Il 29 Marzo 2025 ho avuto il grande onore e piacere di presentare il mio libro (cfr., per la scheda e l’indice Libri, banche e banchieri nel mondo antico, dai sumeri a Roma imperiale) in una sede di straordinario prestigio e fascino, l’Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze, ubicata ad Arezzo nell’originario sito della Casa natale del Sommo Poeta Francesco Petrarca (1304 – 1374).
Ringrazio l’organizzatrice e moderatrice dell’incontro, Prof.ssa Antonella Di Tommaso, che mi ha dato non soltanto l’opportunità di parlare ampiamente della Banca antica ma anche l’occasione di tratteggiare alcuni argomenti interessanti, e forse poco conosciuti, nel panorama della storia italiana tra Basso Medioevo e prima Età Moderna: la figura del Petrarca quale capo-scuola, oltre che dell’Umanesimo, anche della Numismatica moderna, nonché la città di Arezzo quale storica sede di una Zecca monetaria e di un Monte di Pietà.
Nell’Epistola Posteritati, la famosa “Lettera alla posterità” (o ai pòsteri), nella quale il Sommo Poeta traccia un’autobiografia da consegnare alle generazioni future, Egli confessa:
Tra le tante attività, mi piacque soprattutto dedicarmi a studiare e conoscere il mondo antico (...).
Nell’ambito del suo appassionato studio della civiltà antica e nel corso della sua costante riscoperta del mondo classico, Egli fu non soltanto un grande conoscitore delle antichità letterarie, ma anche un accurato raccoglitore e collezionista di monete antiche, specialmente di quelle relative a Roma imperiale. Nelle Epistolae Familiares (“Lettere ai Familiari”), Petrarca racconta di come a Roma gli capitasse spesso di reperire monete antiche che i contadini locali ritrovavano durante il lavoro nei campi e, conoscendo la sua grande passione per la Numismatica, consegnavano a Lui perché le acquistasse e le studiasse, interpretandone l’epigrafia e l’iconografia, le legende iscritte e le immagini impresse sul documento monetale.
Come risulta attestato da un’altra lettera Ad Familiares (indirizzata all’amico Lelio), nel 1354 Petrarca incontrò a Mantova l’Imperatore Carlo IV al quale donò alcune monete della sua collezione affinché il Sovrano del Sacro Romano Impero potesse emulare le glorie ed i fasti degli antichi Cesari: si trattava, in particolare, di monete d’oro e d’argento con l’effige di Augusto, definita “viva e spirante”, e che il Poeta descrive come recanti “iscrizioni in caratteri minutissimi ed antichissimi che mi erano assai care”.
La raccolta e la collezione delle monete dell’antica Roma venivano curate da Petrarca non soltanto per il gusto del mero possesso dell’oggetto monetale, ma anche e soprattutto come fonte documentaria essenziale per la conoscenza della civiltà del passato, ovverosia come strumento di studio e approfondimento del quadro storico, politico e socio-economico sintetizzato mirabilmente nel documento monetale: il Sommo Poeta fu, pertanto, oltre che precursore dell’Umanesimo e del Rinascimento, anche il primo, grande studioso ed interprete della Scienza Numismatica intesa in senso moderno.
Giova ricordare in questa sede anche un altro grande merito di Francesco Petrarca: la ri-scoperta dell’Epistolario di Cicerone (Epistulae Ad Atticum, Epistulae Ad Familiares), che fu ritrovato dal Sommo Poeta nel corso di un suo soggiorno a Verona, allorché Egli reperì, presso gli Archivi della Biblioteca Capitolare della Cattedrale, un antico manoscritto contenente una copia delle lettere indirizzate - nel corso del I secolo a.C. - dal grande Avvocato arpinate all’amico Attico ed ai Familiari, documenti che costituiscono una fonte informativa di assoluto rilievo per la studio e la conoscenza di Roma antica.
Arezzo, antichissima città etrusca, già esistente nel IX secolo a.C. con il nome di Aritim, latinizzato poi in Arretium in seguito alla conquista romana nel corso del III secolo a.C., in epoca medievale fu anche sede di una Zecca monetaria, che rimase operativa per circa 500 anni, fino al 1530: infatti, il privilegio del conio e la facoltà di battere moneta furono concessi ai Vescovi di Arezzo già nell’XI secolo d.C., allorquando un diploma imperiale del 1051 rilasciò un’apposita “licentiam percutiendi denarios”, confermata in seguito anche da analoghe autorizzazioni imperiali di Federico II nel 1225 e di Carlo IV nel 1355.
Secondo gli studi in materia, le officine monetali erano ubicate nelle vicine città di Cortona e Bibbiena, in quanto era uso corrente all’epoca localizzare la Zecca in sedi decentrate, dove i “monetieri” - personale di vario ordine e grado, dagli operai ai dirigenti - avevano la possibilità di lavorare con maggiore tranquillità e sicurezza, distanti da eventuali sollevazioni popolari e faide familiari.
