Le sue mani di pianista le presta all’idraulica, alla falegnameria, alla metallurgia. Se c’è da riparare un portone o da sostituire una cannella dell’acqua, il maestro Leonardo Brizzi provvede. Gli dolgono i muscoli, si rovina le dita perché non è abituato, ma assapora la quiete nelle campagne giottesche, dove i maialetti vagano liberi e trotterella pure un neonato ciuchino. Da quarant’anni in palcoscenico sa schivare la noia: “Ti risparmio il racconto della mia formazione”. Brizzi suona, compone, insegna. Detto con le solite semplificazioni, ovviamente. Lo incontriamo al Teatro del Sale, nel quartiere di Sant’Ambrogio, a Firenze. Ed è l’espressione del viso che suscita la prima domanda

A che cosa tieni in questo momento?

Alla serenità. Agli affetti, agli animali, ho un cane e tre gatti, con mia moglie stiamo in campagna in questa sua casa di famiglia nel Mugello, attorniati dalla natura, praticamente in mezzo a un bosco e ci dedichiamo a curare il nostro verde, anche interiore, il rapporto fra di noi.

Hai una vita molto diversa alle spalle?

Il bello di questo mestiere, soprattutto da giovani, è anche la frenesia, il viaggiare, il darsi da fare il più possibile, vivere in una forma di turbinìo. Scelto, molto bello, quando non ce l’hai ti manca. Però, a una certa età, cominci ad apprezzare quello che hai un po’ trascurato.

E dopo lo porti alla ribalta?

Io penso proprio di sì perché fa parte di una maturità, di una trasformazione inevitabile. Ci siamo ritrovati con Maria (Cassi n.d.r.), per esempio, e abbiamo ripreso il nostro sodalizio artistico. Per noi stare sul palco adesso è veramente di una semplicità… abbiamo una complicità tale, ci capiamo al volo. Ultimamente ci hanno chiamato a curare una regia a all’Accademia Mediterranea dell’attore di Lecce, dove l’anno scorso facemmo un laboratorio, che ha richiesto sedici giorni di prove. E ci siamo detti: “Noi non si fanno più queste cose. Quando s’era giovani si stava lì, ci si chiudeva nei teatri, s’andava avanti tutta la notte”. Ora c’è consapevolezza e non ne abbiamo più bisogno.

Quando fondaste il duo?

Si parla del 1985, quando ci siamo incontrati. Io all’epoca suonavo un pochino in giro. Al Galluzzo, nei primi anni Ottanta, avevano aperto il Teatro della Gloria, dal nome della fondatrice che era amante del teatro e aveva disponibilità economica, credo il marito fosse un industriale pratese. Un’ex palestra trasformata in un caffè-teatro che a Firenze prima non esisteva. Si esibiva lì Sandro Berti, futuro componente della Banda Osiris. Mi sentì suonare e mi disse che con una sua amica attrice stavano cercando un musicista per allestire insieme degli spettacoli comico-musicali. E si cominciò a lavorare, poi Sandro prese ad andare via con la Banda Osiris, ma io e la Maria continuammo e da lì il mitico spettacolo Santrotwist che è andato avanti per oltre mille repliche e con il quale abbiamo viaggiato in tutto il mondo.

Il nome Aringa e Verdurini?

Fu una follia, di quelle di gioventù (ride n.d.r.). Dopo un concerto di Gil Evans, all’allora Teatro Apollo, si andò a mangiare al circolino Arci, in una traversa di via della scala. Nel menù che c’era scritto? Aringa e verdurine. “Dai, ganzo. Perché non ci chiamiamo così? Però Verdurini invece di verdurine”. Ci si consultò con un amico attore e nacquero: il maestro Leopoldo Maria Aringa e miss Brenda Verdurini.

Dopo l’aringa si è rituffata nell’acqua e i verdurini son tornati nell’orto.

Siamo stati insieme per vent’anni poi ognuno ha preso la sua strada, anche se siamo sempre rimasti in contatto. Durante la pandemia, mia moglie Elena, che è la presidente di Artemisia (Centro fiorentino antiviolenza n.d.r.) cercava un’attrice che sapesse cantare per una campagna di raccolta fondi. Chiamai la Maria e le dissi: “Senti, ci sarebbe da fare uno spettacolo, però… domani”. “Va bene” rispose. E da lì si ricominciò! Provando clandestinamente, durante il lockdown, a porte chiuse.

