Accade spesso, visitando luoghi abbandonati, di imbattersi in qualcuno che quei luoghi ha vissuto. Solitamente nascono delle belle chiaccherate, dense di aneddoti e di storie piene di nostalgia, di ricordi. Diverso quando le persone che incontri hanno vissuto gran parte della loro vita all’interno di un manicomio.
Da quando ho iniziato ad interessarmi agli abbandoni, ormai dieci anni fa, ho sempre voluto visitare il complesso manicomiale di Racconigi in Piemonte. A differenza di tante altre strutture simili, infatti, ha mantenuto al suo interno suppellettili, archivi, macchinari, tanto da far rivivere in maniera netta ed estremamente potente la vita consumata dagli internati.
L’imponente struttura, costruita nel centro di Racconigi, ruota intorno ad un corpo centrale, il padiglione “Chiarugi” a cui negli anni sono stati affiancati tanti altri padiglioni e annessi.
L’edificio nasce alla fine del XVIII secolo sulla scia di un editto del 1717 dove Vittorio Amedeo II di Savoia stabiliva la costruzione, da parte della comunità, di una serie di Ospizi di Carità per togliere dalla strada i tanti “mentecatti” dell’epoca. Perde però velocemente lo scopo per cui fu costruito diventando un collegio militare.
Nel frattempo, a Torino, viene fondato “l’Ospedale dei poverelli”, unico esempio in tutto il Piemonte di ricovero per i meno fortunati. Ricovero che arriva ben presto al collasso.
La svolta arriva nel 1865 quando, con una legge provinciale ad hoc, la spesa per il mantenimento di queste persone passa a carico delle province stesse. Si inizia subito a parlare della costruzione di un manicomio provinciale e, nel 1868, la scelta ricade su Racconigi per la sua posizione centrale nel territorio e sul suo ex Collegio militare. I lavori di ristrutturazione partono velocemente tanto che, nel 1871, fanno il loro ingresso nel manicomio appena ultimato i primi due degenti. Come sempre in quegli anni, i manicomi raccoglievano le umanità più disparate, tutti potevano avere un buon motivo per finire lì dentro dagli indigenti ai vecchi dementi, dagli orfani agli psicotici pericolosi. Questo fece nascere la necessità di ampliare gli spazi, nel 1880 erano già più di 400 i pazienti fino ad arrivare a quasi 800 alla vigilia del primo conflitto mondiale (da qui il detto “fai lo scemo per non andare alla guerra”).
Iniziano i lavori per ampliare la struttura con nuovi padiglioni ma l’entrata in guerra dell’Italia ridimensiona i fondi a disposizione e di conseguenza l’intervento.
Solo uno degli otto padiglioni previsti viene ultimato e, per far fronte alla sovrappopolazione del manicomio, viene stipulata una convenzione con l’ospedale Cottolengo di Cuneo per il soggiorno dei dementi cronici.
Sotto la direzione del dott. Oscar Giacchi, rimasto in carica dal 1880 al 1907, prende forma un reparto di neurochirurgia all’interno del nosocomio. Giacchi era convinto che la malattia mentale derivasse da una sproporzione tra il volume del cervello e del cranio, per questo eseguiva interventi chirurgici sperimentali.
In epoca più moderna quella stessa sala chirurgica veniva usata per praticare ai pazienti la tanto vituperata lobotomia.
Dobbiamo aspettare la fine della Seconda guerra mondiale perché Racconigi raggiunga l’aspetto attuale con la costruzione di altri cinque padiglioni e otto nuovi reparti. I degenti aumentano sempre di più, arriviamo a circa 1500 pazienti, 500 addetti sanitari e tante altre figure che facevano camminare questa macchina complessa e quasi auto sufficiente. Si avvia un progetto per l’ergoterapia, la terapia del lavoro tanto cara a Luigi Scabia, direttore del manicomio di Volterra per più di un trentennio. Come a Volterra nasce una colonia agricola, un panificio e vari laboratori artigiani dove i pazienti potevano mettere a frutto le loro conoscenze. Il manicomio viene chiamato in maniera spregiativa la fabbrica delle idee per la sua funzione non produttiva e per la “qualità” dei pensieri degli internati.
Sappiamo così poco di quei pensieri, di come la vita scorreva all’interno di questi luoghi, lontano dagli occhi, e molte volte del cuore, delle persone ritenute dalla società “normali”.
Nella mia visita ho avuto modo di conoscere Mario, uno che il manicomio se lo è vissuto davvero e da sano. Mario aveva cinque anni quando ha varcato le porte di Racconigi per mano alla mamma malata psichiatrica. Siamo nel primo dopoguerra, la casa dai matti sarà la sua unica casa fino alla chiusura. La stabilità psicologica del mio interlocutore vacilla ma la sua memoria è lucida e precisa, tanti sono gli aneddoti e i momenti di vita vissuta. Non racconterò cosa ci siamo detti in quell’ora insieme, posso dire solo che le lacrime scendono anche ora che ne sto scrivendo, un orrore che si rinnova sempre quando ci penso. Immaginate solo un bambino costretto a vivere e a crescere in un ambiente del genere, i soprusi, le violenze, le angherie.
Anche per questo, per non perdere la memoria di quello che è stata la vita dentro ai manicomi, mi auspico che queste strutture non vadano perse, che tornino a diventare spazi vivi, celebranti la vita delle tante donne e uomini che hanno avuto la sfortuna di passare da questi luoghi.