Con un tipico inizio in medias res, e un insistente ricorso al flashback che permette di ricostruirne le parti precedenti, la trama di Melma Rosa, il nuovo romanzo dell’autrice uruguaiana Fernanda Trías, si articola entro i confini di una città portuale stravolta da una non ben definita epidemia. L'agglomerato urbano, che per svariati aspetti si rifà a Montevideo, è colpito dalle raffiche di un vento tenace e pestilenziale. Una nebbia densa e rossastra ne intossica le strade e le rende spesso impraticabili, mentre uno strano ammasso di alghe del medesimo colore infesta le acque, divenute a ragion di ciò pericolose. Le circostanze obbligano gli abitanti a barricarsi in casa o a fuggire verso l'interno del paese, anche perché i supermarket si sono progressivamente svuotati e la ricerca del cibo deve indirizzarsi, con tutti gli inconvenienti del caso, al mercato nero. L'equilibrio economico della città fa leva, intanto, su un enorme stabilimento per la produzione di carne industriale ricavata da scarti animali, e questa – la poco appetibile «melma rosa» del titolo – è uno dei pochi alimenti ormai reperibili in commercio. Neanche la situazione politica fa ben sperare. Anziché assumere il ruolo di salvifico deus ex machina, il Ministero della Salute acquisisce il controllo militare del paese e vessa i cittadini con regolari abusi di potere. In questo tetro contesto di reclusione e asservimento, la protagonista – e voce narrante- naufraga a bella posta fra i volti, i luoghi e gli eventi che riemergono dal suo passato, vagheggiando saltuariamente un ipotetico trasferimento in Brasile. Pur se cede al fascino o alla forzatura di queste proiezioni nel tempo che è stato, e in quello che verrà, per lei c'è anche una dimensione quotidiana nella quale ha scelto di dedicarsi a tre figure: la madre, a cui è legata da un rapporto intenso ma conflittuale; Max, ex marito con tendenze ascetiche, dal quale non riesce a distaccarsi del tutto e che ora è degente al policlinico; e infime Mauro, un bambino di cui lei si prende cura, affetto da una sindrome non specificata – forse quella di Down o più probabilmente di Prader-Will – che gli amplifica la fame a dismisura e lo rende talvolta incontrollabile. Da tutti, per cause di forza maggiore o per scelta, sarà costretta infine a separarsi in maniera risolutiva, percorrendo da sola un'allegorica strada «lunga e carica di miraggi, l'asfalto riverberante sotto il sole»1.
L'inizio di uno sviluppo narrativo in medias res implica quasi sempre una precisa strategia compositiva con cui si cerca di eliminare i preamboli e introdurre il lettore direttamente nel vivo dell'azione. Nel romanzo di Fernanda Trías, tuttavia, il procedimento sembra legato più che altro a un’ineluttabile necessità: «L'inizio non è mai l'inizio. Ciò che confondiamo con l'inizio è solo il momento in cui ci accorgiamo che qualcosa è cambiato»2. La voce narrante sceglie infatti di cominciare la propria storia con il ricordo di «un giorno qualunque a un'ora qualunque»3, solo a prima vista svincolato dal contesto ma in qualche modo sintomatico di una presa di coscienza rispetto a un mutamento già in atto o quanto meno incombente. Quel che riaffiora in lei, lungi dal rappresentare soltanto un frammento mnestico, può diventare anche un ponte fra il presente storico e quel passato la cui ricostruzione consentirebbe forse di decifrare, in parte o in toto, l'attualità. Il processo, nondimeno, è troppo fitto di insidie perché possa portare senz'altra conseguenza a un risultato accettabile. Il recupero del proprio passato, naturalmente, non è mai al sicuro dalle trasfigurazioni operate dalla memoria: i piani del ricordo spesso si accavallano e l'immagine che se ne produce risulta irrimediabilmente alterata tanto nei contorni quanto nei contenuti. Ma laddove si riuscisse a scongiurare questo pericolo, si dovrebbe far fronte in ogni caso a un problema, per così dire, ermeneutico, poiché chi guarda al passato deve giocoforza interpretare i propri ricordi e in mezzo a essi far chiarezza. «Il problema», ci avverte la narratrice con un'efficace similitudine che è anche uno dei tanti indizi di cui il libro è programmaticamente costellato, «è che gli inizi e i finali si sovrappongono, tu credi che qualcosa stia finendo e invece è qualcos'altro che comincia. È come guardare il movimento delle nubi: cambiano forma man mano che avanzano, ma se non distogliamo lo sguardo vediamo che la forma rimane simile, quel soffice coniglio è sempre un coniglio […]; magari comincia a sgranarsi […], ma riusciamo ancora a vederlo. Invece, basta guardare un istante da un'altra parte per non trovare poi nemmeno più i resti del coniglio, ma un ammasso di nubi al suo posto»4.
