Quella sera mi affacciai alla finestra: dalla soffitta mansardata in cui mi trovavo, riuscivo a scorgere benissimo le luci e gli addobbi natalizi nel giardino della villa dei vicini. Un cerbiatto argentato, una cascata di lucine dorate che avvolgevano in mille vortici caleidoscopici l’abete frondoso e una miriade di stelline luccicanti delimitanti il perimetro delle finestre, erano la visuale più magicamente natalizia che la mia camera potesse offrirmi. E la neve! La neve che aveva incanutito i tetti rigogliosamente rossi un tempo, e le splendide aiuole viridi in primavera, non potevano che lasciarmi addosso un respiro di purissimo e glaciale rinnovamento: come una rinascita per lo spirito. Con il cuore scodinzolante addobbato a festa, sentivo finalmente scorrere la linfa vitale della letizia; ero sinceramente felice di essere tornato a casa. In quella che, un tempo, chiamavo casa.
Erano passati quasi vent’anni da quando avevo lasciato la villa dei miei genitori, per dirigermi verso altri più promettenti lidi, giurandomi ˗ che Dio mi perdoni quest’espressione disonorevole ˗ che non vi avrei mai più fatto ritorno, se non unicamente nel miracoloso momento in cui ne fossi stato davvero lieto, di una gioia profonda e veritiera. Avevo persino rivoluzionato totalmente la mia vita pur di liberarla dall’onta di dolore che in quel posto mi aveva incatenato: sapevo che solo la fuga e la dimenticanza avrebbero potuto salvarmi da quel luogo, e da quello che esso aveva rappresentato per me. Così fu. Diventai sacerdote e me ne andai a vivere lontano, in una cittadina di montagna a Nord del Paese: essendomi spogliato dei miei beni e dei miei vizi, preferii la morte simbolica per il mondo e per le cose terrene ˗ questo il vero significato della talare nera ˗ alla putrefazione dell’anima. Per quanto possibile.
Tornando a quella sera del 5 dicembre, quella in cui mi crogiolavo nella scanzonata e puerile attività di osservare inebetito tutte le più belle decorazioni dei vicini ˗ la mia preferita in questo periodo dell’anno ˗ è bene ricordare che le mie, sicuramente degne di menzione, ma non di certo le migliori tra tutte, mi erano state deliziosamente donate dal mio carissimo fratello gemello, Nick. Riguardo al nostro altalenante rapporto di amore e odio e di rivale complicità, non starò qui a raccontarne i dettagli: del complementare, del duale, del maschile e del femminile, del Bene e del Male è composto il mondo. Ero assorto nei meandri dei miei pensieri più cupi quando, all’improvviso, bussò alla porta della mia stanza la governante, un’anziana e dolce vecchietta dalla voce tremula: “Signor Teufel, è ora. La sfilata dei Krampus deve cominciare fra poco”. Ridestato dal torpore delle mie riflessioni solitarie, ringraziai gentilmente la donna e la invitai a congedarsi: mi diressi verso l’armadio dove ripescai il mio logoro costume, fatto di pelliccia e cenci scuri, una maschera lignea con alte corna arcuate, denti aguzzi e una rossa lingua adunca, e cominciai la vestizione. Ovviamente la mia identità era ben tutelata, dal momento che la tradizione vietava severamente a chiunque di scoprire il volto dei figuranti: e poi, cosa avrebbero pensato i miei cari fedeli se avessero saputo che il loro parroco, una volta a casa, avrebbe indossato i blasfemi panni di un arcano demone pagano riemerso dagli abissi della terra per rapire e mangiare bambini discoli mentre accompagnava fedelmente il suo padrone e doppio, San Nikolaus?
Eh, eh! Non c’è abbastanza tempo per l’ironia tragica: è ora di andare! Una volta pronto scesi al piano di sotto, riempii un bicchiere di grappa che bevvi d’un sorso per proteggermi dal freddo, e uscii di casa. L’aria gelida e secca mi penetrava fin sotto alla maschera e la sentivo tagliarmi la faccia; non si può nascondere la propria fragile natura alla Natura stessa: Lei sa sempre chi sei, e ti viene a cercare, ovunque tu cerchi di infrattarti, anche in capo al mondo, anche nei meandri più putridi e bui. Lei torna sempre a prenderti.
