Non c'è lettore smaliziato che tra le maglie della prosa di Landolfi non intuisca o avverta una certa attitudine poetica, il più delle volte travestita ma talvolta impossibile da camuffare. È una musicalità ineluttabile quella che spesso si sprigiona dai suoi testi, un lirismo che trapelerebbe a dispetto di qualsiasi paravento sintattico o barriera allestita all'occorrenza. Anche perché, a giudicare da quel che lo stesso scrittore di Pico Farnese testimonia, la prosa tradizionalmente organizzata, diversamente dal lampo rapsodico della versificazione, a un certo punto della sua vita gli riesce grave e fastidiosa:
Non trovo conforto
Se non nelle distorte
Battute
D’una musica perduta.
La prosa m’opprime:
Non la parola che dirime,
Mi giova,
Ma l’avventurosa prova
Del verso gettato al vento.(Tommaso Landolfi, Viola di morte, cit. p. 225)
Non a caso, mentre persegue il disegno di un sempre più corrucciato isolamento, tra gli anni Cinquanta e Sessanta Landolfi abbandona ogni progetto di romanzo per dedicarsi a una scrittura diaristica che, nella sua dirompente spontaneità, sembra preparare il campo a quell'inclinazione poetica mai del tutto accantonata e che troverà compimento solo nel 1972 con la pubblicazione di Viola di morte. Fra le tante immagini che affollano le pagine di questo testo ricco di traslati e immagini stordenti, ce n'è una che supera forse tutte le altre e che destabilizza per la sua apparente illogicità:
Tra un nulla non sarà su questo lido
Se non l’immane scheletro d’un cuore.(Tommaso Landolfi, Viola di morte, cit. p. 53)
È una metafora fascinosa e potentemente evocativa questa di Landolfi, una figura che può lasciare sorpresi e sospesi, come in bilico fra due giurisdizioni semantiche che cerchino di escludersi a vicenda. Esiste un giusto metro per valutare fascino e potenza espressiva di una metafora? È difficile, in questo caso, trovare una risposta capace di scansare il calappio di una qualche possibile definizione. Si potrebbe partire dal grado di metamorfosi prodotto dallo scontro tra due significati; oppure dal senso di straniamento che una tale collusione provoca nel lettore o in chi ascolta. Oltre che particolarmente comunicativa, una metafora efficace è difatti straniante, induce cioè a una percezione non abituale della realtà, rivelandone aspetti nuovi o inconsueti.
In tal modo, tuttavia, si rischia forse di dar peso a un solo specifico dominio, e ovviamente a scapito degli altri. È sintomatico d’altronde che il meccanismo metaforico abbia sempre resistito agli assalti dei suoi innumeri esegeti, anche perché si tratta di un fenomeno retorico che trascende le competenze delle singole discipline. E quindi?
Se diamo ragione a Emanuele Tesauro, la metafora ha il potere di renderne indovino il fruitore, poiché al significato nuovo creato dall’accostamento metaforico si arriva con il lavoro e l’abilità del solutore di enigmi. La chiave di volta sta dunque nell’eventuale distanza fra le immagini accostate, e, in seconda battuta, nel proporzionale impegno demandato al loro interprete? Un dubbio irrisolvibile, probabilmente. C’è chi, costretto dalle necessità espressive o dalla scarsa capacità di sintesi, affastella tropi nel tentativo di conferire un volto nuovo a una determinata immagine. E c’è chi, facendo leva sul minimo sindacale offerto dalle possibilità logiche e grammaticali, accosta due elementi dai quali scaturirà poi un proliferante campionario di immagini.
La metafora anatomica imbastita da Landolfi appartiene sicuramente a quest’ultimo spettro di casi: da un lato lo scheletro e dall’altro un cuore, il principale fra quei muscoli detti involontari e che non lavorano in sinergia con l’apparato osseo. Basterebbe una tale giustapposizione ad amplificare la metafora fin quasi a spingere il traslato verso la cerchia del non-sense. Quasi, però, e non solo questo. Il verso che precede, annunciando l’azione ritenuta imminente, ci informa anche sulla collocazione spaziale di quel che sta per avvenire: un lido. Nell’immaginario collettivo la spiaggia rappresenta fra l’altro il luogo in cui il mare deposita talvolta gli scarti di ciò che è morto nelle sue profondità, un’ideale tomba all’aria aperta laddove approda quel che non può trovare una degna sepoltura (il rinvio agli ossi di seppia di Montale sembra abbastanza scoperto). Presumendo inoltre che il cuore citato da Landolfi abbia scandito i propri battiti in un petto umano, dovremo considerare – e non di straforo – che l’uomo, come tutti i vertebrati, non possiede un esoscheletro, e quindi bisognerà escludere ogni eventuale procedimento metonimico capace di sfalsare il rapporto fra contenente e contenuto. Questo, è chiaro, non fa che aumentare ulteriormente lo scarto razionale tra i due termini della metafora, i quali, pur provenendo dal medesimo ambito, risultano incompatibili nella realtà.
Il trait d’union va dunque ricercato ben oltre il piano fisiologico – fra i tanti attributi usati e abusati dalla poesia di ogni tempo per codificare le attività del cuore, c’è quello di sostituto sinonimico dell’anima, a sua volta sede deputata delle passioni e delle emozioni più robuste. Lo scheletro cardiaco che giace smisurato sulla spiaggia, o che vi giacerà presto, potrebbe rappresentare allora il segno tangibilmente inverosimile dei fervori, delle smanie, delle trepidazioni, in definitiva di tutto l’Erlebnis accumulatosi nel corso di una vita fra gli atri e i ventricoli del miocardio figurato.
Ma è un bene che rimanga tutto nel campo dell'ipotesi e che la fantasia e la sensibilità di ognuno elabori in modo personale questo fermentante amalgama concettuale. Avventurarsi nella decifrazione di una metafora è pericoloso quanto spiegare il senso di un’arguzia o una freddura: si rischia immancabilmente di svilirne la portata.