Era già da tempo che un mio caro amico, vecchio compagno di viaggi ed appassionato cinefilo, mi parlava di un film che aveva visto recentemente e che voleva assolutamente che vedessi anche io.
Una volta sarebbe stato semplice, sarei andato a vederlo al cinema una sera, quando ne avessi avuto voglia, e poi ne avremmo discusso insieme davanti ad un aperitivo nelle calde serate estive della nostra città ma ora, in questi strani anni, ciò non è più possibile perché questo docufilm, neologismo che sta ad indicare un prodotto cinematografico in cui la realtà, storica o naturalistica, viene presentata in un mix di riprese dal vero e di parti sceneggiate, circola solo su “piattaforme digitali” che ti costringono ad abbonarti o ad andare a vedere i loro prodotti a casa di chi è abbonato, perché, manco a dirlo, vedere quel film nella magia della sala cinematografica, come meriterebbe, è divenuto pressoché impossibile.
Quindi sarei dovuto per forza andare a vedere il misterioso film a casa sua.
Oltre a questa piacevole circostanza, che richiedeva però la convergenza di impegni personali e mondani difficilmente conciliabili, anche qualcosa d’altro mi portava a procrastinarne la visione: la sottile inquietudine che mi evocava la storia stessa che racconta dell’incredibile rapporto che si crea tra un uomo ed un polpo.
Se aveva commosso ed entusiasmato tanti spiriti navigati ed un po’ cinici come il mio amico che cosa avrebbe suscitato in me, sempre così lacerato tra pulsioni e sensi di colpa, che da pescatore subacqueo di polpi ne avevo fiocinati tanti? Mi avrebbe appesantito ulteriormente il Karma, come aveva sentenziato una volta un mio compagno di viaggio, animalista e fervente buddista, mentre mangiava leccandosi i baffi, il polpo che io avevo pescato poco prima?
Comunque, alla fine ci siamo trovati e ho potuto vedere My octopus teacher vincitore dell’Oscar 2021 come miglior documentario e impropriamente tradotto in italiano con il titolo: Il mio amico in fondo al mare, che a mio parere non coglie l’essenza dello straordinario rapporto che si instaura, nel corso della vicenda, tra l’uomo e l’animale.
La storia si apre presentando un famoso documentarista sudafricano Craig Foster, che all’apice della sua carriera vive un momento di profonda crisi professionale ed umana. Dalle sue stesse parole veniamo a sapere che tale stato di prostrazione era emerso dopo una lunga esperienza professionale tra i boscimani del Kalahari, perchè vivendo con loro aveva constatato la profonda sintonia tra quegli straordinari cacciatori e la Natura in cui vivono immersi, cosa che lui, come noi, aveva oramai perduto irrimediabilmente.
Come ci si aspetterebbe da un uomo del genere, colto da fatale nostalgia, per lunghi anni aveva gettato tutto se stesso nel tentativo di cogliere, sulle loro tracce, la cifra di quella perfezione esistenziale in totale armonia con la Natura, ma ci lascia intuire di essere uscito sconfitto ed estenuato da tale sfida.
La grave crisi psicologica che ne consegue lo porta ad estraniarsi dal mondo e persino dalla famiglia per ritirarsi in un suo vecchio cottage in riva al mare a False Bay, non lontano dal Capo di Buona Speranza, dove aveva trascorso la propria infanzia.
Lì, profondamente depresso per la nostalgia di quell’Assoluto che aveva intravisto tante volte e che ancora gli era sfuggito, in preda ad una ennui paralizzante, sente riaffiorare la sua antica passione per il mare e decide di assecondarla iniziando a nuotare ogni giorno, a pelle nuda, in quelle fredde acque.
In questo modo, resettando la propria vita e ripartendo da zero, ricominciando ad immergersi come faceva da bambino riprende quotidianamente contatto con la natura selvaggia e meravigliosa dell’Atlantico meridionale.
Attraverso quelle acque primordiali, in quell’universo alieno popolato di creature vegetali e animali che sembrano provenire da altri pianeti, il protagonista pare riuscire ad entrare finalmente in quella magica, ineffabile sintonia con la Natura e la vita stessa che aveva invano cercato di raggiungere in anni di vita e di estenuanti riprese insieme ai Cacciatori di orme nel Kalahari.
Ma non è solo nella sua ricerca poiché vi riesce solamente dopo una vera e propria iniziazione in quelle fredde acque, grazie al più improbabile dei maestri: un polpo comune, una femmina di quell’octopus che Georges Léopold Chretien Frédéric Dagobert Cuvier, gran naturalista, nel suo zelo settecentesco di classificatore non aveva trovato nulla di meglio che chiamare ”vulgaris”.
