Milano non può che essere orgogliosa della mastodontica offerta culturale degli ultimi mesi che si ribalterà in molti festival estivi. Dall’inizio alla fine di maggio, “Presente Indicativo - per Giorgio Strehler” ha dispensato 25 spettacoli, 21 registi ed ensemble internazionali, 16 prime nazionali per un totale di 70 ore di teatro in tutte le sue sedi, celebrando così sia i 100 anni dalla nascita di Giorgio Strehler, sia i 75 dalla fondazione del Piccolo Teatro.
Tre mesi prima Fog, rassegna ormai storica delle Performing Arts, alla Triennale Teatro, dava inizio a una carrellata non meno fitta di appuntamenti, con i suoi quattro artisti associati per altrettanti anni (Romeo Castellucci, Annamaria Ajmone, Michele Di Stefano e Alessandro Sciarroni), ma certo non solo con loro.
Diverse le linee programmatiche, i linguaggi, ma forse non gli obiettivi, tutti tesi a mostrare una alterità dalla scena scontata, e pure un “altrove” da questo Vecchio Continente traumatizzato da pandemia prima e ora dalla guerra, ma forse ancora convinto di una centralità perduta?
L’arte e la cultura indicano le rotte per mantenere uno sguardo lucido e critico, sempre pronto a mettersi in discussione “restituendo al linguaggio la forza di demistificazione e la capacità di nominare il reale che autenticamente lo contraddistinguono.
(Claudio Longhi, direttore artistico del Piccolo Teatro, nella prefazione al suo lungo festival internazionale)
Nelle parole di Longhi si sente risuonare una tensione verso il teatro di parola e di regia predominante in una rassegna “perdifiato” punteggiata di incontri, convegni e proiezioni delle più celebri regie di Giorgio Strehler.
Pensiamo al riuscito Nora di Theodoros Terzopoulos. Fondatore a Delfi di Attis Theatre, con tre attori della sua compagnia, infilati entro una scenografia bidimensionale fatta di porte dalle quali fuoriescono spesso solo le mani, il regista greco restituisce il capolavoro di Ibsen (Casa di bambola) grazie a frammenti testuali e ad un’originale fisicità che lascia intuire, più che svelare i viluppi conflittuali dei tre protagonisti, e la tragica fuga da tutto, figli compresi, di Nora, decisa a non sentirsi più una “bomboletta” tra infide grinfie maschili.
Svelata e pour cause è invece la verve fisica di Nudità di e con Mimmo Cuticchio, il puparo siciliano più famoso nel mondo, (la sua Opera dei Pupi è ormai iscritta tra i Patrimoni orali e immateriali dell'umanità dell'Unesco) e il fiorentino Virgilio Sieni, coreografo in procinto di partire per la Bolivia per dare ulteriore peso alla ricerca e fama internazionale di Cango, il centro nazionale di produzione coreutica di cui è il direttore. Nudità ha un passato nella collaborazione pluriennale dei due artisti giunti a denudare un pupo, a togliergli elmo, corazza, spada, voce per raccontare le gesta di Orlando o di qualche altro eroe epico-cavalleresco. Questa sofferta perdita della sua identità ne fa comunque un nobile interlocutore: Sieni gli danza attorno, con movimenti angolari delle braccia e qualche apertura del corpo nello spazio, ma per lo più a fianco. Il confronto può essere a specchio, o contrastante: muta nell’infinita precisione dei suoi movimenti l’ormai divenuta creatura nuda, sempre guidata e mossa con i fili del puparo, ha una personalità capricciosa e dolce.
Spesso rifiuta l’avvicinamento umano, nella sua superiore distanza da ogni artificio, nel suo danzare assieme al padrone-servitore, alla ricerca di una forza di gravità che per lo più la trattiene a terra. Segue vie traverse, cammina distratta in un altrove tutto suo. Trova uno spadino di legno e vorrebbe combattere rivivendo la sua personale memoria di pupo, ma poi attacca e non ferisce. Anzi, conquista il corpo di Sieni in momenti di struggente poesia, con carezze, e gettata sul suo corpo si profonde in veri afflati amorosi. Musica addomesticata per questa comprensione e coesione tra animato e inanimato; un corpo “aperto” alla Artaud, che dà luogo all’esistenza nel suo essere.
Un corpo che vive ed è morto nella certezza di pietrificarsi. Discorso complesso, potente (viva l’imperscrutabile invulnerabilità della marionetta esaltata nel saggio del 1810 di Heinrich von Kleist!), interrotto da un secondo pupo questa volta vestito se non di spada e corazza di una sua necessaria sottoveste, e da un cunto meraviglioso di Cuticchio (quasi a voler rivendicare la sua antica tradizione) travolto dagli applausi assieme al suo compagno di ventura Sieni e dal pupo denudato.
Un ulteriore spettacolo di “Presente indicativo”, Mal- Embriaguez Divina (Male-Ebrezza Divina) di Marlene Monteiro Freitas ci ha quasi involontariamente ricordato La Pasionaria della compagnia spagnola La Veronal, diretta da Marcos Morau, invece vista a Fog in aprile. Entrambe le pièces vantano una scenografia ineccepibile e un linguaggio robotico interpretato da danzatori superlativi. Un ampio finestrone in cui compare anche una luna piena, una scala, un soggiorno con divani su cui si gettano con frenetica impulsività gli otto protagonisti spesso con occhiali biloculari medici per La Pasionaria e un perimetro di reti, apparentemente innocue in cui, al di fuori della loro cinta i nove protagonisti di Mal si dilettano nella pallavolo. Ma una volta entrati in fila sotto la guida di un caporione munito di bandiera bianca si sistemano nei banchi di un’alta tribuna, tra botti di cannone e rumori di guerra.
