopo la morte nell’aspetto della verità intera, di cui tutti e due avevano visto solo una parte”.
Anche Papa Francesco (nella Esortazione Apostolica “Evangelii gaudium”) indica il poliedro come modello di pastorale. Il poliedro riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità, ma per riuscire poi a rendere testimonianza di una meno sbiadita immagine della sublime totalità delle divine perfezioni. L’immagine di Chiesa è allora quella di una grande orchestra, dove le singole note dei singoli orchestrali si devono fondere nell’armonia collettiva. Non solo, ma la Chiesa – essendo “semper reformanda” – ha bisogno non soltanto dell’apporto di tutti (anche dei non credenti), ma deve vivere in umiltà questa sua vocazione al servizio nella carità e nella verità, sempre ricordandosi del suo Divino e Unico Maestro.
Può essere anche interessante poter rintracciare questo simbolico significato di costante “Chiesa in cammino” (cioè sinodale), nel cantiere edilizio visibile in fondo a sinistra nell’affresco (sopra le figure di Francesco Maria della Rovere e del Bramante), al di là del riferimento all’inizio della costruzione (nel 1506) dell’attuale Basilica di San Pietro, che fu proprio progettata dal Bramante.
Una rapida annotazione, poi, sul titolo di questa geniale opera. Secondo alcuni il titolo andrebbe cambiato con uno dei seguenti: “Trionfo dell’Eucaristia” o “Trionfo della Chiesa”. Io, invece, condivido la riflessione di Giovanni Reale2 il quale richiama il significato originario della parola latina “disputare”, che significa non soltanto discutere, ma anche chiarire, spiegare, rendere evidente e quindi “rivelare”. Ecco perché i volti dei vari personaggi non esprimono tanto tensione o incertezze, ma piuttosto concentrazione, profonda meditazione e stupore metafisico. Infatti le figure sono appassionate, misticamente stupite, ma non in un atteggiamento di polemica dialettica, anzi la scena ispira sentimenti di amicizia, reciproco aiuto e perfetta concordia.
Il fatto, poi, che i personaggi non siano chini ma abbiano il volto eretto, ci richiama il fatto che, nel momento della consacrazione, sarebbe meglio fissare/contemplare/pregare sui Santi Doni, perché l’elevazione è stata introdotta proprio per consentire ai fedeli di tenere lo sguardo su di Lui, piuttosto che l’atteggiamento di tenere il capo abbassato. Infatti, come Mosè innalzò il serpente nel deserto (e chiunque fosse stato morsicato dai serpenti velenosi, si sarebbe potuto salvare solo guardando verso il serpente di Mosè) così bisogna che il Figlio sia innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (Giovanni 3,14-15).
Interessante, poi, notare l’affinità tra questa prospettiva raffaellesca e alcuni passi convergenti dell’Antico e del Nuovo Testamento. Oltre al testo di Daniele (7,9), e poi dell’Apocalisse (4,1-11), abbiamo la visione di Giacobbe, il quale fece questo sogno: “una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa” (Genesi 28,12); e poi questo brano di Giovanni: “Vedrai cose maggiori di queste! Poi disse: In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Giovanni 1,51).
Bene ha fatto allora il Concilio Vaticano II a richiamarci la profonda realtà della Chiesa, con queste sapienti espressioni. “La società costituita da organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, la comunità visibile e quella spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse, ma formano una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino” (“Lumen gentium”, n. 8).
Infine, una osservazione su questo straordinario impianto teologico dell’opera di Raffaello. Senza nulla togliere alla genialità artistica del pittore, va richiamata l’importanza – per un artista – del rapporto ispirativo-collaborativo con la committenza. Pertanto si pensa che – come suggeritore di questi preziosi contenuti di fede – ci possa esser stato anche l’alto prelato e umanista Tommaso Inghirami detto Fedra, amico del pittore (il quale fece un suo magnifico ritratto, alcuni anni dopo). In questo modo arte e teologia si aiutano a vicenda e – come magistralmente detto da San Paolo VI – l’arte può rendere visibile la bellezza invisibile delle realtà celesti.
Note
1 Timothy Verdon, “La ‘Disputa del Sacramento’, un manifesto in cui la Chiesa si narra”, in “L’Osservatore Romano” del 12 ottobre 2005.
2 “Raffaello, la ‘Disputa’ o rivelazione delle cose divine”, Bompiani 2010, pag. 11.