Non si è precari, oggi, sul lavoro, si è “fluidi”.
Prendo spunto dalle parole di Filippo Rossi, un imprenditore che si definisce proprio così, fluido (che è anche il titolo del suo libro uscito nel 2020, L’imprenditore fluido. La ricchezza sta nel mezzo). Rossi si occupa di multi-business, ossia crea aziende fisiche in più settori, ne segue la nascita e la crescita, e poi le lascia andare avanti da sole, in autonomia, gestendole “a distanza”. Per Rossi, essere un imprenditore fluido è soprattutto, con le sue parole, “una filosofia di vita, un modo di essere, di vivere, di pensare e di creare valore”.
Ripenso, alla mia, di esperienza professionale “fluida”: non sono un’imprenditrice, sono un’insegnante. La cosiddetta insegnante precaria della scuola pubblica. Stabilmente precaria da oltre 16 anni. Un po’ per scelta, un po’ per caso (nel 2008 ho superato il test di ingresso a un percorso abilitante, che a un certo punto ho dovuto congelare per 3 anni. Dopo quel periodo, però, il percorso abilitante era sparito, e non sono mai più riusciti a riconvertirmi su un percorso abilitante simile). Dunque, una certa costanza, nel mio settore di lavoro, c’è: così come Rossi continua a fare l’imprenditore dentro contesti aziendali differenti, così io da anni continuo a fare l’insegnante dentro contesti scolastici differenti.
Creare valore, come fa Rossi nelle aziende, lo faccio anch’io, a mio modo, dentro le scuole in cui mi trovo a insegnare. Trovarsi a lavorare di anno in anno in luoghi diversi, non solo fisici, ma relazionali, emotivi, significa trovarsi a imparare a stare nella flessibilità, nell’adattamento continuo. Significa trovarsi a diffondere e condividere le proprie conoscenze e competenze, tutto quel che si è imparato (il proprio valore professionale, appunto) in ogni singola realtà scolastica, di volta in volta. Come a dire: spargo il mio sapere e le mie abilità un po’ ovunque, non le tengo “chiuse” dentro la stessa scuola, lo stesso ambiente relazionale. Ricordo quella volta in cui una dirigente scolastica, sentendomi raccontare le mie esperienze in tante scuole diverse, si è stupita esclamando: “Ma lei è una risorsa”. Un gran bel ricordo: avevo incontrato una persona che mi “vedeva” per quel che avevo e potevo dare, dentro la sua scuola, per quell’anno scolastico – e non per quello che non avevo (stabilità professionale? Esistenziale?).
Mi si potrà ribattere: e la crescita? La costruzione? La co-costruzione, lenta, graduale, dentro lo stesso ambiente, anno dopo anno? La co-costruzione, l’ho vista avvenire in ogni scuola e classe in cui mi sono trovata a insegnare, da settembre a giugno dell’anno successivo. Ho visto alunni modificarsi completamente, (ri)trovare fiducia in sé stessi, nelle loro capacità. Studenti che si lamentavano “Prof., non ce la farò mai, non ce l’ho mai fatta!”, arrivare a commuoversi di fronte a un 6, sudato e meritato, con i loro ritmi e tempi, le loro capacità in via di sviluppo. Il tutto nel giro di un solo anno – perché anche solo un anno, vissuto a stretto contatto mattina dopo mattina, può dare moltissimi frutti.
Mi rendo conto di riflettere principalmente dalla mia prospettiva – quella dell’insegnante. Come reagisce, l’alunno, di fronte a un docente diverso ogni anno? I giovani, si sa, hanno bisogno di punti fissi. Di riferimenti che stiano lì a dare loro sicurezza. Poi ripenso ai tempi attuali: ne siamo davvero sicuri, è ancora così? In un mondo dove tutto cambia velocemente – compresi i loro smartphone! – non stanno acquisendo (se non ce l’hanno già) nuove abilità che gli adulti spesso non possiedono, per cui reagiscono meglio ai cambiamenti, sanno adattarsi meglio al mondo che cambia intorno a loro, con più flessibilità e apertura? Ok, mi si dirà che uno smartphone che cambia è ben diverso da un docente che cambia… ma la parte positiva, credo, sta nel trovarsi “costretti” ad adattarsi al nuovo insegnante (cosa a doppio senso, comunque), sperimentare nuovi metodi e strumenti di apprendimento/insegnamento, ritmi nuovi. A me sembra che questa fluidità possa portare a sperimentare la varietà, che a sua volta può portare grande ricchezza. Sperimentare un docente “diverso”, può voler dire sperimentare tutta una gamma di possibilità nuove. Magari lo studente che andava male in quella materia l’anno precedente, con il docente “nuovo” potrà trovare una motivazione nuova. Scoprire che la materia non è così ostica. Che ci sono altri modi di approcciarla, impararla, farla propria.
