«Michaíl Júr'evic Lérmontov (1814-1841) è uno dei rari artisti della parola che hanno saputo esprimersi agli stessi livelli di eccellenza nella poesia, sia lirica sia narrativa, nella prosa, nella drammaturgia e nella traduzione». Lo studioso Roberto Michilli inquadra, in brevi righe, lo straordinario talento del letterato russo e ci illustra i momenti salienti della stesura di: “Michaíl Júr'evic Lérmontov - Dalla fiamma e dalla luce La vita attraverso le lettere” pubblicato da Edizioni Di Felice.
«Anima bruciante e giovane. Se io sono la causa dell’infelicità altrui, sono io stesso non di meno infelice». Partendo da due affermazioni di Lermontov stesso, le chiederei quanto si evince del carattere tumultuoso dell’autore dalle lettere da lei tradotte e analizzate.
La biografia di Lérmontov è lacunosa. Non sappiamo tuttora dove era e cosa faceva in vari momenti della sua vita, quali erano le sue letture, chi erano i suoi corrispondenti e interlocutori, di cosa parlava con loro. L’uomo rimane per molti aspetti misterioso. Oltre alle proprie opere, ci ha lasciato pochissime altre tracce del suo passaggio su questa terra.
Ci sono arrivati in tutto 54 tra lettere e biglietti scritti da lui, e 10 che lo vedevano invece come destinatario. 11 delle sue lettere sono state scoperte tra il 1928 e il 1962. La sua vita è stata breve, ma intensa e ricca di esperienze, e ciò suggerisce che la corrispondenza a noi pervenuta sia solo una frazione del totale. Va inoltre precisato che queste lettere sono tutte di carattere privato, indirizzate a parenti e amici, e nessuna rivela alcunché in merito alle convinzioni filosofiche e letterarie dell’autore. Le poche lettere che abbiamo a disposizione sono straordinariamente preziose perché, oltre a permetterci di sentire la sua viva voce, ci consentono di ricostruire dal suo punto di vista i momenti salienti della sua breve esistenza e di gettare almeno uno sguardo sulla sua vita interiore, risultando così ben più utili e affidabili di buona parte delle tante memorie dei contemporanei per una seppur parziale conoscenza dell’uomo. In questo epistolario il lettore troverà, oltre alle lettere scritte da Lérmontov, quelle indirizzate a lui e altre intercorse tra corrispondenti diversi nelle quali lo si cita.
Michail Jur’evič Lérmontov si è ritrovato prigioniero di un mito che lui stesso ha contribuito non poco a creare. Formatosi negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento grazie anche a una certa pubblicistica su di lui, semplificato e cristallizzato durante l’epoca sovietica in un canone letterario ufficiale, tale mito ha influenzato la ricerca accademica, portata a ignorare tutto quanto non si adattasse a questa raffigurazione, e il modo di percepirlo da parte dei lettori, ingessandolo in una figura piuttosto unidimensionale, all’incirca così caratterizzata: successore di Byron e Puškin, ma diverso da entrambi, incompreso e penetrante, di finissimo sentire, sensibile ma forzatamente freddo, eternamente sofferente per la perfidia femminile, amante della libertà e della sua patria, anche se verso quest’ultima nutre un amore “strano”, ha compreso e riflesso nella sua opera la propria generazione inerte, ha voluto bene davvero solo alla nonna e a Varvára Lopuchinà, è stato perseguitato dal potere e infine ucciso da Martýnov e dal regime poliziesco di Nicola I.
L’uomo Lérmontoviano così come scaturisce dalle poesie e dalle prose, e il personaggio Lérmontov, visto non solo come poeta e scrittore ma come eroe romantico lui stesso, seduttore spietato e inveterato libertino, hanno finito per nascondere in buona parte l’uomo Lérmontov, come lo possiamo invece conoscere da queste lettere e, in una certa misura, dalle più affidabili tra le memorie di chi lo conobbe, che ci permettono invece di costruirci una sua diversa immagine, più completa, approfondita e articolata, restituendoci un uomo con tutte le sue luci e ombre.
