Ho scoperto il Giappone in Grecia – per la precisione ad Atene – per puro caso. Una decina di anni fa, mentre ero ospite a casa della mia amica Elena. C’erano dei momenti in cui lei era impegnata al lavoro, io mi ero scordata di portarmi un libro, e avevo una gran voglia di leggere. Elena, che è una gran lettrice, in greco e in italiano, in casa aveva una libreria ben fornita, che conteneva un romanzo in versione italiana: Kitchen, dell’autrice giapponese Banana Yoshimoto.
L’ho letto nel giro di un giorno, e ho pensato: ma come ho fatto vivere finora, senza questo stile, queste sensazioni? Banana Yoshimoto, la cerco ogni volta che ho bisogno di storie minime ma luminose. Qualcosa che mi (ri)dia speranza, magari in un momento un po’ difficile della mia vita. La chiamo “voglia di Banana Yoshimoto”: le sue storie, per quanto tristi o tragiche (partono spesso da un lutto o un trauma) possiedono una loro dolcezza e leggerezza. Sono uno squarcio di luce nel buio (e non a caso, la parola “luce” compare moltissime volte nei suoi romanzi).
Condivido queste riflessioni con Ornella, che ha una laurea in lingua e letteratura giapponese, e con il Giappone ha a che fare da quasi 20 anni, come professionista nel settore del turismo.“I giapponesi raccontano storie con delicatezza, senza calcare la mano sul foglio, come con la calligrafia, un tocco leggero che dal cuore arriva sulla carta”, mi spiega Ornella, dando un senso alla mia percezione di leggerezza. Quando leggo un romanzo giapponese, le parole che mi restano, alla fine, sono spesso: semplicità, gentilezza, saggezza, pacatezza. Ornella osserva che: “Queste caratteristiche fanno parte della cultura giapponese, dove il bene della comunità è più importante di quello del singolo, dove si tace più che parlare, e a farlo sono i gesti, le attenzioni, il rispetto dei luoghi condivisi, il capire le esigenze dell’altro, anche sconosciuto, che abbiamo accanto, ed evitare di arrecargli un danno con il nostro comportamento”.
Ornella mi sta aiutando a capire quel senso di attenzione che sento verso di me, da parte di un autore o una autrice giapponese. “Per vivere in Giappone, ma anche per avere a che fare con i giapponesi (io ho imparato a farlo sul lavoro!) - precisa Ornella - è importante imparare a ‘leggere l’aria’, 空気を読む, kuuki wo yomu, capire quando è opportuno parlare e quando no, se quello che stiamo per dire potrebbe ferire l’altro”.
Leggere l’aria: mi vedo immersa in un mare di nuvole sofficissime. Mi piacerebbe che imparassimo a leggerci l’aria un po’ di più, l’uno con l’altro, di questi tempi… tempi in cui di Giappone si è parlato sempre di più, soprattutto grazie alle Olimpiadi che si sono svolte a Tokyo nel 2021. Ornella concorda, e mi spiega che “oggigiorno, non si tratta più soltanto del Giappone degli appassionati di fumetti e cartoni animati, adesso c’è il cibo, c’è la letteratura e c’è il turismo. Il numero di ristoranti giapponesi sta aumentando rispetto a dieci, venti anni fa. Nascono anche locali simili a quelli che esistono in Giappone specializzati su una pietanza in particolare, ad esempio il ramen, un piatto a base di spaghetti di frumento servito come una zuppa con brodo di carne o pesce e insaporito con carne di maiale, uova, alghe marine. A Roma e Milano ci sono anche delle caffetterie in stile giapponese che servono dolci e bevande tipiche”. E forse Ornella intende proprio quel locale, Hiromi Cake, non lontano da Sant’Ambrogio, dove sono passata a prendermi dei buonissimi pancake coi fagioli rossi adzuki, un giorno in cui passavo per Milano.
Ornella mi regala altre curiosità sul cibo: “La cucina giapponese tradizionale fa parte dal 2013 del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Unesco, un riconoscimento importante che fa di questa cucina un vero simbolo del Paese”. Anche qui, esiste un’espressione particolare legata alla cultura culinaria nipponica: “La parola washoku (和食, cucina giapponese) – mi spiega Ornella – è composta da due caratteri, Wa che significa armonia e Shoku cibo, a dirci che questa cucina è caratterizzata da un armonico bilanciamento dei sapori e degli ingredienti. La stessa armonia che troviamo anche nel modo in cui i piatti vengono presentati, nell’utilizzo e nella posizione delle stoviglie sulla tavola: tutto ha un senso”.