Oltretutto, trovo conferma alla mia ipotesi di buon adattamento degli adolescenti verso i cambiamenti, nelle riflessioni di Tom Hollenstein, professore del Dipartimento di Psicologia alla Queen’s Univesity in Canada. Secondo lo studioso, che ha studiato gli atteggiamenti degli adolescenti durante la pandemia, la maggior parte degli adolescenti sono resilienti e hanno la capacità di adattarsi facilmente.
Ma torniamo al mio ragionamento di partenza: l’insegnante fluido. Una persona “con animo vagabondo”, usando le parole dell’imprenditore Filippo Rossi. Non solo il corpo che fisicamente si sposta e vaga, da una scuola fisica a un’altra, ma anche i pensieri, la mente, l’animo. Un animo aperto al cambiamento e alle sperimentazioni, non può che essere aperto alla varietà del mondo, alla sua diversità – dunque altamente accogliente, inclusivo.
“Come l’acqua: adattabile, flessibile”, si definisce Rossi, pensando a sé stesso. Un insegnate fluido, credo io, un lavoratore che cambia spesso scuola, non può che imparare ad adattarsi (e in fretta, il più delle volte!) a ogni nuovo contesto, a ogni nuovo collega e dirigente, a ogni nuova classe. Imparare nel minor tempo possibile cose anche semplici se non banali: in quale armadietto si trova lo stereo per gli ascolti dei cd in lingua inglese, da usare nelle classi senza LIM? (ebbene sì, ce ne sono ancora). Quale è il codice per fare le fotocopie? (si è autonomi nel farle, o bisogna chiedere sempre ai custodi?). Per non parlare dell’attivazione dell’account di posta elettronica scolastica. Dell’accesso al registro elettronico, dell’imparare ad usarlo (ce ne fosse solo uno, invece ogni scuola ha il suo). A volte, quando penso al carico cognitivo e alla velocità mentale richiesti per inserirsi in una nuova scuola, penso che è esattamente quanto richiede questa società (mi basta pensare all’apertura dello SPID, che tormento!), per cui, chi ha uno spirito e un cervello fluidi, si trova pronto a trasferire competenze dalla vita professionale a quella privata, e viceversa.
Mi chiedo se queste mie riflessioni, che si accompagnano al lavoro del docente di scuola pubblica, che attraversa da sempre un periodo di precarietà/fluidità più o meno lungo, possano applicarsi ad altri settori professionali. Riflessioni che trovano riposta nelle parole di Rossi, per il quale non ha più senso cercare di ottenere un posto fisso, con contratto a tempo indeterminato, a tutti i costi. Questo, secondo l’imprenditore fluido per eccellenza, non è più garanzia di sicurezza (perlomeno nel settore privato). Ma allora, come si fa a vivere così, in uno stato di continua incertezza?
Si tratta di accogliere un cambio di prospettiva: non è incertezza, è fluidità! Imparare a navigare le onde, come una barca che ha comunque una sua solidità. Continuare a formarsi per crescere professionalmente, acquisire nuove conoscenze e abilità. Creare un nocciolo di competenze che siano trasversali, spendibili su più fronti professionali. Nutrire sempre e ancora i propri sogni, le ambizioni legate al lavoro. Una fluidità che può portarci a non sapere mai con certezza cosa si farà l’anno dopo, ma che ci potrà dischiudere un ventaglio inaspettato di possibilità. Qualcosa di nuovo capace di darci entusiasmo e motivazione (nel caso siano andate un po’ perse). O quello stimolo nuovo che ci fa aprire gli occhi al mattino con gioia al pensiero del lavoro o di un nuovo progetto che ci aspetta.
A me sembra che questo atteggiamento – di sicuro non facile da adottare, sulle prime – possa avere tutta una serie di conseguenze positive in vari ambiti della nostra vita. Non dico che dobbiamo darci tutti alla flessibilità e cambiare lavoro ogni anno – non è questo il mio intento. Ma tenerci pronti, questo sì, ad ogni eventualità di cambiamento al di fuori del nostro controllo (la pandemia insegna…). Nutrire comunque un atteggiamento che ci faccia accettare quel che arriva, gli imprevisti, le casualità, con la giusta disposizione d’animo, con equilibrio e una certa serenità. Perché tutto, nella vita, è in continuo divenire – e di questi tempi, ancora di più –, per cui non ci resta che imparare a “divenire”, assieme al tutto, come in una bellissima danza.