E se lo vedremo assumere pose e mettersi maschere sul volto, vedremo anche come fosse capace, per dirla con Wolf Giusti, di «momenti di straordinaria freschezza e sincerità». Di converso ci accorgeremo che le donne sembrava amarle più nelle poesie che nella vita, perché con diverse di loro fu piuttosto cinico e, per esempio, non esitò a mandare all’aria, volutamente, il matrimonio del suo amico Alekséj Lopuchín con Ekaterína Suškóva. A una principessa che pure amò, o almeno corteggiò, indirizzava non soltanto intense liriche d’amore ma anche un epigramma in cui ne paragonava la faccia a un melone e il culo a un cocomero.
Potremo però constatare che era più incline al riso e agli scherzi di quanto ci venga di solito rappresentato e, grazie a una lettera finalmente pubblicata senza censure, che scrivendo a un amico parlava di sesso e diceva parolacce, vivaddio. Per questo insieme di motivi ho dedicato alle sue lettere una particolare attenzione, traducendole quasi tutte, visto che in Italia se ne conoscevano solo i brevi stralci pubblicati negli studi di Evel Gasparini e Wolf Giusti. A titolo di curiosità, devo dire che l’unica lettera superstite della nonna tra le tante che certo gli scrisse è stata la cosa più difficile da tradurre che mi sia mai capitata, eguagliata soltanto da alcune poesie di Pasternák.
Lei ha curato anche una biografia definitiva di Lermontov. So che conosce l’autore profondamente e mi farebbe piacere illustrasse i fatti che l’hanno maggiormente sorpresa durante il percorso di ricerca per la stesura dei volumi.
In realtà non ci sono state grosse sorprese perché nel momento in cui ho iniziato la stesura della biografia sapevo tutto, o quasi, sulla vita e sull’opera di Lérmonov. Ho letto per la prima volta il suo romanzo “Un eroe del nostro tempo” nell’adolescenza, e mi ha colpito ed emozionato al punto che l’ho riletto più volte e ho cominciato a interessarmi delle altre opere e della biografia dell’autore. Ho continuato a farlo anche nell’età matura e ho finito per dedicargli tre libri e dieci anni della mia vita. Lérmontov è diventato così un caro amico per cui nutrivo e nutro profondo affetto e immensa ammirazione.
Quali sono state le maggiori difficoltà nell’affrontare una traduzione complessa come questa?
Premetto che buona parte delle lettere raccolte in “Dalla fiamma e dalla luce” le avevo già tradotte per la biografia. Mi sono accorto subito, però, che lì si confondevano col resto del materiale e perdevano la loro forza e la loro unicità come veicoli della voce di Lérmontov e dei pochi che davvero gli vollero bene.
Così ho avuto l’idea di pubblicarle tutte insieme, in ordine cronologico, e ho visto subito che in questo modo recuperavano tutta la loro forza e con le note a servizio di ogni lettera scrivevano una nuova biografia, più semplice e diretta e anche più piacevole da leggere. Per completare l’epistolario di Lérmontov, in questo nuovo libro ho inserito 5 lettere in precedenza tralasciate e tradotto integralmente altre 11 di cui nella biografia avevo utilizzato solo brevi stralci o traduzioni parziali. Va però detto che prima di scrivere la biografia avevo tradotto tutte le liriche della maturità di Lérmontov e una selezione di quelle giovanili, per un totale di 60 poesie, 37 delle quali tradotte per la prima volta in italiano.
Direi che le difficoltà maggiori le ho avute con queste ultime. Il libro ha ricevuto la Menzione d’onore all’ottava edizione (2014) del prestigioso Premio internazionale “Russia-Italia. Attraverso i secoli.” La giuria composta da cinque eminenti slavisti italiani (Vittorio Strada pres., Cesare G. De Michelis, Stefano Garzonio, Fausto Malcovati e Serena Vitale) ha espresso la seguente motivazione: «L’antologia Lérmontoviana approntata da Roberto Michilli è la più ampia raccolta italiana del grande Poeta russo dopo quella curata da Tommaso Landolfi e comprende 60 testi; la versione è accompagnata da un amplissimo commento. Il maggior merito di questo tributo alla poesia di Lérmontov (di cui quest’anno ricorre il duecentesimo anniversario) risiede nella qualità delle versioni, condotte sempre su un registro liguistico moderno ma espressivamente fedele all’originale». Parole che ogni traduttore vorrebbe sentirsi dire, e che per quanto mi riguarda sono state la migliore ricompensa ai sacrifici, alle tante difficoltà superate e all’immenso lavoro svolto.