Il senso di Ornella per il Giappone è molto evidente mentre parla, perché Ornella in Giappone ci è stata molte volte, soprattutto per lavoro. Ora è ferma dal 2017, ma conta di tornarci presto. Mi incuriosisce soprattutto il suo rapporto con Tokyo. Le sensazioni che prova, quando è lì: “Ogni volta le sensazioni cambiano, come la città. Tokyo confonde, ma allo stesso tempo mette in equilibrio. Ricordo la mia prima volta a Tokyo, una ventina di anni fa. Arrivai di notte e l’impatto fu sconvolgente, mi sembrava di essere in una città del futuro o di essere atterrata su un altro pianeta. Il viaggio in taxi dall’aeroporto a Shinjuku fu surreale, mi giravo da un finestrino all’altro a osservare con stupore quel mondo nuovo luminoso e un po’ pazzo. La permanenza iniziò subito con una piccola disavventura che mi introdusse però a quel rispetto e a quella cortesia di cui ho già parlato. Non riuscivo a trovare il palazzo dove avrei alloggiato. Fermai una signora e le chiesi indicazioni, ma anche lei guardando la mappa non riusciva a capire dove fosse esattamente il palazzo. Ma non mi lasciò lì, mi accompagnò a piedi perlustrando le strade finché non lo raggiungemmo”.
La delicatezza. L’ordine e l’armonia. Il rispetto e la cortesia. Ma anche un’attenzione speciale verso il passato, le tradizioni, come mi spiega Ornella: “Tokyo è il simbolo del Giappone e del suo tenere insieme antico e moderno. A Tokyo è facile camminando tra i palazzi imbattersi in un piccolo santuario o un tempio. La tradizione non verrà mai fagocitata dall’innovazione, sarà sempre lì presente e importante. Nulla di quanto i giapponesi creino è scorporato dalla loro cultura. Un aspetto, questo, che mi ha sempre affascinato molto”.
Le chiedo se ci sono dei luoghi, a Tokyo, che ama particolarmente: “Amo il quartiere di Shinjuku, forse perché ai miei occhi il più mutevole e multiforme. Shinjuku è caos, stordimento, confusione, frenesia, rigore e divertimento, vita diurna e notturna. Non ci sono solo i grattacieli, gli uffici, la sede del governo metropolitano, la stazione dei treni, ma anche grandi magazzini, ristoranti, cocktail bar, locali notturni. Basti pensare a Kabukicho, il quartiere a luci rosse con ristoranti, love hotel, sale da gioco e locali a luci rosse, o a Golden Gai una zona sempre all’interno di Kabukicho disseminata di piccoli locali in cui entrano cinque, dieci clienti al massimo. Un altro luogo che amo molto a Shinjuku è il parco di Shinjuku Gyoen che, pur trovandosi a poca distanza dal frastuono del quartiere, è perfetto per una passeggiata tranquilla ammirando la natura nell’alternarsi delle stagioni. Il rumore di fondo della città viene inghiottito dal silenzio della natura che restituisce altri suoni”.
Mi perdo nei racconti di viaggio di Ornella. Tokyo, nella mia mente, è associata a cose insolite, bizzarre. Ornella mi conferma che lo sono, ai nostri occhi occidentali: “I giapponesi sono in grado d’inventarsi qualsiasi cosa. Tra le cose più strane, degli ultimi anni, metterei gli Henn na Hotel dove Henn na sta per strano. Si tratta di hotel gestiti da robot, alla reception si viene accolti da robot umanoidi o dall’aspetto di dinosauri!”. E poi, prosegue Ornella: “A Tokyo capita di imbattersi in locali a tema dedicati a personaggi di fumetti e cartoni animati, Sailor Moon, per esempio, oppure i caffè con gli animali: oltre al caffè dei gatti troviamo quello dei conigli, dei serpenti, dei gufi, dei ricci!”.
Molte delle storie che ho letto di recente si snodano anche in un altro quartiere, Shibuya. Ornella mi racconta che “Shibuya è famoso soprattutto per un incrocio. Le immagini dell’incrocio fanno da tempo il giro del mondo, e credo nell’immaginario delle persone che lo osservano in una foto o in un filmato ci sia il desiderio di sapere che sensazione si prova ad attraversarlo. L’aspetto che forse stupisce di più, non è tanto il numero di persone che attraversano la strada, ma il fatto che sia un attraversamento tutto sommato ordinato: ognuno va per la sua strada senza intralciare l’altro. L’incrocio di Shibuya ti inghiotte, è come un passaggio temporale che ti restituisce fisicamente, quasi miracolosamente indenne, dall’altra parte della strada. Attraversando l’incrocio di Shibuya sei solitudine nella moltitudine: i numeri dicono che l’incrocio sia attraversato da 1.000 a 2.500 persone ogni due minuti”.
Ornella si ferma un attimo, le viene in mente qualcosa: “Tra l’altro, hai letto la raccolta di poesie Shibuya Crossing di Damiana De Gennaro, edita da Interno Poesia? Questa poesia è la descrizione perfetta dell’incrocio di Shibuya:
L’incrocio senza perla
è un’ameba di destini –piove sull’asfalto l’impressione
di un mondo rovesciato
e i palazzi, coperti dalle alghe,
stanno ad aspettareil rosso, il verde,
nuove ondate –
l’incolore solitudine
di una bolla di sapone.
Saluto Ornella e la ringrazio, per questi racconti di viaggio così intimi e particolari. Preziosi. Con la speranza, per me, per chi come me, di riuscire a vederlo prima o poi dal vivo, oltre i libri che leggo, questo “mondo rovesciato”.