All’estremo nord delle alpi albanesi, al confine tra Montenegro e Kosovo, la catena montuosa delle Prokletije fa da cornice a profonde gole rocciose e a verdi ed ampie vallate, dove remoti villaggi riposano placidi. Le Alpi Prokletije, il cui termina significa letteralmente “creste maledette”, segnalano l’ultimo territorio impenetrabile dei Balcani. Nella regione di Kelmend e nella Valle di Theth, che da secoli mantengono la loro identità paesaggistica e umana, il passato resiste nei ritmi lenti della vita quotidiana, nei dettagli semplici ma essenziali.
I villaggi, in questo angolo selvaggio nel cuore dell’Europa moderna, sono formati da case sparse, distanti tra loro, ognuna delle quali giace silenziosa al centro della rispettiva proprietà. Ed è proprio qui che l’identità e l’attaccamento alle tradizioni sono più forti che altrove, conservando tracce di una società arcaica ed ancestrale.
Lo documenta Edith Durham, viaggiatrice solitaria, scrittrice ed etnografa britannica che, all’inizio del Novecento, fu una delle prime esploratrici straniere a conoscere colori, ritmi e folclori di questa regione sconosciuta, battezzandola “terra dal passato vivente”.
Terra che diede i natali al leggendario principe Lekë Dukagjini, condottiero che durante tutto il XV secolo combatté contro l’impero Ottomano e che fu estensore del Kanun, il codice d’onore dell’estremo Nord, un insieme di leggi tramandate oralmente che ha guidato la vita e l’azione dei popoli montani. Definito anche Diritto delle Montagne, è un universo giuridico basato su tradizioni secolari, applicato ancora oggi in qualche villaggio sperduto, e che poggia su robusti pilastri quali l’onore, l’ospitalità, la buona condotta e la famiglia. Le sorti di queste popolazioni sono intrinsecamente legate ad un sistema patriarcale che viaggia su due linee parallele: quella del sangue e quella del seno.
La prima riservata ai diritti maschili, trasmessi di padre in figlio con il totale potere sulla vita familiare; la seconda invece esclusiva, più che ai diritti, ai doveri delle donne. Il dovere di mangiare in una stanza separata dagli uomini, di lavare ed asciugare i piedi agli ospiti, di reggere la torcia per illuminare gli ambienti maschili privi di elettricità.
Al centro di questi due poli di genere opposti esistono le “vergini giurate”: donne che, compiendo una sorta di metamorfosi sociale, si convertono in uomini. È il residuo sociale di un antico fenomeno presente nelle zone montuose di Albania e Kosovo, disciplinato dal Kanun stesso già nel 1400, ma del quale si è venuti a conoscenza solo negli ultimi due secoli. È diventato tema di discussione quando, nei primi anni 2000, la scrittrice e giornalista Elvira Dones ha realizzato un documentario intitolato Vergini Giurate, i cui dati collezionati si sono trasformati nell’omonimo romanzo.
In lingua albanese vengono definite “burrneshe”, dove bur- corrisponde al prefisso maschile, ed il cui significato ricade nel concetto di uomo che vive nel corpo di una donna, ereditando una connotazione particolarmente positiva e vigorosa.
Perché una donna potesse modificare la condizione sociale ed assumere i privilegi e le responsabilità degli uomini, avrebbe dovuto prestare giuramento davanti a dodici anziani del villaggio, garantendo pubblicamente la propria verginità e la totale astensione dalla vita sessuale. Così facendo, la vergine giurata avrebbe acquisito lo status pariter degli uomini: abbandonando il nome femminile e accogliendo abiti maschili, tagliando i capelli cortissimi, fumando e sedendosi accanto al focolare sorseggiando raki, servita dalle altre donne di casa, con cui fino a poco prima condivideva sottomissioni e silenzi. Otteneva così il diritto di ereditare e gestire la proprietà familiare, di vendere o comprare, di combattere in guerra e nelle vendette di sangue.
Secondo le leggi ataviche del Kanun, esistevano diversi motivi di conversione, dettati dal momento in cui il giuramento si compiva. Il più comune, per esigenza, avveniva quando la famiglia verteva in cattive condizioni economiche e non vi erano eredi maschi. “Una casa onorevole è guidata da un maschio”, così recita il Diritto delle Montagne, sacrificando la figlia più piccola, a volte non ancora nata, all’educazione maschile e crescendola seguendo le orme del padre. Il mutamento avveniva da adolescente, invece, per sfuggire ad un matrimonio combinato o per acquisire una forma di libertà meno subalterna, quando la ragazza era in grado di decidere per il proprio destino. Più rare erano le murgeshe, figure semi-religiose paragonabili a delle monache dai lunghi abiti neri, votate alla castità, ma che pur rimanendo a vivere nella casa padronale, aiutavano e servivano il capo religioso del villaggio.
Queste non-donne erano, e sono tuttora, legate a vita al giuramento: impossibile tornare nei propri passi, o meglio, nei propri panni. Il sacrificio portava in sé qualcosa di primitivamente onorevole, romperlo era una condanna a morte.
Il fenomeno, ad oggi, è quasi totalmente estinto. Delle poche burrneshe rimaste, nessuna ha spezzato il giuramento. Sono ormai anziane, i volti ispessiti dal vento tagliente del Nord, le mani e la schiena incurvate dai lavori della terra. Custodiscono la memoria ancestrale di un passato ancora vivente, che parla la lingua della sottomissione, del maschilismo e della discriminazione. Hanno scelto di liberarsi da costrizioni patriarcali, votandosi ad una non-sessualità, mortificando sé stesse per garantire i primi segni di un’emancipazione femminile altrimenti impossibile, nel nome del padre. Ma non del figlio.