Da anni mi appassiona il “Démone” con le sue molteplici stesure, accompagnato dalle mirabili illustrazioni del pittore Vrubel. Che ruolo hanno avuto questi ripensamenti nella fulminea carriera letteraria di Lérmontov e perché, a suo avviso, sentì la necessità di rivedere il testo più volte?
Il “Démone” accompagna Lérmontov per tutta la sua vita di poeta. Comincia a lavorarci nel 1829, a quindici anni, e continua fino agli ultimi giorni.
Se ne conoscono otto redazioni di cui una, la settima, non è arrivata fino a noi, ed è solo da quella del 1838 che l’ambientazione si precisa: mentre nelle prime versioni era un paese meridionale vagamente indicato, a partire dal 1838 nel poema irrompono il Cáucaso, la Georgia, i costumi georgiani e tanti particolari che contribuiscono a dargli la concretezza di un luogo reale. Segno anche questo della nuova visione realistica che si manifesta nell’attività creatrice del Lérmontov maturo, il quale ricorre qui alla sua esperienza personale del Cáucaso, risalente ai viaggi dell’infanzia e arricchita dal suo lungo vagabondare nella regione durante l’esilio del 1837.
L’amore di un démone per una donna mortale era già stato espresso più volte nella letteratura romantica europea: in Cain e Heaven and Earth di Byron; “Love of Angels” di Thomas Moore ed “Eloa” di Alfred de Vigny. La figura di Satana era centrale nell’immaginario dei poeti romantici, perché consentiva loro di esprimere il disagio, l’insoddisfazione e lo spirito di rivolta contro la società in cui vivevano e perfino contro se stessi.
Le opere citate hanno però ben poco a che fare col «triste démone» di Lérmontov, personaggio originale, di straordinaria potenza drammatica, protagonista di un poema il cui significato simbolico è intimamente connesso con la più profonda natura del suo autore, così come totalmente ed esclusivamente Lérmontoviano è lo scenario caucasico nel quale la vicenda si svolge. Come scrive Eridano Bazzarelli, il “Démone” di Lérmontov «non nasce dalla lettura di altre opere, anche se il suo poema si inserisce benissimo nel filone della letteratura ribellistica e satanica dell’epoca. Così il suo Cáucaso non nasce dall’imitazione di Puškin, ma dalla propria esperienza personale». Nel corso degli anni, Lérmontov sottopone il poema a una lunga serie di revisioni senza trovare una forma definitiva e convincente e, pur avendone la possibilità, decide di non pubblicarlo, neanche in estratti che avrebbero potuto aggirare i divieti della censura. La sua lunghissima gestazione lo trasforma in una sorta di palinsesto di scritture e idee via via modificate, aggiornate, superate.
Probabilmente terminato alcune settimane prima dell’ultima revisione apportata al “Démone, Mcýri (Il novizio)” è senza dubbio il frutto più maturo di Lérmontov, ormai all’apice della sua consapevolezza artistica, nell’ambito della narrazione in versi, un genere fondamentale per lui e per la sua epoca, e del quale “Mcýri” rappresenta il canto del cigno. Guardando in prospettiva a questi versi, è infatti evidente come Lérmontov chiuda con essi un’epoca, o meglio regali un’estrema luminosa fioritura all’età d’oro della poesia russa, che si era già conclusa all’inizio degli anni Trenta. Dopo Mcýri Lérmontov lavorerà ancora all’ultima revisione del “Démone” e a “Una favola per bambini”, ma del primo non sarà mai pienamente soddisfatto, mentre il secondo resterà incompiuto, a testimoniare il tramonto della lunga stagione del poema, e l’urgenza di trovare nuove forme narrative per rispondere ai tempi nuovi che s’annunciavano. E proprio a Lérmontov spetterà il compito, con “Un eroe del nostro tempo”, di indicare l’avvento di un’era altrettanto gloriosa per la letteratura russa, quella dei grandi romanzi.
