Quando ci si imbatte in uno spettacolo di danza come Chapter 3/The Brutal Journey of the Heart (Capitolo 3/Il brutale viaggio del cuore), la parola scritta ma anche pronunciata, è in affanno. Il talento coreografico dell’israeliana Sharon Eyal (nata a Gerusalemme nel 1971) - con Gai Behar, il suo co-creatore, Ori Lichtik, il musicista e sei, straordinari, danzatori - tracima al tal punto da annichilire.
Lode a “TorinoDanza 2021”, ad Anna Cremonini, sua direttrice artistica, per aver inaugurato l’edizione del festival al termine il 29 ottobre, con l’ultima parte, (ma sarà poi l’ultima?), di un progetto, già ammirato, nel 2018, nelle sue due precedenti tappe: OCD Love e Love Chapter 2. Ora, nell’ancor più lodevole The Brutal Journay of the Heart, l’intricato impulso inarrestabile di sentimenti contrastanti, o semplicemente del cuore, suo organo propulsore, sembra destinato ad accrescere il successo internazionale di una compagnia che, tra l’altro, si chiama L-E-V (in ebraico, appunto, cuore) e sembra ancora una volta consonante con "Dance Me to the End of Love", il titolo scelto dalla Cremonini, per le edizioni del suo festival.
Fondato da Eyal/Behar nel 2013, il gruppo vanta sette produzioni e 150 performance richieste dai maggiori teatri e centri coreutici; accumula premi, tra cui l’ambito “Fedora Van Cleef & Arpel Prize for Ballet” (2017), quest’anno assegnato ai belgi Peeping Tom, altro formidabile ensemble di cui qui ci occupiamo. Non solo: per merito di Maria Grazia Chiuri, la sua costumista, ha stretto una liaison con la Christian Dior Couture, di cui la Chiuri è stilista e direttrice creativa. Qualche volta la prima donna alla testa della Maison Dior si è riservata l’onore di portare in passerella la stessa Eyal che nel frattempo - almeno dopo essere stata la pupilla della Batsheva Dance Company di Ohad Naharin con cui si è formata, assumendo incarichi di direttore associato e in seguito di coreografa residente - ha mutato l’appeal del suo bel viso. Rossetto che sborda dalle labbra, occhi imbrattati di cenere scomposta, quasi avesse preso una gragnola di pugni. Ma questi sono dettagli fashion. In specie quando sentendola parlare ci dice di non saper definire il suo lavoro.
Nascondere e non svelare è l’essenza di un atto creativo che una volta posto sulla scena teatrale sa di essere autonomo dal suo autore. In The Brutal Journay of the Heart, il gruppo dei sette interpreti si presenta in bodies interi disegnati a mano con un pennello intinto di grigio. Una preziosa, elegantissima, varietà di fiori, oggetti, forme originali è spruzzata di rosso, con estrema cautela, in specie sul cuore della ballerina che dapprima inarcando le braccia e poi profondendosi in un ampio cambré, dà l’avvio alla pièce. Dentro quello spazio vuoto, dalle singole luci a pioggia color ruggine e poi azzurrine e poi scure e rosse, è come se lei e i suoi compagni, che fanno gruppo, vi fossero sempre stati.
Il senso del mondo è fuori del mondo, direbbe lo scomparso, e compianto filosofo Jean-Luc Nancy, ed è proprio nell’essere fuori da tutto, senza un luogo, che si rende possibile l’avere un luogo: “lo spaziamento delle forme, lo scarto dei corpi”. Ossia la riconoscibilità di un quid del tutto umanistico, e persino spirituale, in cui i corpi qui sembrano per lo più incollati, anche se formano cerchi, a gambe piegate e allargate. Seguendo il ritmo techno, le urla, l’afflato tribale e ancestrale di un mix riuscito e clubbing (Lose yourself, and let’s the music take control), i danzatori esplodono in gesti ampi e microscopici, con allegria e furore, erotismo, rabbia e gioia cangianti sui visi sempre molto espressivi.
Nel pigia pigia del gruppo c’è chi si tocca le orecchie, chi il petto, chi cerca angoli da formare con le braccia, chi ancheggia seguendo d’improvviso una sonorità del flamenco, mentre una coppia staccandosi regala un lift e un passo a due breve e intimo, di squisita confezione. Amore di coppia e profonda solitudine, invece, in quell’asciutto fisico maschile che alla fine resta solo, immerso nei suoi gesti arrabbiati, nei suoi slanci cattivi, quasi avesse compreso che l’eccessiva prossimità agli altri minaccerebbe di folgorarli tutti in una nuova scintilla di desiderio.
Inchinarsi è poco davanti alla bravura di un gruppo che non si concede la minima sbavatura; certo hanno imparato dal metodo “gaga”, inventato da Naharin, quella loro flessuosità, ma l’input coreografico non ha più nulla a che vedere con il gran maestro della Batsheva. Lo stile Eyal/Behar è altra cosa assieme alla sua Weltanschauung così profonda e speciale da ferirci al... cuore.
