Un soldato bendato e sanguinante che, ciononostante, affronta il nemico ben dritto sulle proprie gambe: se sapessi disegnare e volessi ritrarre Mario Sironi, questo è quello che dipingerei.
Sironi fu un uomo che ebbe un pessimo rapporto con se stesso.
Visse, infatti, tutta la propria vita in conflitto, forse con la stessa propria anima; ma, ad accompagnarlo in ogni battaglia ebbe una potente alleata: la sua forza di volontà ostinata e basata - esclusivamente e sempre - sul suo rapporto con l’Arte, che egli amava incondizionatamente e a ogni costo.
Se dovessi individuare quale delle sue opere lo rappresenta di più, mi troverei in grave difficoltà: Sironi non ha avuto un filone artistico di vera appartenenza, e guardare le sue opere è come sfogliare un diario scritto in cerchi concentrici, in cui ogni pagina racconta la medesima battaglia, ma da una prospettiva sempre leggermente diversa.
Per lo stesso motivo, non troverei rispondente alla realtà pensare ai suoi passaggi, da divisionista a futurista a quasi surrealista a neoclassicismo degli anni Venti del Novecento, come a tappe di un'evoluzione.
È la parola "evoluzione", infatti, che non si adatta a Sironi: per lui non c'è mai un "prima" e un "dopo", perché tutto è sempre "qui e ora", oppure in un "c'era una volta" assolto dal tempo. Il “qui e ora” è quel che emerge immediatamente dai suoi autoritratti.
Numerosi, soprattutto nella prima decade del Novecento, gli autoritratti di Sironi sono caratterizzati da un “guardare in macchina” diretto, senza sconti: Sironi si specchia e, nello stesso momento, impone a chi lo osserva un contatto visivo e, soprattutto, mentale.
Non è uno sguardo che chiede pietà né che si arrende. È uno sguardo che sfida, che ha fegato, come quello di un pugile prima di salire sul ring: non sa se avrà la meglio. Ma sa che è deciso ad affrontare lo scontro. Tanta intensità, tanta caparbietà, non può che avere ricadute sulla “socializzazione” del suo proprietario. Si dice che Sironi sia un artista difficile da amare quanto impossibile da ignorare.
Certo, l’uomo fu di carattere ombroso e tutt'altro che accattivante.
Ma Sironi l'artista è impossibile da non amare, perché dentro la sua opera c’è, nuda e cruda, la condizione umana: l’inquietudine di chi è consapevole della difficoltà del tempo in cui vive, ma continua a combattere per lasciare un segno, per immaginare un significato anche nell’incertezza del futuro e probabilmente anche del presente.
Una sfida che Sironi affronta sorretto, quasi fino alla fine della sua carriera – ossia: della sua vita - dalla convinzione di avere una missione per conto dell’Arte: analizzare, descrivere e provare a immaginare il futuro del proprio tempo, anche quando quel futuro appare cupo e senza speranza.
Il Sironi che si avvicina alla pittura metafisica, il Sironi drammatico dei Paesaggi Urbani e quello dei personaggi e delle strutture monumentali, dà forma plastica a quella missione. E così anche il Sironi futurista, che del Futurismo condivide le cromie, i tagli geometrici e perfino la passione per i cavalli. Ma il suo Cavallo Sellato, del 1917, non guarda chi lo sta osservando, né si imbizzarrisce, né galoppa: tutto il dinamismo dell’animale è in quel suo guardare fuori del perimetro della tela, nel pensiero che precede il movimento fisico, e corre incontro alla sfida di quel che sta accadendo.
È la stessa espressione del volto del Costruttore, un Sironi decisamente monumentale del 1937, e la stessa che ritroviamo in Testa Futurista, molto probabilmente un altro autoritratto, del 1913.
Ed è così anche nei Paesaggi Urbani – dipinti da Sironi tra il 20 e il 30: l’essere umano è sempre presente, anche quando a rappresentarlo ci sono “solo” le sue case, o i suoi mezzi di trasporto. A volte invisibile, l’essere umano è ciononostante lì, e osserva, scruta il proprio tempo, come volesse prendergli le misure per poterlo affrontare.
In quella periferia, forse milanese – ma funzionerebbe ovunque – non dominano il caos né, tantomeno, l’euforia. Siamo di fronte a un “luogo urbano” che diventa universale proprio per la sua apparente anonimità, e ci ritroviamo immersi in un’assenza che parla di isolamento, di solitudine, e, soprattutto, della fatica di trovare un senso che vada oltre il presente.
Il 13 agosto del 1961 Mario Sironi muore, a seguito di complicazioni di una broncopolmonite. Sul suo cavalletto viene trovato un dipinto che diventerà noto come “Ultimo quadro”: dalla frase che Sironi stesso scrisse, a mano, nel telaio.
Presentimento, o troppa stanchezza, fisica, anche se aveva solo 76 anni, e soprattutto dell’anima? Spesso si legge che a quel punto, separato dalla moglie, dopo il suicidio della figlia Rossana diciottenne, amici che si potevano contare sulle dita di una mano anche a causa dell’embargo culturale causato, dopo la guerra, dal suo impegno fascista e con la Repubblica di Salò, Mario Sironi si sarebbe arreso. Invece, proprio in quell’ultimo suo quadro, la domanda di senso insiste, si fa più lucida: se c’è un’ombra di tristezza, è solo un velo.
La solitudine si materializza quasi tangibile, in una città deserta perché popolata da figure senza volto che si incontrano senza interagire, e che sembrano quasi appartenenti a specie diverse; mentre in alto, raggomitolata, una figura femminile sembra volersi nascondere dietro le proprie braccia, appoggiandosi a una pietra sepolcrale.
Empatia con la disperazione che portò la giovane alla scelta di togliersi la vita? Speranza di un incontro in un altrove sconosciuto, magari proprio con la sua Rossana? Impossibile a sapersi. Ma, sicuramente, ancora una volta, la solo apparentemente distaccata analisi dello scenario, e la disperata volontà di non arrendersi all’idea che tutto questo non abbia alcuna finalità, né altra via di uscita, oltre alla morte.