La mattina seguente, dopo una ricca colazione, mi faccio portare al porto di Manado per imbarcarmi sul piccolo traghetto che va all’isola di Bunaken.
Il taxi, sgangherato e polveroso, mi molla all’entrata del porto e il tassista, con un grugnito e un cenno della mano mi indica la direzione verso cui incamminarmi per arrivare all’imbarcadero delle “public boat”.
In mezzo ad un caos indescrivibile di uomini, donne e bambini cenciosi, tra montagne di merci della più svariata e pittoresca varietà e, sotto un sole spietato, attraverso una specie di mercato improvvisato (dopo aver rischiato di inciampare su galline spelacchiate o cani incredibilmente addormentati in mezzo a quel carnaio) arrivo al porto canale ed inizio a cercare la biglietteria o qualcosa che le somigliasse.
Non trovando nulla cerco un essere senziente su due gambe che non sembrasse la comparsa di un B-movie sui pirati della Malesia, per chiedere informazioni.
Individuato un ometto occhialuto che trascinando un trolley camminava nella mia stessa direzione, provo a chiedere lumi.
Ora si potrebbe pensare che la semplice parola “Bunaken” non possa essere pronunciata in un modo molto diverso da come la si scrive, per cui chiedo con aria interrogativa cercando di scandire bene i fonemi: “Public boat to Bunaken?”.
L’azzimato personaggio mi fissa attonito: “Banaken? ... What Banaken? Io provo a farmi capire cercando di pronunciare il semplice lemma storpiandolo in ogni modo possibile ma lui non sembra comprendere fino a quando, con un sorriso raggiante di gengive sdentate: “Ahh! yes! Pulau B’gnakn boat!” E grida: “Here”, puntando un indice ossuto verso la fine del pontile che funge da molo.
Lo ammetto, per quanto avessi storpiato la parola, a B’gnakn non ero riuscito ad arrivare; quindi, ringrazio cortesemente reprimendo a fatica una risata e mi incammino nella direzione indicatami.
Dopo un po’, continuando a non vedere niente che somigliasse a una biglietteria, mi avvicino a un gruppo di persone che sta per salire su un piccolo battello ma questa volta non mi faccio cogliere impreparato e grido biascicando con sicurezza al barcaiolo: “ B’gnakn?”.
Seguì un altro sorriso sdentato con chiaro cenno affermativo, seppi allora di aver trovato l’imbarco giusto.
Conoscendo bene il tipo di imbarcazione e soprattutto la tipologia di passeggeri che stavano per salire, mi accomodai sulla tettoia per stare alla aria aperta a godermi il breve viaggio. Al contempo di lì potevo osservare la straordinaria, variopinta, picaresca umanità che popola, o almeno popolava, le contrade dell’Asia con le sue ceste di vimini contenenti ogni sorta di animale, con le donne senza età che trasportano fardelli apparentemente sovrumani con bambini pazienti che osservano il mondo con occhi spalancati mentre le madri li trascinano sulla passerella e altri, poco più grandi, si tuffano allegramente nelle luride acque del canale.
Scatto qualche foto ma senza convinzione. Non perché non fossero soggetti interessanti, tutt’altro. Ma la verità è che non sono mai stato bravo a fotografare le persone, non mi riesce bene. Forse sono troppo timido e invece ci vuole una certa sfrontatezza per fotografare la gente, si deve avere un animo filantropico, un sincero trasporto verso quella folla umana che io non ho. Forse presumo che sentano la mia misantropia e allora arrossisco e poso la Nikon, mi accontento di guardarli salire, sedersi o accovacciarsi sulle proprie gambe in una postura che io non potrei reggere per più di dieci minuti e che invece loro devono trovare comodissima perché stanno così rannicchiati per ore.
Finalmente, oramai si era fatto mezzogiorno, il battello parte, si fa strada tra ogni sorta di piccola imbarcazione: canoe, rudimentali catamarani di bambù e altri improbabili natanti poi esce dal fangoso canale per consegnarsi al mare aperto.
Subito scorgo il profilo inconfondibile dell’isola di Manado Tua col suo perfetto cono vulcanico davanti al quale si stende la meta finale del mio viaggio.
L’acqua si fa via via più chiara, da marrone vira verso un azzurro opalescente e lattiginoso per poi, finalmente, diventare di un profondo blu cobalto, sotto il sole a picco i cui raggi penetrano lo specchio del mare come dita indagatrici.
Presto un gruppo di delfini si affianca e comincia a giocare con la prua della barca, saltano gioiosamente di fianco ai masconi e ogni tanto guardano in su per vedere meglio quel grosso compagno di gioco così rumoroso e così lento.
Generato dal movimento del naviglio, un lieve vento mi rinfresca, con i suoi profumi di strani fiori e di legni aromatici, e tutto attorno è magica bellezza.
Cosa altro potevo desiderare? Ero un giovane avventuriero nel fiore degli anni, seduto sul ponte di una nave che faceva rotta verso un’isola sconosciuta, con il cuore in una mano e la Nikon nell’altra mentre un fiume di felicità mi scorreva in petto.
E che isola mi aspettava! I giardini di corallo di Bunaken e Siladen erano considerati tra le più belle barriere coralline esistenti, set preferito di uno dei più famosi fotografi subacquei dell’epoca: David Doubilet che aveva immortalato, in diversi articoli e libri fotografici, le incredibili luci e la straordinaria biodiversità di quei fondali.
Perché mi trovavo in effetti nel centro esatto del Triangolo dei Coralli, un area delimitata ad Ovest dalla Malesia, a Nord dalle Filippine e a Est dalla Papua Nuova Guinea e dalle Isole Salomone dove una magica combinazione di correnti ricche di nutrienti, acque calde e luce tropicale ha consentito il proliferare di miriadi di creature affascinanti e misteriose: più di 500 specie di coralli, 3000 specie di pesci noti e forse altrettante ancora da classificare, una innumerevole varietà di invertebrati: nudibranchi, le lumache senza chiocciola dai colori più incredibili, echinodermi come ricci di mare ofiure e stelle marine dalle fogge più strabilianti e infine un numero sterminato di specie di conchiglie, una delle mie più grandi passioni, e questo paradiso era davanti a me, a poche miglia di mare, pronto ad accogliermi per svelare a me, solo a me, i suoi meravigliosi segreti.