Alla portoghese, ma nata a Capo Verde, Monteiro Freitas, già Leone d’Argento alla Biennale Danza di Venezia 2018, riesce ciò che è mancato al pur talentuoso Morau: probabilmente alla ricerca di qualcosa, visto che continua a rimaneggiare questa sua Pasionaria (presentata al Festival di Rovereto anni fa), con quei bambolotti sbattuti dalle braccia di una danzatrice all’altra, senza sollievo né tregua nel frenetico andirivieni di tecnologici alieni ma senza un costrutto coreografico davvero empatico e coinvolgente. Per entrambi il quid è evocativo di un disagio esistenziale, che però nella Montero sfocia nell’incredibile costruzione, da parte degli intrappolati danzatori, di castelli, case, paesaggi, animali di carta bianchi come certi loro cappelli. Nel tempo di una prigionia cercata come fonte di salvezza e sicurezza dal male che investe la società, gioco e ritorno all’infanzia sono ancore di salvezza, distrazione, magia.
Deliziosi i guanti viola indossati dai coatti, il battito a ritmo delle loro mani, il borbottio incolore, sussurrato delle loro voci funge da colonna sonora. Una fantasia che trabocca e poi si perde nella distruzione totale della magnifica e variegata fabbrica di carta leggiadra come la libertà che viene fatta a pezzi, distrutta per obbedire agli ordini di un incolonnamento militare. Marlene Monteiro Freitas da 30 e lode.
Un voto inconcepibile per The Future dell’argentina Constanza Macras da tempo attiva a Berlino con la sua compagnia DorkyPark, per alcuni anni alla Schaubűhne di Berlino, accanto al regista Thomas Ostermeier (dopo l’abbandono del ruolo di direttrice della danza da parte di Sasha Waltz, altra celebre coreografa tedesca), e ora ritornata free lance ma con sostegni importanti come quello della VolksBűhne am Rosa-Luxenburg-Platz.
Grottesco e sregolato patchwork di epoche diverse, che puntano a rompere le barriere temporali, e infatti quando una cancellata viene sospinta dietro le quinte entrano in scena otto danzatori correndo dal fondale al proscenio, con cadute, riprese, sollazzi, dovuti alla musica da intrattenimento pop di Tatiana Heuman e spaventi per improvvisi spari.
La guerra è un tema costante in questo “futuro” che è fatto di passato. Personaggi con le clave, ma anche con le pistole non smorzano certo la ricerca rituale più antica che lasciava agli oracoli mitologici risposte relative al domani: ed ecco vichinghi e creature della preistoria mescolati agli astrologi tanto di moda oggi. E anche flussi di parole sul consumismo becero, il carovita e sulla prevaricazione dell’uomo sulla donna. Temi noti, velati di una retorica a cui la ribelle Macras non fa caso, come non le preme certo confezionare una vera coreografia o sfruttare due ampi bunker azzurri, inamovibili e mai utilizzati, se non per salirvi sopra. La cabina, qui antipioggia, è un classico della Macras, non c’è suo spettacolo corposo che non ne sfoderi una… ma sta per arrivare un temporale. E tra le mille voci, qualcuno lo sa come una presunta Sarah Connors, protagonista del film Terminator.
Intreccio-pasticcio, con musica dal vivo, di teorie sul futuro più o meno scientifiche e di atmosfera da musical, o anni Ottanta, The Future, nella sua convulsa, caotica e voluta “bruttezza”, e nel suo trash, suggerisce l’idea che il futuro non sarà poi così diverso dal passato. Anzi secondo le teorie di Karen Barad, una teorica femminista americana nota per la tesi sul realismo agenziale, suggerisce la possibilità che il passato non sia ancora arrivato. Aiuto!
Agli antipodi di The Future sta domani di Romeo Castellucci, che pur essendo stato commissionato per Unkwown Unknowns. An Introduction to Mysteries, ossia per la 23esima Esposizione internazionale (durata, alla Triennale, da luglio a dicembre 2022) chiude bene il programma di Fog, prima della gittata di luglio. Nel salone rettangolare, più ampio e nobile di questo Palazzo dell’arte nato nel 1923, privo di poltrone o sedie, e in questo caso anche di scenografia, entra una donna alta massiccia, dai capelli lunghi sgualciti e sporchi, come il volto e le gambe. È (finta) cieca con gli occhi impiastricciati e sorregge o forse è sorretta da un alto ramo d’albero con un rado fogliame che poggia sulle sue spalle. All’estremità del tronco c’è una scarpetta piccola, da bambino. Per tre volte la donna perimetra lo spazio fermandosi solo per reclinarsi su se stessa e piangere.
L’intensità di questa visione minimalista e di un simile assetto - Castellucci lo riporta alla dispositivo in epoca romana, cioè alla combinazione di immagini efficaci - è supportata dalla musica di Scott Gibbons, collaboratore di vecchia data della Socìetas Raffaello Sanzio di cui Castellucci è cofondatore. I suoni talvolta di natura arrivano ad essere, a tratti, terrorizzanti.
Se il nostro domani può essere il passo in avanti di un bambino, quella scarpetta povera e chi la trascina si aprono a mille diverse letture: dalla miseria di guerre infinite, dove scarpe infantili si trovano tra le macerie dei morti, alla perdita di un contatto con la natura lussureggiante, dal dolore inguaribile di chi vive in estrema indigenza, alla malattia. Una ventina di minuti che fanno male; entrano in empatia con il pubblico e per i soli ottimisti promettono una prole che da domani, nonostante tutto, cresce.