Infatti, dopo qualche immersione in quel caotico inferno-paradiso di onde e di gigantesche alghe chiamate Kelp che dominano il paesaggio subacqueo, Foster incontra questo animaletto. Incuriosito dal comportamento del piccolo polpo, così strano eppure così familiare, nelle immersioni successive inizia a cercarlo, anzi a cercarla, perché come scopriremo, grazie ad un colpo da maestro degli sceneggiatori, si tratta di una femmina e infine a seguirla finché si accorge che la sua curiosità è ricambiata.
In un incredibile crescendo di colpi di scena e di riprese subacquee di una bellezza eccezionale e di una tenerezza disarmante, capace in effetti di scalfire le resistenze del più incallito e cinico degli spettatori, assistiamo dapprima a timidi approcci infine a veri e propri abbracci tra queste due creature cullate dal mare sotto le colossali colonne di Kelp che fanno da sfondo: un esemplare apicale, perfetto, della scala evolutiva: un Homo sapiens tra i più sofisticati della specie, bianco, aitante, estremamente colto, raffinato e sensibile e il suo guru, un mollusco.
Seguendo per un intero anno la sua mentore il nostro eroe riprende contatto con quel mondo animale e vegetale che forse aveva sempre guardato con superficialità, vede il polpo crescere in dimensioni e astuzia, assiste, come paralizzato, ad una aggressione da parte di uno squalo che le strappa un tentacolo lasciandola mezza morta.
Seguendola nuotando con lei ogni giorno, Foster comprende le sue strategie di caccia e gli stratagemmi di occultamento che il polpo adotta per sfuggire ai suoi numerosi nemici, mentre scopriamo sgomenti che lo straordinario animale sarà destinato a vivere poco più di un anno poiché questo è l’arco di tempo che la vita concede a questa specie.
Un anno di vita in cui si può davvero dire che insegna a Craig Foster ad immergersi completamente in quell’universo subacqueo non solo a nuotarci, a vederlo non solo a guardarlo, a temervi la morte ma anche a prenderla in giro come quando il cefalopode le sfugge arrampicandosi proprio in groppa allo squalo che voleva divorarla, a vivere con la paura senza perdere la voglia di giocare come in quella sublime scena in cui lei gioca con un branco di salpe.
Alla fine il nostro “quester hero” pare aver perduto la sua guida, ma alla fine la ritrova in una tana, in un placido, tenero amplesso tentacolare con un grosso esemplare maschio.
La scena è di una dolcezza straziante poiché la voce narrante ci dice che dopo essersi accoppiata e dopo aver deposto migliaia di uova nel fondo della sua tana lei le accudirà senza nutrirsi fino a morire di sfinimento, portando serenamente a termine la propria esistenza con una dignità e oserei dire una grandezza che va ben oltre la commovente scena del film che la rappresenta.
Infatti con una sequenza indimenticabile, ci mostra lo sguardo che la protagonista, pallida ed esausta, lancia a Foster prima di consegnarsi alla morte che, come giustamente viene fatto vedere, non sarà né dolce né bella poiché viene praticamente divorata ancora viva da alcuni pesci fino a che uno squalo di fondale non se la porta via oramai ridotta ad un cadavere sfilacciato.
In quell’ultimo sguardo del polpo, sfinito ed esangue ma di una fierezza e di una consapevolezza sovrumane c’è tutto ciò che l’uomo dovrà imparare da lei, da ogni singola creatura vivente, pianta o animale che sia e forse persino dalle pietre: saper dir di “sì” alla vita, accettare ogni cosa per un attimo di pienezza assoluta.
Il film continua mostrandoci Foster che, con rinnovate motivazioni professionali ed umane, si ricongiunge con la famiglia portando addirittura il figlio ad immergersi con lui nella foresta di Kelp dove sarà proprio il ragazzo a trovare un minuscolo polpo, forse progenie della scomparsa protagonista della vicenda, quale nuovo genius loci.
La narrazione finisce quindi con il protagonista, rinvigorito nel corpo e nello spirito, che si fa promotore di iniziative filantropiche e divulgative sull’ambiente marino della foresta di Kelp e che lotta per garantirne la protezione ma laggiù tra quelle creature semplici e meravigliose avrà trovato Craig Foster quello che cercava veramente nella sua vita errabonda? Il film, probabilmente per esigenze commerciali, non scende a tale profondità ma chi sappia scavare un po’ più a fondo nell’animo umano, soprattutto in quello di uomini così inquieti, la domanda se la pone poiché nella risposta risiede tutta la cifra interpretativa di questa meravigliosa parabola.
Perché solo se il suo spirito inquieto che lo spinge a vagare tra le onde, sulle montagne o tra i Boscimani del Kalahari avrà imparato ad acquietarsi immergendosi nella luce immateriale degli elementi, identificandosi completamente col nuoto di un polpo o col lento dissolversi delle nuvole nella luce sfolgorante del sole, solo allora, anche soltanto per un attimo, potrà trascendere la condizione umana con le sue angustie rifluendo nel Cosmo, finalmente trasfigurato in una vertigine metafisica di sconfinata pienezza.