Percorsi le innumerevoli viuzze di campagna che mi separavano dal centro del paese e di corsa arrivai in piazza: l’antico borgo risplendeva di luce nuova, calda e intermittente; le decorazioni festose si mescolavano ai colori della folla, e le canzoni natalizie ai cori gaudenti e ai rumori di campanacci. Non avevamo ancora cominciato la sfilata che scorsi tra l’ammasso di gente un vegliardo canuto di rosso vestito: era mio fratello! Sgomitando tra gli altri figuranti vestiti da Krampus mi avvicinai a lui: erano anni che immaginavo quel momento! Non lo vedevo da quando fuggii, e ora che si trovava ad un passo da me avvertivo un sussulto straniante nel petto, di quelli che ti smorzano il fiato e ti fanno tremare le mani e i sensi. “Fratello, sono tornato”, sussurrai. Si girò di scatto e sgranando gli occhi cerulei mi fissò per un istante, incredulo: “Sangue mio, sapevo che ti avrei rivisto. Non sei cambiato di un giorno!”. Avevo sempre odiato la sua ironia inopportuna, così fatua e infantile! Battendomi una pacca sulla spalla prima, e strappandomi un forzuto abbraccio poi, mi intimò subito di mettermi in fila, perché la parata stava per cominciare. Ci posizionammo uno accanto all’altro, seguiti e preceduti da un corteo di figuranti con i loro mostruosi grotteschi costumi, mentre una cantilena assordante di campanacci e corna di mucca accozzati rozzamente strideva lungo le vie; così partimmo.
-Come facevi ad essere così sicuro che sarei tornato, Nick?
-Non ne ho mai dubitato: non possiamo sfuggire a noi stessi.
-Proprio per allontanarmi da me stesso sono fuggito. Ero arrabbiato con me, il solo responsabile di quel dolore. Mutando vita ho cambiato me stesso. E ora sono tornato, migliore.
Abbozzò un sorriso preoccupato; non un sorriso gioioso, ma uno di circostanza, uno di quelli finti, aspri, tipici di chi ne sa di più, di chi è già oltre. Allora incalzai: “Non ci credi, vero?”.
-Come potrei crederti? Ti conosco troppo bene, fratello. Ma ti amo lo stesso, anche se non lo meriteresti affatto; perché sei parte di me e di questa esistenza e, come tale, ti accetto.
-Per favore! E levati questa espressione compassionevole e ridicola dal volto!
-Calmati. Non vorrai farti riconoscere?! - sussurrò deciso.
-Ovviamente no. Ma non sopporto, nemmeno dopo vent’anni, questo tuo modo impertinente di parlare, e questa tua noiosissima aria di superiorità!
Sorrise di nuovo: “Va bene, allora. Me la levo questa espressione, come dici tu, di superiorità! I fatti non cambiano, però. Da quando hai fatto quella… quella cosa… com’è cambiata la tua vita? Raccontami”.
-Oh, adesso ti fingi anche interessato? - risi di scherno - è stato orribile. All’inizio non lo accetti, cerchi di negarlo anche a te stesso… poi ti ci abitui… fino a che non arrivi ad odiarti così profondamente da ripugnare persino la tua immagine riflessa nello specchio. Quando la soglia dell’angoscia aveva superato l’indicibile, scelsi di scappare da qui; come se fuggire da un luogo avesse potuto allontanarmi da me stesso! Comunque, io convivo ugualmente con quella parte orrenda di me, ma ora so che c’è anche dell’altro, di meglio. Sono diventato sacerdote, sai? Ovviamente non credo che potrò mai raggiungere le tue vette, vescovo.
A questo punto Nick mi fulminò con lo sguardo: “Come hai potuto? Come hai osato insozzare l’abito talare, il sacro abito!”.
-Ah, ah! Calma, fratellino, calma! Ti ho già detto di essere cambiato… - sghignazzai divertito sottovoce.
-Oh, non cercare di prendermi in giro! So che non lo sei affatto! Sei solo il solito essere… - si interruppe paonazzo.
-Avanti, dillo… - risposi risoluto - dillo come mi chiamate voi, voi uomini pii. E scoppiai in una risata fragorosa e irriverente.
Nick chiuse gli occhi esasperato: “Non potrei definirti in un modo soltanto! E non solo perché sei conosciuto dal mondo con una miriade di nomi, ma soprattutto perché avrei un’infinità di epiteti con cui appellarti!”.