Il poema venne pubblicato in Russia solo nel 1860, ed ebbe grande popolarità nella seconda metà dell’Ottocento e oltre perché intorno al giro di secolo, la poetica dei simbolisti aveva risvegliato l’interesse per il romanticismo. Il “Démone” ispirò anche opere di altri artisti. Antón Rubinštéjn nel 1871 compose un’opera con lo stesso titolo su libretto di Pável Viskovátov, il primo biografo di Lérmontov, mentre il grande pittore Michaíl Vrúbel’, affascinato dalla figura del Démone, eseguì una serie di famose tele ispirandosi al poema.
Mi farebbe, altresì, piacere che illustraste i presupposti della Collana inaugurata da queste Lettere, possibilmente facendo riferimento a progetti presenti e futuri.
Il titolo della collana è un omaggio a Giuseppe Pontiggia e al suo libro sui classici: I Contemporanei del Futuro (1998). «Un classico è un’esperienza radicale, che ci modifica» scrive Pontiggia. E ancora: «La contemporaneità non esiste. Non esiste, dopo la Relatività, nella fisica, e non esiste, dopo la Storia, nell’arte. Che i classici siano nostri contemporanei è un conforto idealistico e una menzogna pubblicitaria. «Questa però non è una conclusione, ma una premessa. L’esperienza dei classici ci dice il contrario. Non sono nostri contemporanei, siamo noi che lo diventiamo di loro. Dimenticarli in nome del futuro sarebbe il fraintendimento più grande. Perché i classici sono la riserva del futuro.»
C’è nelle pagine di Pontiggia la forte preoccupazione che il superamento della tradizione umanistica conduca al superamento dei valori. Una deriva che questo classico della contemporaneità vuole assolutamente evitare, invitandoci ad avvicinare i classici, non piú modelli è vero, ma ancora vitali, ancora pieni di sapienza imprevista. Invitandoci a «farci noi contemporanei dei classici individuando in essi una riserva di quei valori di cui il nostro mondo sembra carente.» È quanto Valeria Di Felice e io come direttore della collana ci proponiamo di fare offrendo ai lettori, in nuove traduzioni col testo originale a fronte, classici stranieri sconosciuti, poco conosciuti o dimenticati, oppure celebri ma appannati da traduzioni non all’altezza. Accanto a questi, testi italiani di fine Ottocento e inizio Novecento che meritano di essere valorizzati.
Di prossima pubblicazione, presumibilmente nell’autunno di quest’anno e nella primavera del prossimo, sono: Stendhal, “La badessa di Castro”, cura e traduzione di Roberto Michilli; Stendhal, “Vanina Vanina”, cura e traduzione di Paola Tiberii; Theodor Storm, “La signora delle piogge”, traduzione e saggio critico di Isabella Horn. Per quanto riguarda i progetti futuri, Valeria di Felice sta iniziando a tradurre le “Melodie ebraiche” di Byron, e successivamente tradurrà un secondo libro di Anna de Brémont. Paola Tiberii ha già iniziato a tradurre una selezione dei racconti di Hemingway, i sette che l’autore stesso dichiarò di preferire nella prefazione ai “49 racconti”.
Io ho in corso la traduzione dei “Cenci” di Stendhal, delle “Lettere portoghesi” di Gabriel-Joseph de Lavergne, conte di Guilleragues, e delle “Memorie” di Maríja Nikoláevna Raévskaja, principessa Volkónskaja, che dopo il fallimento della rivolta decabrista del 14 dicembre 1825, eroicamente seguì nell’esilio in Siberia il marito Sergéj Volkónskij lasciandoci questa straordinaria testimonianza sulla vita dei rivoltosi condannati ai lavori forzati e all’esilio a vita. Non sono mai state tradotte fuori della Russia.