Le tipologie monetarie oggetto di produzione erano quelle caratteristiche del periodo storico medievale in esame (XI – XIV secolo): il “Denaro” o “moneta piccola” (o “picciolo”), coniato in argento o in “mistura” (lega di argento e rame) con un peso medio di 0,5 grammi per circa 15 mm di diametro; il “Grosso” o “moneta grossa” (da 12, 20, 24 Denari), coniato in argento (o in mistura) con un peso medio di 1,5 grammi per circa 25 mm di diametro.
Il primo “Grosso” aretino, detto anche “primitivo”, risale al 1246 e riporta al dritto la croce “patente” (“che si apre, si estende”) - così denominata in quanto dotata di bracci uguali le cui estremità si espandono verso l’esterno (tipico emblema anche dei Cavalieri Templari) - e la legenda “DE ARITIO”, mentre al rovescio riproduce l’immagine del Patrono San Donato corredata dalla legenda “S-DONATUS”. Analoghe effigi ed iscrizioni caratterizzano anche il più piccolo modulo utilizzato per il “Denaro” aretino.
Il “Grosso” è una moneta che è stata coniata ampiamente, anche presso le altre Zecche italiane e straniere, a partire dal XIII secolo per porre rimedio alla progressiva riduzione di peso/valore del “Denaro”, svilito e decaduto a “monetina” di soli 0,5 grammi rispetto agli originari 1,7 grammi circa fissati dalla riforma monetaria di Carlo Magno nel 794 d.C.
Tale moneta “grossa”, per la sua maggiore dimensione, e per il fatto di contenere un aggregato di valore pari a molte monete “minute” o “piccole”, fu appunto denominata “Grosso” e, in particolare, il pezzo da 12 Denari equivaleva ad 1 “Soldo”, a sua volta pari ad 1/20 di “Lira” (la libra latina).
La “Lira” rimase “moneta di conto” ovverosia soltanto “ideale” fino al XV secolo, quando fu finalmente coniata come moneta effettiva e circolante: nel 1471 a Venezia (sotto il Doge Nicolò Tron), e poi nel 1474 a Milano (sotto il Duca Galeazzo Maria Sforza), la coniazione del “Grosso” per eccellenza, cioè da 20 “Soldi”, rappresentò la prima emissione della “Lira”, che fu anche detta “Grossone” e poi “Testone” allorché recò l’incisione della testa, del busto, del ritratto del Principe o Sovrano regnante.
La città di Arezzo è stata anche sede di un “Monte Pio” o “Monte di Pietà”, Ente creditizio istituito nel 1473 d.C., al pari di tanti altri Monti fondati in progresso di tempo grazie all’intensa attività promozionale svolta dai predicatori Francescani, con l’obiettivo specifico di erogare il credito su pegno a condizioni poco onerose a favore dei soggetti più deboli e poveri, tendendo così a realizzare un bene comune ed un interesse pubblico, in un periodo storico caratterizzato da forti sperequazioni socio-economiche, acuite dall’esoso prestito ad interesse praticato dai Banchieri Ebrei ai danni del “popolo minuto” (cfr., La Banca dei poveri).
I Montes Pietatis del XV secolo, ritenuti dagli studiosi la forma originaria della Banca pubblica italiana tra Medioevo ed Età Moderna, nacquero infatti come Istituzione con fini solidaristici e rivolti a fronteggiare il problema dell’usura: a tale scopo, l’oggetto statutario era garantire l’equilibrio finanziario tra entrate e uscite per assicurare la stabilità dell’Ente e la continuità della sua rilevante funzione sociale (oggi si direbbe, con linguaggio anglosassone, il going concern, principio di continuità aziendale).
Lo statuto del Monte aretino, con una formula analoga a quella degli altri Monti toscani coevi (Firenze, Siena, Pistoia, Prato), disponeva infatti il principio della conservazione “in perpetuo” delle sue “pecunie”: in questa prospettiva, si riteneva ammissibile e giustificabile che la Banca, in funzione della copertura delle spese di amministrazione, operasse applicando un tasso di interesse “minimo” che, alla luce dello studio dei libri contabili, era praticato nella misura media del 5% annuale (1 “Denaro” al mese per “Lira” = 12 “Denari” / 240 “Denari” pari ad 1 “Lira” = 0,05).
È interessante rilevare che, in ogni caso, al fine di evitare di incorrere nel divieto ecclesiastico di “usura”, l’interesse computato sui prestiti concessi su pegno veniva registrato nella contabilità del Monte con la voce “salario”, in modo tale da evidenziare la natura non lucrativa dell’importo aggiuntivo richiesto, che andava invece a coprire le spese generali ed, in particolare, i costi di gestione del personale della Banca e gli oneri di amministrazione dei pegni (su beni mobili) offerti in garanzia dai debitori finanziati.
La Banca non realizzava così un guadagno speculativo, ma percepiva soltanto un “rimborso spese” necessario a garantire la sopravvivenza dell’Ente e la sua importante funzione creditizia a vantaggio dei ceti deboli, che fu esercitata ad Arezzo fino ai primi anni del 1800, quando l’attività cessò a causa della sopravvenuta dominazione napoleonica.