-Ah, ah, ah! Sei diventato proprio un cattivone irascibile! Non è affatto da te, mi sorprendi!
-Piantala con questi tuoi giochetti ignobili! Se stai cercando di farmi innervosire, non ci riuscirai. Ti conosco benissimo. E per questo non ho creduto nemmeno per un istante alla storiella della redenzione. Sarai riuscito ad ingannare milioni di persone con le tue rinomate arti, ma non me. Rivelati per quello che davvero sei.
-Ti prego, non ricominciare con la tua adorata formuletta micaelica! Rivelarmi?! Scherzi? La cosa più bella che possa accadermi è riuscire a nascondermi agli occhi della gente, farle credere che io non esista affatto!
-Lo so benissimo! Proprio per questo ti sto ordinando di rivelare il tuo nome. Ora - sentenziò incorruttibile.
Ebbi un fremito. Proprio quando stavo cominciando a divertirmi, quell’idiota di mio fratello mi imponeva di rivelarmi! Che noia, questi santi moralisti! Credono di avere il mondo in una mano, ma non sanno che, invece, sono io ad averlo! “Non lo farò. Non voglio”, tuonai. -Eh giusto, te ne vergogni. Essere immondo! Vent’anni fa hai assassinato i nostri genitori, semini mali e discordia ovunque passi. Sei il principe della menzogna e dello scherno malefico. Vivi nell’anfratto più infimo di questo universo, e attacchi i più deboli instillandoti lentamente nella loro carne come un morbo putrescente, un parassita da estirpare. Sei l’invidia personificata e il disprezzo di tutto ciò che è più puro, più caritatevole e più libero di te. Oh, la Libertà! Questa è la cosa che ti manca di più, spregevole ratto infossato nella cavità più miseranda. E ti diverti a dividere i cuori, scardinare le certezze, schernire il più debole, squadernare le mancanze altrui! E non c’è un solo essere a te caro sulla Terra, né nel Cielo, né negli abissi più oscuri: la solitudine dell’anima, il freddo dell’infamia, marchio dell’onta di cui ti macchiasti, la ribellione insensata e la gloria lucente perduta, sono i tuoi eterni castighi che ti logorano. Dimmi, quanto brucia continuare ad esistere nella morte dannata?
Queste parole mi entrarono nella carne come spilli roventi: che rabbia! Rabbia! Rabbia! Strabordante rabbia di fuoco! Mi percorse immediata le altezze in un unico interminabile incontenibile rivolo di sangue che giunse alle tempie fino, quasi, a farmele scoppiare! Non riuscii a contenermi ed implosi, e poi esplosi, roboante, tuonante, infuocato, adirato, dilaniato, in un urlo disumano e immondo! Come me, sì! Sì! Mi strappai di dosso con foga quei ridicoli costumi che distrussi in mille pezzi davanti all’ansimante folla attonita e tremante. Tutto si fermò al mio cospetto: i campanacci placarono il moto, le luci si fulminarono impazzite, i tetti circostanti vennero divelti come foglie al vento, le musiche e i canti cessarono, e la paura, regina indiscussa dei miei più dolci piaceri, si elevò, fluttuante e invisibile, sulle teste di ogni insulso passante. Tutto era in mano mia!
Con un balzo ferino dei miei zoccoli enormi, mi innalzai sulle folle di umani e montagne innevate; ma prima di partirmi, urlai a San Nikolaus: “L’Amore e la Bellezza più puri esistono solo perché ci sono io a completarle e a contrastarle! Non ci sarebbe luce senza oscurità!”.
Sparii tra la nebbia imperlata della sera, nauseato e indignato, con uno stridore inumano e logorante.
Con il senno di poi, miei cari, vi confesso una cosa: non avrei resistito un istante in più perché, se fossi rimasto ancora, probabilmente mi sarei annoiato a morte tra quei tizi rigonfi di spirito natalizio! Nemmeno un bambino cattivo, un consigliere fraudolento, un lussurioso… solo gentaglia! Per non parlare, poi, di quell’imbecille di mio fratello! Non sanno proprio scherzare questi umani, una volta santificati!
Ad ogni modo, che mi abbiate riconosciuto o no, cari lettori, una cosa sola importa: che mai più dubitiate della mia esistenza! Io sono reale. Come il riflesso nello specchio.