Il 9 marzo 2020 l’Italia intera con il fiato sospeso era davanti al televisore, il premier Giuseppe Conte aveva appena firmato il decreto #iorestoacasa e in videoconferenza a reti unificate annunciava: “Non ci sarà più una zona rossa, non ci saranno più zona uno e zona due, ma un’Italia zona protetta. Saranno da evitare gli spostamenti salvo tre ragioni: comprovate questioni di lavoro, casi di necessità e motivi di salute”.
Subito dopo l’annuncio del premier ci fu il panico: supermercati presi d’assalto nel timore che finissero gli approvvigionamenti; caccia ai prodotti per la pulizia e l’igiene scomparsi in poche ore dagli scaffali dei negozi; caccia alle mascherine, ai guanti ed ai gel igienizzanti praticamente introvabili e venduti a peso d’oro. Qualche ora dopo quell’annuncio, l’Italia entrava in lockdown per contenere la pandemia di Covid-19.
Le città e le strade si svuotarono di colpo. La gente rimase chiusa nelle proprie case potendo uscire solo “per esigenze lavorative, motivi di salute e necessità” da autocertificare in un documento da esibire alle forze di polizia. Fuori un silenzio spettrale interrotto solo dal suono delle sirene delle ambulanze e dei mezzi delle forze dell’ordine. Delle prime settimane del lockdown ricorderemo sicuramente l’isolamento, le lunghe chiamate per sentire vicini parenti e amici, ma soprattutto alcune immagini particolarmente forti e violente come il corteo di camion dell’esercito con il carico di bare lungo le strade di Bergamo o quella di Papa Francesco solo, sotto la pioggia in una Piazza San Pietro vuota mentre si rivolgeva a Dio chiedendogli di non lasciarci in balia della tempesta.
Abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo una realtà impensabile fino a poco tempo fa. Siamo stati sempre più coinvolti in comunità virtuali rese possibili dai social network che sembravano veicolare la nostra esistenza verso l’ambito virtual-tecnologico. E così nei primi tempi della pandemia ci siamo adoperati per colmare un certo gap tecnologico inventandoci una nuova quotidianità: distanziamento fisico, didattica a distanza, smart working, videoconferenze, ecc. I vantaggi sul controllo della pandemia non sono mancati ma man mano che passavano i giorni, i mesi ci siamo resi conto dell’importanza delle relazioni sociali in quanto elemento essenziale della nostra vita di “animali sociali” che non può essere sostituito dai mezzi di comunicazione digitale. In altre parole, la pandemia obbligandoci a stare lontani ci ha fatto capire quanto abbiamo bisogno gli uni degli altri. Mai come al tempo del lockdown le città senza uomini hanno scoperto un volto umano. “Andrà tutto bene”, si leggeva sui balconi dove al tramonto gli italiani si ritrovavano per lanciare un messaggio musicale di speranza.
Nel silenzio di quei giorni tutti abbiamo scoperto qualcosa di dimenticato o al quale non avevamo dato particolare attenzione. È questo è capitato anche ad Antonio Riello che il 21 Gennaio inaugura una mostra nella Galleria Danielle Arnaud di Londra portando in mostra alcune delle opere create proprio nel periodo di lockdown.
C’è la serie Confined Tools, una serie di disegni a biro che “esplorano” la dimensione domestica.
I disegni Confined Tools che Riello ha realizzato nel lockdown sono una forma di reportage molto personale e tormentata di una cucina. In questi tempi strani l'artista ha iniziato una produzione ossessiva di un catalogo dei suoi utensili da cucina e del cibo: solo umili schizzi, che insieme potrebbero essere considerati l’equivalente di un dizionario visivo del lockdown, una sorta di enciclopedia tardo moderna; una classificazione tassonomica di ogni creatura “vivente” nell'ambiente domestico dell'artista. Riello si è trasformato in un esploratore in stile settecentesco che riscopre i suoi spazi familiari come se questi fossero incontaminate isole esotiche sconosciute. L'obiettivo è quello di allestire un museo antropologico di ergonomia culinaria e crudeltà domestica.
Come afferma l’artista, oltre alla dimensione domestica questa serie esplora anche un abito ambientale più complesso. Per esempio, in Post-it:
I grandi trofei del safari borghese ed aristocratico (tipici delle magioni e dei palazzi/castelli importanti) si trasformano in moniti angosciosi di un'età ansiogena e liquida. Alcuni di questi disegni sono stati realizzati in un eremo con la collaborazione di un amico artista, Gabriele Bonato, che nell'eremo vive una vita monastica.
Accanto a questa serie in mostra ci sarà anche un’altra serie molto particolare realizzata da Riello. Si tratta di Ashes to Ashes, dove l'artista brucia cerimonialmente alcuni dei suoi libri amati e influenti, riducendoli in ceneri illeggibili. Le ceneri di ogni libro vengono poi riposte in apposite urne progettate dall’artista seguendo la tradizione medievale di conservazione delle reliquie medievali dei santi.
Ogni urna (in vetro borosilicato) è opportunamente stampata con il nome del libro e autore, anno di prima pubblicazione e anno di distruzione: una biblioteca virtuale, un cimitero di libri, un devoto omaggio, una rispettosa celebrazione funebre dei libri stampati e delle biblioteche.
Cosa resterà di questo periodo così strano? Una mostra quella di Antonio Riello ricca di spunti ed emozioni come la sua pratica artistica ci ha abituati da anni.