Il gusto sopraffino per lo story-telling con il quale la storica dell’arte Gloria Fossi, affronta ogni lavoro letterario, è il cuore stesso della sua formidabile narrazione.
I volumi da lei curati sono adatti a qualsiasi curiosità in campo artistico. Si può viaggiare con l’autrice, pagina dopo pagina, o decidere di seguirne le tracce di persona.
Nell’ultimo volume ha, infatti, lasciato confluire trent’anni di viaggi di scoperte senza lesinare nelle descrizioni di capolavori o opere meno conosciute, alla ricerca di quegli elementi che li rendono unici e irripetibili.
Il piglio diaristico non svela mai completamente i misteri che si trova a fronteggiare e lascia intatta la magia di un’opera che facilmente passa da un’epoca ad un’altra e riesce a far dialogare l’Espressionismo ed il Rinascimento, Munch e la Parigi di Modigliani, Agatha Christie e Disney.
L’intervista concessaci è essa stessa da leggersi come un ennesimo, avvincente capitolo.
Hai dedicato volumi di rara bellezza agli Uffizi, al nudo nell’arte, a Van Gogh, solo per citarne alcuni. Opere a metà strada tra il saggio d’arte e l’esperienza di viaggio. Come sei giunta alla catalogazione di ‘oggetti misteriosi’?
Ho operato una selezione partendo dalla Preistoria fino ai nostri tempi, e ho scelto una quarantina di oggetti misteriosi, una minima parte fra dipinti e sculture che compongono il mio “museo” ideale. Alcuni sono capolavori famosi, osservati però da angolazioni in apparenza insospettabili. Altri sono “oggetti” in cerca di autore, o meglio, il cui autore forse non sapremo mai. È il caso di tre stupefacenti, minuscole statuette, che paragono a Modigliani, a una scultura del Benin e perfino ai fumetti giapponesi, per far capire quanto le origini della pratica artistica siano remote e al contempo attuali. Hanno fra i quarantamila e i venticinquemila anni. Chi le ha scolpite? Mi piacerebbe fosse una donna. E non è escluso, si stanno facendo molti progressi nella conoscenza dell’arte preistorica al femminile, anche se alcuni enigmi restano irrisolti.
C’è poi Ebih-il, una statua in alabastro gessoso. Al Louvre ho fotografato i suoi occhi magnetici, le pupille blu lapislazzuli, che adesso ci guardano dalla copertina del libro. Può narrarci tante cose: innanzitutto il nome, inciso su una spalla. Fu rinvenuta nel secolo scorso in Mesopotamia. Duemilaquattrocento anni fa stava con le mani in preghiera nel tempio di Mari. Poi rimase sepolta, per due millenni. Viene da lontano, da una terra meravigliosa distrutta dai recenti conflitti. Ogni volta che vado al Louvre quello è il mio oggetto misterioso, lontano dalla Gioconda o dalla Nike di Samotracia, icone inflazionate. Con quel suo strano sorriso, Ebih-il non ha mai smesso di pregare. Oltre a ricostruirne la storia, mi soffermo sui nostri tempi: la guerra, l’odio che ha dilaniato il Vicino Oriente e ha distrutto resti di civiltà remote, che erano sopravvissute a tutto, non alla stupidità umana. Quando parlo di arte, la mia materia di studio, non escludo riflessioni su temi più estesi, comunque sempre collegati.
Il mio petit monde de camarades, come direbbe Gauguin, lo amo talmente da averne ricercato le tracce anche dall’altra parte del mondo, in Polinesia, nel Nord-Africa, nelle isole del Mediterraneo e dei Caraibi e un po’ in tutta Europa. Dunque, il libro offre una stringatissima selezione, derivata dalla frequentazione dei luoghi dell’arte, in tutti i continenti, talvolta alla ricerca di uno spunto, dal quale ne sono scaturiti altri, a catena, che si sono intrecciati per vie naturali con letteratura, musica, fotografia, cinema, cartoni animati. Curo una rubrica su Art e Dossier che parla di oggetti misteriosi, sono solo quattro pagine bimestrali, ma il favore che ha incontrato mi ha spinto a scrivere un libro più articolato, con altri temi, altre storie, oppure le stesse ma analizzate da altri punti di vista. Un argomento non si esaurisce in poche pagine.
Immagino non sia stato facile arrivare alle opzioni da includere, come ti sei mossa nella scelta?