Dopo lo scioglimento del duo che cosa hai fatto?

Altri lavori teatrali e, soprattutto, collaboro con Pep Bou, considerato il Michelangelo delle bolle di sapone. Negli anni Settanta è stato il primo nel mondo a lavorare con le bolle per il teatro, non per i bambini. Ci eravamo ritrovati a vari festival, siamo sempre stati molto amici e poi nel 2014-15 mi chiamò per uno spettacolo. Si debuttò a Barcellona, e da allora abbiamo continuato a fare tournée, l’ultima a dicembre scorso. In Francia, Spagna. Lui sarebbe in pensione, ma come sai per un artista è difficile.

C’è qualche Greta Garbo, ma sono più numerosi quelli che vorrebbero morire in scena?

Esattamente. Ho fatto diverse discussioni con i miei figli, entrambi musicisti, su questo punto. Soprattutto uno è un pochino più restio: è un chitarrista bravissimo, molto studioso, fa ricerca. Chitarra classica, Siena jazz, ora sta finendo Scienze politiche. È restio al fatto di suonare in pubblico, io invece penso che tu puoi creare la cosa più bella di questo mondo, ma se la tieni per te è un peccato. Puoi fare anche una scelta del genere perché ti dà, ma è un peccato, una mancata comunicazione. Io in questo momento sono appagato. Suono e, in campagna, faccio dei lavori fisici, cambio i rubinetti, aggiusto le cancellate.

Ti placa?

Sì. Mi fa bene.

Durante l’esibizione, lo spettatore molesto disturba o viene inglobato?

Noi lavoriamo con il teatro comico per cui non recitiamo un copione rigido e la famosa quarta parete non ce l’abbiamo. Quella piccola percentuale di improvvisazione, che poi è più un’attenzione a quello che ti succede intorno, fa sì che il pubblico lo senti, in bene o in male. Gli stimoli vengono presi, la Maria in questo è maestra, e la maggior parte di questi diventa un motivo per ridere: è difficile che qualcuno possa impedirti di proseguire.

Proprio non facendo finta di niente si crea complicità con il resto del pubblico e alla fine diventa un tutt’uno anche l’elemento fastidioso. Ogni tanto ci si mette un pochino di più. Mi viene in mente l’anno scorso, una signora in Puglia, che continuava a fare commenti, sai di quelle che come se fossi davanti alla televisione?

Con la musica è diverso. Il musicista puro il primo rapporto ce l’ha con lo strumento e dopo con il pubblico: è disturbato ma suona anche in situazione terrificanti.

Anche tu quando suoni, nell’ambito degli spettacoli comici, sei un musicista puro.

Maria e io facciamo singolarmente qualcosa che è fatto bene. Ora non vorrei sembrare… ma abbiamo studiato per questo. La comicità è una faccenda seria, va studiata in maniera rigorosa e se vuoi fare la comicità con la musica e il canto devi saper suonare bene e cantare bene, padroneggiare il pezzo in maniera perfetta, dopodiché ti puoi permettere di uscire fuori e fare quello che vuoi, ma alla base deve esserci la dimestichezza.

Progetti all’orizzonte?

Con Maria siamo appena stati a New York, dove si sono lamentati che avessimo una sola data, con uno spettacolo nuovo che ora andrà a Milano. Vorremmo riprendere il giro all’estero che faceva parte della nostra storia.

Quali sono le piazze più vostre?

Ai tempi di Aringa e Verdurini, nella nostra sede avevamo una cartina, all’inizio solo d’Italia poi del mondo, dove mettevano le bandierine. Le zone nostre: la Toscana va da sé. Tantissimo il Trentino. In Italia siamo stati ovunque: conosciamo quasi tutti gli autogrill.

Questo sì che è importante.

Fondamentale! Una volta siamo andati a mangiare in autogrill dopo lo spettacolo perché il resto era tutto chiuso. E sai non si può andare a dormire subito, con tutta l’adrenalina addosso da smorzare. Quando sei in tournée sei occupato tutto il giorno e sei sempre in tensione: c’è da viaggiare, arrivare, montare, fare le prove. L’unico momento della giornata per rilassarsi fino all’ indomani è a sipario chiuso.

Si divertono tutti uguali?