Un rapporto dialettico di tipo polare attraversa come un filo rosso il tessuto narrativo di Melma rosa e genera una tensione permanente nell'operato della sua protagonista. Innanzitutto, la coppia oppositiva rappresentata da Max e Mauro: da un lato un uomo che, attraverso la rinuncia fisica e le privazioni, cerca di dominare gli impulsi corporei e accedere così a una più elevata spiritualità, e dall'altro un bambino la cui sindrome lo porta a divorare ogni cosa pur di placare momentaneamente gli istinti del suo corpo. In seconda battuta, la coppia delle due madri. Da una parte la madre biologica, da sempre troppo presa da sé stessa per concedere alla figlia le attenzioni che questa vorrebbe, dall'altra Delfa, la vecchia tata che un tempo si era presa cura della protagonista e che lei in segreto omaggiava col titolo di «mamma». In entrambi i casi si prefigura quel che abbiamo accennato in precedenza, una tensione molto più forte che domina la vicenda e ne diventa un vero e proprio leitmotiv. Con un andamento che può ricordare a tratti il romanzo The Handmaid's Tale di Margaret Atwood, la narrazione presenta una costante oscillazione temporale che, senza alcuna soluzione di continuità, alterna passato, presente e un ipotizzabile ma alquanto vago futuro. In particolar modo, come già nell'opera della scrittrice canadese, sembra esserci una drastica cesura fra il prima e il poi, fra il mondo di ieri, quello calato nell'«epoca d'oro della sicurezza»5, e il mondo dell'oggi, sul quale dubbio e incertezza gravano come maledizioni. La frattura fra queste due dimensioni è netta e insanabile, ma non altrettanto si può dire del confine che le separa: «La mia linea retta s'ingarbuglia, sento che il tratto mi sfugge, e il disegno diventa una corda che io stessa mi lego intorno al collo. Il passato, il presente e il futuro, tutto è impastato nella macchina trituratrice della memoria»6. Malgrado gli sforzi compiuti, il recupero dei frantumi del proprio passato diventa quindi un'operazione problematica o infruttuosa: «Non riesco a ricordarlo. Ci ho provato per anni, con lo slancio ingenuo di chi crede che la vita sia una linea e che ricordare consista nel tracciare un segno dritto e nitido tra due punti»7.
Pur incappando nei mille ostacoli prodotti dall'esercizio stesso del ricordare, l'unico possibile viatico per la riacquisizione del passato, in una contingenza di letargia e sospensione temporale come quella descritta in Melma rosa, rimane comunque la memoria: «Non è semplice descrivere il tempo della reclusione, perché se c’era qualcosa che lo caratterizzava era una sensazione di non tempo. Vivevamo in un’attesa che non era nemmeno l’attesa di qualcosa di concreto. Aspettavamo. Ma in realtà aspettavamo che non succedesse niente, perché ogni cambiamento poteva essere peggio. Finché tutto fosse rimasto fermo, io potevo trattenermi nel non-tempo della memoria8». Nel far riferimento a quest'ultima, è come se la voce narrante affermasse l'esistenza di una zona franca in cui, pur rimanendo ancorata al passato, la memoria non si avvale più della latenza che la caratterizza parzialmente9, bensì della possibilità di riattivare questo passato tornato a essere attuale nel nuovo presente.
Questi reperti di un tempo andato e irraggiungibile portano con sé domande nuove. L'autrice le restituisce attraverso dialoghi isolati posti all'inizio di ogni capitolo – forse scambi di battute fra l'io narrante e Max? – i quali richiamano di volta in volta questioni riguardanti i confini, le distanze, gli spazi, il corpo, il paradosso e, ovviamente, il ricorso consapevole al proprio passato.