Mi sono posta la domanda: interessa più un cardellino in un dipinto del Seicento, o due bizzarri amici di Picasso che nel 1901 a Barcellona vanno in tandem col sigaro in bocca? Agatha Christie archeologa o un dipinto di Cézanne? Ogni argomento ha la sua ragione per stare in queste pagine, sono i miei compagni di viaggio, come dicevo, ma ne ho dovuti escludere tanti. Una considerazione: può accadere che ciò che ci colpisce oggi, lo abbiamo ignorato in passato. La vita è fatta di situazioni in perenne mutazione. Ci ho pensato spesso mentre scrivevo il libro. Difficile, anche per questo, restringere il campo a pochi “oggetti”. Poi, via via, ho cominciato a sentirmi libera di scrivere come piace a me, senza domandarmi se ad altri sarebbe piaciuto. Qualche disparità forse si avverte fra le prime pagine e le ultime, più sciolte, mi pare. Queste passioni, questi miei travelling companions, stavolta per dirla con Henry James, scrittore amatissimo che ricorre spesso in queste pagine, hanno contribuito a rendermi serena, non dico felice perché credo nell’invidia degli dei e nella nemesi. Sono frutto di amicizie, amori, incontri fortuiti, discussioni, coincidenze, aperture che in passato mai avrei immaginato. Digressioni, come mi ha suggerito un collega. Carambole, come le ho chiamate: muovi un tassello e in successione se ne smuovono altri. Ogni tanto mi capita di tornare a vecchie passioni, a ripercorrere indagini giovanili con nuovi strumenti e una diversa disposizione interiore. Oggi non temo neppure i cambiamenti nei luoghi visitati anni addietro. Comunque, anche quando li trovo immutati, di rado provo le sensazioni di una volta. Cambiano gli stimoli, gli interessi, la conoscenza. Allora ricomincio da capo, indago da nuove angolazioni per poi, magari, giungere a conclusioni analoghe, ma arricchite di nuovi dati.
Pensi che l’aver lavorato al fianco di Federico Zeri, all’inizio della tua carriera, influenzi ancora oggi il tuo metodo di ricerca?
Per qualche tempo con Zeri ho avuto una consuetudine quotidiana. Mi aveva chiamato a collaborare alla redazione del catalogo della Fondazione Longhi, dov’ero stata borsista. Devo alla grande studiosa Mina Gregori se fui scelta fra i pretendenti al trono. Mi parve davvero un trono quello sul quale mi trovai seduta, di fronte a lui, alla medesima scrivania, con una vecchia Olivetti sulle ginocchia. Se non fossi stata così giovane mi sarei intimorita, ma avevo l’incoscienza dell’età. A casa sua sono tornata diverse volte a studiare, e vi ho conosciuto studiosi d’immensa levatura ma anche bizzarri personaggi, perfino una medium. Lo racconto a proposito della Primavera di Botticelli. Quando i domestici erano in vacanza cucinavamo insieme, e insieme andavamo al mercato. Da lui ho imparato il metodo, forse più di quanto non avessi appreso all’università. Ogni volta che scrivo, penso al suo metodo.
Come spesso ripenso al primo incontro con Umberto Eco, nella campagna romagnola, quando fui sua ospite per le vacanze natalizie insieme a un amico comune. Qualcuno mi aveva detto: “Fai la scema, non potresti competere neppure se fossi meno giovane”. Invece nacque un bel sodalizio. Erano i tempi dei primi computer, Eco stava scrivendo Il pendolo di Foucault e gli regalai un programma di astrofisica all’avanguardia. Gli servì per calcolare la posizione degli astri a Parigi a una certa data. Mi disse: “Ti devo un favore”. Non gli ho mai chiesto niente, il più grande favore è stata l’amicizia. Mi parlava di opere d’arte in un modo al quale non avevo mai pensato. Negli anni ci siamo incontrati a qualche evento a Firenze, a casa sua a Milano, alla Fiera del libro a Francoforte, ci siamo scritti o sentiti per telefono. Ho conosciuto suo figlio Stefano quando viveva a New York, ho apprezzato la gentilezza della moglie Renate. La sua scomparsa è stata un grande dolore, non sapevo che stava male. È la prima volta che racconto queste storie, ed è per la domanda che mi hai posto.
Vorrei anche ricordare Roberto Salvini, un secondo padre, che mi ha avvicinato al Medioevo, e il grande medievalista Jacques Le Goff, con cui, assieme ad altri due amici, Franco Cardini e Claudio Strinati, ho curato la Storia dei Giubilei. E il mio editore, Sergio Giunti, per cui ho pubblicato tanti libri. Ma anche Franco Maria Ricci, che mi ha insegnato come immaginare un’opera d’arte sulla pagina stampata. Da lui ho tratto la cura maniacale delle fotografie che pubblico. Ecco, questa è una parte del mio background. Queste grandi persone non mi hanno fatto mai sentire inferiore a loro, mi hanno incoraggiato a studiare, e con loro ho avuto scambi di opinioni che non ho mai dimenticato. A casa di Zeri leggevamo Dante e Procopio di Cesarea. Si parlava di storia e di gatti. Con Eco giocavamo a Trivial Pursuit con i nomi dei filosofi medievali. Per me Eco era un mito. Non tanto per Il Nome della Rosa, ma per gli scritti più giovanili sull’estetica medievale, che mi erano serviti per la tesi di laurea. Una volta l’ho battuto. La mattina dopo, sarcastico e divertito, mi ha regalato tre pagine di anagrammi con gustose chiose sul mio nome. Era così, con i suoi amici amava scherzare. Una volta mi disse: “Ragazza, non vorrai mica guadagnarti da vivere scrivendo? Siamo in pochi a potercelo permettere”.