Altra, ben riconoscibile, è la poetica dei Peeping Tom di Gabriela Carrizo e Franck Chartier, gli autori di Triptych, una pièce divisa in tre parti, che slitterà al reggiano Festival “Aperto 2021” il 6 e 7 novembre, preceduta da La visita (4-7 novembre), a firma della sola Carrizo, un’istallazione site specific che dà continuità all’indovinato connubio, nato nel 2009, tra la Collezione Maramotti, Max Mara e i Teatri di Reggio Emilia, e rilancia l’idea di un centro d’arte visiva che, come nelle maggiori capitali del mondo, si confronta con la messinscena di corpi, e con l’arte della performance. Nella sua completa versione spettacolare, La visita ha vinto per il 2021 quell’ambito “Fedora Van Cleef & Arpel Prize for Ballet” cui abbiamo accennato. L’argentina Carrizo e il francese Chartier, coppia dal 1995, durante la comune formazione con Alain Platel, il guru dei Ballets C. de la B. e professionale dal 2000, non sempre lavorano insieme. Le differenze si notano eccome, come in Vader (2014 del solo Chartier); Moeder (2016 della Carrizo) e infine Kind (2019, a quattro mani), la folgorante trilogia dedicata alla famiglia, pure passata per “TorinoDanza” nel 2019, dopo il debutto, nell’anno di nascita, di Moeder al Festival “Aperto”.
In estrema sintesi si potrebbe dire che se Chartier ama maggiormente l’utilizzo della parola e il piacere di delineare figure a tutto tondo, e ben riconoscibili; Carrizo predilige la danza, il movimento, l’acrobazia, lo slow-motion ma la loro ricerca è comune: converge sempre nella creazione di universi spiazzanti, paesaggi umani instabili che sconfiggono la logica di causa-effetto e spazio-tempo mentre trionfa un iperrealismo trasfigurato ed onirico.
Triptych è la compatta rielaborazione, questa volta a quattro mani, di tre distinti e brevi lavori (The Missing Door, The Lost Room, The Hidden Floor), creati tra il 2013 e il 2017, per e con il Nederlands Dans Theatre 1. Due fils rouges li accorpano. Il primo è un set cinematografico, collocato oltre il proscenio delle Fonderie Limone di Moncalieri, prestate a “TorinoDanza” nei giorni del festival. Si filma, con operatori-comparse, il susseguirsi di stati di precarietà e concitazione in cui si riconoscono gli otto eccezionali interpreti per lo più dai costumi che indossano. Gli ambienti invece cambiano e sono pieni di oggetti. Il loro mutare a vista è parte della performance (secondo fil rouge). Così dalla stanza di passaggio di La porta mancante, con mille aperture in legno che restano chiuse nonostante vengano forzate, oppure sbattono con gran fragore, si passa a La stanza perduta, una sorta di camera da letto o cabina di una nave dove le porte sono in realtà solo armadi o rifugi umani. Infine, si approda al Pavimento nascosto. Sorta di ristorante, viene di lì a poco distrutto da temporale, acqua vera, e fuoco virtuale in lontananza, racchiuso in una vetrata che allarga a dismisura i piccoli vetri dai quali, in specie nelle tappe precedenti, c’è sempre qualcuno che spia.
Il mistero circola in molte pièce dei Peeping Tom (il termine significa “guardone”) e qui combatte tra luci ironiche e ombre macabre. I corpi vestiti di tutto punto o discinti si allontanano e si ricercano; le coppie si sfaldano e si ritrovano (ah quel piedino distorto da una lady in gonna e camicetta, bistrattata ma sempre rincorsa dal suo partner!); due amanti persi nel loro sbandierato erotismo a fior di pelle, sembrano curarsi solo di se stessi. Due figure solitarie - una cameriera e una giovane discinta - seguono il mix musicale a più autori che passa da ticchettii a rumori, da sonorità wagneriane, a risate e urla, salvo trovarsi, la giovane, dopo un ballo vorticoso, con un neonato in braccio. Non lo avvistiamo più, quel pupo, nel caos finale della distruzione in cui tutti i corpi nudi o quasi si rotolano a terra, scivolano, si imbrattano e si caricano di un’energia di sopravvivenza.
Con quei piccoli tocchi ludici, come il transatlantico - giocattolo che si avvista nel Pavimento nascosto, forse per alludere al mare, Triptych, finisce “male”. Lo preannuncia il sangue sulla camicia di un protagonista morto e poi vivo; la verticalità iniziale dei corpi che si spappola a terra nel secondo quadro, resta in equilibrio nel terzo e poi cede alle forze dirompenti e pericolose della natura. Tuttavia, la narrazione non ha fine perché non ha vero inizio; i tre contesti di Triptych, pur con i loro tre diversi mood, cedono allo spettatore la chance di decrittare e fantasticare su ciò a cui assiste, ammirando la maestria e l’intensità degli interpreti. Nel suo insieme il gruppo belga supera i generi della scena, grazie alla disponibilità ad accoglierne tutti i mezzi espressivi, inclusa la parola di una danzatrice spaesata che ripete “non so cosa fare” e “non faccio mai a sufficienza”. Il loro iperrealismo è una forma di innamoramento per la scena, gli oggetti, e i dettagli sempre sottratti alla consuetudine del quotidiano, che sfuggono all’effetto realistico per secolarizzare il mondo e così re-incantarlo.