E cosa andresti a cercare lì?
La stessa cosa che cerchi tu.
Ti fa arrabbiare che quel passato che ami tanto non mi interessi più.
Quindi tu non ci torneresti?
A fare che?
Io ci torno di continuo.
Con la mente, vuoi dire?
Qualcosa del genere.
La mente è un luogo pericoloso.10
Un passato che però è simile a «un castello di sabbia»11, destinato irrimediabilmente a sgretolarsi sotto il fuoco incrociato della memoria falsificatrice e dell'universo distopico presente. Eppure, con uno scarto logico palese, questo castello la protagonista lo ha edificato non soltanto nella consapevolezza della sua finitudine, ma, per sua stessa ammissione, «Non perché durasse, non per proteggerlo dalle onde»12. Sono tanti i paradossi che affiorano lungo le pagine del libro, ma tutti convergono in un paradosso unico: l'inevitabile condizione della protagonista la cui vita biologica attuale è garantita da un passato attualizzabile soltanto nello spazio privato e inafferrabile della memoria. Non a caso, la donna fa coincidere la sua idea di mondo – cioè quella legata alla concreta possibilità di esistere – proprio con questo attaccamento al passato, con un suo possibile recupero, se pur a brandelli e viziato dalle contraffazioni della memoria: «Temevo che se avessi smesso di camminare il mondo mi sarebbe crollato addosso, e quando dico il mondo intendo il passato, perché il presente precario e traballante che avevo avuto fino a qualche ora prima era già finito»13.
Ciononostante, nel gioco dei ricordi tutto finisce irrimediabilmente per avvilupparsi, e così, nella parte conclusiva del suo romanzo, Fernanda Trías rimescola ancora una volta le carte: «Dove vanno a finire le ore cancellate, le immagini perdute? Un'immagine è la riproduzione di un oggetto per mezzo della luce che emana. E che luce emana quello che non c'è? È inutile scriverlo, devo sognarlo, polverizzare i cocci del vaso rotto affinché nessuno, nemmeno io, riesca a ricordarlo»14.
Può il passato presentarsi come colonna portante della vita e al tempo stesso come destrutturazione definitiva dell'oggi (e quindi delle sue eventuali connessioni col futuro)? Un'aporia forse irrisolvibile, che parrebbe scoraggiare ulteriori tentativi di interpretazione. Nondimeno, come si è già detto, Melma rosa porta in sé un numero considerevole di indizi. «Anche il ricordo è un rifiuto riciclabile»15, avverte in maniera epigrammatica la chiusura di uno dei capitoli iniziali, e, si sa, ciò che può esser riciclato può sempre diventare qualcos'altro.
Note
1 Fernanda Trías, Melma rosa, Roma, 2022, cit. p. 234. Da ora in poi si farà riferimento al libro con la sigla MR.
2 MR, cit. p. 39.
3 MR, cit. p. 14.
4 MR, cit. p. 68.
5 Cfr. Stephan Zweig, Il mondo di ieri, Milano, 1994 (19461), cit. p. 9.
6 MR, cit. p. 144. Si noti inoltre che il ricorso all'immagine della «macchina trituratrice» non è affatto casuale, giacché nelle pagine precedenti con essa si faceva riferimento – fuor di metafora – alla macchina utilizzata nello stabilimento per ottenere la carne dalle carcasse degli animali. L'accostamento è oltremodo interessante: se la macchina amalgama ogni singolo elemento annullandolo in un'unica massa informe, anche la memoria sarebbe in grado di masticare i ricordi sino a trarne un accumulo indefinito. Cfr. pp. 45-46.
7 MR, cit. p. 143.
8 MR, cit. p. 88.
9 Cfr. Luciano Zagari, Il passato e la memoria, in Sistemi dell'immaginario dell'età di Goethe, Pisa, 2004, p. 393.
10 MR, cit. p. 64.
11 MR, cit. p. 87.
12 Ibid.
13 MR, cit. p. 150.
14 MR, cit. p. 234.
15 MR, cit. p. 47.