L'arte, da sempre considerata mezzo di comunicazione ma non abbastanza efficace a far veicolare messaggi importanti. La guerra, per esempio.

Nei secoli, grandi artisti ci hanno raccontato degli orrori della guerra ma, ad oggi, sembra che all'uomo non sia arrivato per nulla questo messaggio, che non gliene importi nulla.

Artisti che ci hanno mostrato, attraverso le loro opere, le urla, la distruzione, l'ingiustizia e la cattiveria dell'uomo in guerra ma nulla, tutto rimane semplicemente "appeso", in bella mostra, all'interno di prestigiosi musei.

“La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico", diceva Pablo Picasso.

Lui, che ha dipinto il capolavoro di Guernica, esposto, in tutta la sua imponenza, nel museo de El Reina Sofía, a Madrid, visitato da milioni di persone, ogni anno, non riesce ad imporre il suo messaggio. Una tela di 349,3 x 776,6 cm, realizzata in totale assenza di colore, scandita dalla drammaticità del bianco e del nero, accentuata dal cromatismo dei neri e dei grigi.

Le grida di Guernica contro le devastanti atrocità dei conflitti dell’uomo hanno viaggiato nel tempo, fino ai nostri giorni ma non è servito a nulla. La cronaca ci continua a riportare notizie di guerre, così attuali, agghiaccianti, ricorrenti che ormai appartengono alla normalità del nostro tessuto sociale.

Ma Pablo Picasso non è l'unico ad aver partecipato alla "denuncia artistica" della guerra. Altri grandi artisti del passato lo hanno fatto. Il 3 maggio 1808, dipinto da Francisco Goya nel 1814. Un'opera che può essere ammirata, in tutta la sua grandezza, al Museo El Prado, sempre a Madrid.

Anche in questo caso, abbiamo una tela di dimensioni davvero prepotenti: 2,68 m x 3,47 m. La tela ci racconta un episodio, in particolare: la fucilazione dei rivoltosi spagnoli per ordine di Napoleone Bonaparte. La drammaticità di questo quadro, ciò che lo caratterizza, rendendolo unico nel suo genere è la prospettiva da cui ci viene presentata la scena. Dalla parte dei giustiziati. Possiamo contemplare la disperazione, la rassegnazione, la resa sui volti dei condannati a morte. Possiamo ben vedere i lori visi sfigurati dalla paura, mentre intravediamo i fucili puntati verso di loro, che spuntano dalle figure di spalla che rappresentano il plotone d'esecuzione. Proprio così, dei soldati non vediamo i volti, non possiamo carpirne le loro emozioni nell'atto di eseguire un ordine così crudele.

Anche in questo caso, abbiamo un'opera che si contraddistingue per una gamma cromatica molto ristretta. Se Picasso ha fatto un abuso di bianco, nero e grigio, Goya ha utilizzato una palette di colori, declinata sui toni dell'ocra, del marrone, del verde scuro. Un unico bagliore, un netto fascio di luce, come un riflettore puntato sulla figura centrale, con le braccia alzate, in un ultimo tentativo di resa che invocano pietà.

Ma questa non è l'unica opera di Goya in cui viene denunciata l'ingiustizia della guerra. Di questo straordinario artista possiamo ammirare altre opere, per lo più incisioni che rappresentato altri aspetti della guerra (in questo caso parliamo della Guerra d'Indipendenza Spagnola): gli stupri, i massacri di massa, le impiccagioni.

E poi ancora, qualcosa di più contemporaneo. Non proprio il racconto di un episodio di guerra. C'è chi è andato oltre e ha preteso di raffigurare il volto mostruoso della guerra. Solo un visionario surrealista come Salvador Dalì poteva farlo. Un'opera del 1940 che si colloca giusto tra la fine della guerra civile spagnola e l'inizio della Seconda guerra mondiale. Dalì ha voluto sbattere in faccia, al mondo, la mostruosità della guerra raffigurandone, a suo modo, il volto spettrale. Le cavità di occhi e bocca, svuotati dei tratti umani e riempiti con altrettanti teschi, svuotati a loro volta. Perché di umano, nella guerra, c'è il nulla, quel senso di vuoto che lascia, dietro di sé, l'obiettivo della distruzione, della mortificazione del genere umano. L'unico tratto di espressione, che cozza con tutto il resto, è la fronte corrugata del volto che sembra esprimere paura, forse si intravede un velo di tristezza e di dispiacere.

Ma abbiamo ancora denunce, da parte degli artisti. In un'altalena temporale possiamo ancora trovare testimonianze di cruda e atroce realtà bellica. Ritornare indietro, al 1840, per poter contemplare l'opera di Delacroix La libertà che guida il popolo. Un olio su tela, conservato al Louvre di Parigi, che ci presenta una figura femminile, fiera e centrale nell'opera, che impersona la Francia che anima il popolo contro l'oppressione.

E ancora, tornando più indietro, tra il 1637 e il 1638, Rubens dipinse Le Conseguenze della guerra, conservata a Firenze, a Palazzo Pitti.

E per tornare ai giorni nostri, Bansky, Haring, Beuys e senza dimenticare l'opera di Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato.

Ognuno a suo modo ha raccontato e denunciato la guerra. Ognuno ha usato la propria arte per comunicare l'orrore e l'insofferenza, la distruzione e il fallimento umano ogni volta che si è aperto un conflitto. Ma tutto questo è stato inutile. Lo scoppio di nuovi focolai rivoltosi appartiene alla nostra quotidianità, quasi normale. Perché la storia insegna ma l'uomo non impara, continua a mostrare il suo egoismo e la sua ottusità nei confronti del genere umano.