I tuoi libri hanno il passo di romanzi avvincenti. Come sei riuscita, in questo caso, a creare una trama così lineare, passando da Stonehenge a Munch, da Disney a Giotto, all’Espressionismo?
Tra le righe di questo libro si avverte forse la mia tendenza ad estendere la ricerca a campi non sempre indagati da storici dell’arte: può sembrare una divagazione sterile ripensare un tema attraverso letteratura, musica, botanica, perfino astrofisica, ma poi tutto torna e si riallaccia. Nonostante abbia trascorso la mia vita a studiare, ho sempre avuto la tendenza a scrivere in modo poco accademico. Trovo snobistico comunicare in modo criptico per una cerchia ristretta. Questo non significa che a monte dei miei scritti non ci siano anni di ricerche rigorose. Ogni tanto Zeri mi scriveva che certi miei articoli sui quotidiani avrei dovuto pubblicarli su riviste scientifiche. Per me vale ancora di più l’inverso, quando un articolo di una rivista accademica può risultare comprensibile anche a chi non è specialista. Non si deve confondere uno studioso che scrive bene con chi fa divulgazione di pessimo livello, intendo quei molti che sul web, ma anche nei libri, purtroppo s’improvvisano conoscitori d’arte. Ammiro studiosi come Chiara Frugoni o Franco Cardini, con una formidabile carriera accademica alle spalle, che non si vergognano di comunicare a tutti.
Personalmente parto sempre dai libri, dai miei studi. Poi parto, davvero, in viaggio. Ho speso ogni risparmio in libri e viaggi. Amo molto anche le biblioteche, da quelle famose e immense, come la Nazionale di Parigi o la British Library di Londra, ma anche quelle minuscole che ho frequentato in ogni angolo del globo. Tre mi restano nel cuore: la Carnegie, ospitata in un edificio coloniale a Curepipe, nell’Ile Maurice (Mauritius, Oceano Indiano), la National Nelson Library di Apia (Western Samoa) e la Cook Library di Rarotonga, alle isole Cook. Difficile dire quando ho iniziato a occuparmi di un certo artista, di una certa opera. La trama che nell’oggetto misterioso appare lineare in realtà si è formata via via, dopo aver messo in ordine, come in un database, decine di argomenti affrontati in tempi diversi. Gli intrecci fra l’uno e l’altro sono di varia natura, spesso quasi invisibili, talvolta scaturiscono da ricordi personali.
Ti faccio un esempio: a più riprese parlo nel libro dell’uso del porfido: Giotto, Masaccio, Leonardo dipingevano finti porfidi. Pochi ne parlano. Mentre scrivevo mi sono ricordata delle fotografie scattate un paio d’anni fa a Istanbul, nell’ex basilica di Santa Sofia, dove il porfido, quello vero, incastonato in colonne e pavimenti, segnala il prestigio imperiale. Allora, studiando le origini di questo materiale prezioso, mi è venuto in mente il viaggio in Egitto con un amico. Percorremmo con un pulmino il deserto alle spalle del Mar Rosso, dove si trova l’unica montagna da cui si cavava il porfido nell’antichità. Nel libro l’ho chiamato magico porfido. C’è una ragione personale. Invece di portarmi al mare come avrei voluto, l’amico geniale e amatissimo mi trascinò nel deserto. Gliene resto grata. Sono ricordi di vita vissuta che s’intrecciano ai miei studi. Da quelli, giungo a paragonare un disco di porfido rosso antico del V secolo nel pavimento di Istanbul con quello, pressoché identico, dipinto dal Pollaiolo a metà Quattrocento. Digressioni, carambole.
È d’obbligo, ancora una volta, porti una domanda finale sui tuoi progetti futuri. Quali sorprese ci attendono?
Un mistero… Scherzo, ho in mente il seguito di questo libro, più narrativo, dove l’arte s’intreccia ancor di più a frammenti di vita vissuta, incontri e “disvelamenti”. Ma ho almeno altre due idee nel cassetto, e quelle per ora restano top secret. Spero di avere il tempo di scrivere con più calma. Mi piace limare il linguaggio. Se potessi riscriverei da capo anche l’Oggetto misterioso.