Ci sono delle zone dove il pubblico ci mette un po’ di più sia in Italia che all’estero. Quando andammo in scena in Giappone, a Kyoto, dopo un anno e mezzo di scambio di fax, a vederci c’era anche un monaco. Il momento nel quale scoprimmo che ridevano alle battute che ci aspettavamo, fu un’emozione grandissima. Significa che puoi veramente comunicare al di là del linguaggio e arrivi a colpire l’emotività senza barriere. Con la musica, il canto, la mimica, la comunicazione di Maria.

Ma tu ti diverti con lei?

Io mi diverto da morire. Noi ci divertiamo. Anche ripetendo infinitamente le stesse cose. Che poi non sono mai le stesse. I tormentoni li gestiamo, insomma, ma ci fanno sempre ridere. Se uno non si diverte più è un problema, è come quando suoni: se non ti piace più quello che suoni si capisce subito. Se il pubblico comincia a “sentire la sedia” è un dramma. La sedia è un problemone!

Bisogna scordarsene, della sedia, stare sospesi o sprofondati.

Te lo deve far scordare chi sta in scena.

Il Teatro del sale?

Fa proprio casa, soprattutto per Maria che l’ha costruito insieme con suo marito Fabio Picchi. Certe cose succedono qua e non da un’altra parte. Perché i meccanismi sono più familiari, il pubblico reagisce in modo diverso. È un posto molto avvolgente, per noi una grande palestra e gli spettacoli nuovi quasi sempre li proviamo qui. Poi, proprio per la tipologia del luogo, non è trasportabile, lo spettatore, al Teatro del sale, a partire dalla cena, è colpito in tutti i sensi. Negli altri teatri trovi dinamiche completamente diverse.

Torniamo a Pep Bou, il Michelangelo delle bolle di sapone.

È un poeta che lavora sull’effimero. Una bolla non sai mai quanto dura e, comunque, a un certo punto scoppierà. Non abbiamo nessuna certezza. Lui costruisce tutta una serie di cose, tra l’altro complicatissime, e il montaggio di un suo spettacolo dura ore. A seconda di come metti una luce cambia la rifrazione. Pep realizza immagini che non sono sono bolle, fa delle pareti, ci si specchia, interviene dentro con delle geometrie. Durante la pandemia, nel Museo della scienza di Barcellona, ha riprodotto il sistema solare in una bolla immensa, con i pianeti che giravano.

Da imbambolarsi.

Impressionante. Vengono anche i bambini, ma sono gli adulti che riconquistano lo stupore, l’immaginazione. Lui compie queste magie senza una parola e io faccio la colonna sonora delle bolle. Suono tantissimo, non ho dei tempi, la maggior parte dei pezzi li scrivo io, però non hanno una durata precisa perché sappiamo che, se una bolla scoppia, Pep ricomincia. E se la bolla ri-scoppia, Pep ricomincia: è capace di ricominciare fino a questo cinque volte e il pubblico ci sta, talmente avvinto. È buffo dipende dal clima. Più alto è il tasso di umidità e più le bolle resistono. Pep fa spegnere il riscaldamento, controlla le correnti, si porta umidificatori che sparano vapore acqueo. L’artista che lavora con le mani, toccando i materiali è diverso da noi. Noi abbiamo lo strumento, la scena e, nel caso di Maria, l’allenamento di postura, ma la costruzione dello spettacolo è su noi stessi.

Ed ecco il collegamento con l’attività pratica che ti appassiona in campagna?

Secondo me sì. Il mio stare sul palco è molto mentale e io, a questo punto della vita, ho bisogno di una comparazione fisica. Tanto pensiero, ma ci vuole anche la terra. Con questa valenza è una scoperta della maturità, ma il contatto con la sostanza l’ho sempre avuto perché vengo da una generazione di teatranti che doveva sapere tutto. Guidavo furgoni, ho montato impianti audio, luci. Se c’è necessità vado a fare qualsiasi cosa. Io sono buono solo a suonare il pianoforte? Non è vero. Parlavo con qualche docente che mi diceva che in questi ultimi anni escono dai conservatori musicisti super specializzati, virtuosi all’ennesima potenza. Vuoti. Ondate di tecnicismo ti fanno sentire cose incredibili, tranne…

Tranne l’emozione?

Che non sarebbe un dettaglio.