L’imperatore Adriano, che regnò dal 117 al 138 d.C., fu uno dei più affascinanti e carismatici della storia di Roma: riuscì ad essere tutto e mai completamente ogni cosa; a cimentarsi in attività di ogni genere; a mettersi di continuo alla prova, poliedrico e multiforme. Fu esperto militare, oculato amministratore, principe assoluto, appassionato letterato, pensatore greco, scrittore latino, raffinato cultore della lingua delle origini, dell’arcaismo enniano, e, in fine, amante di ogni forma d’arte e “curiositatum omnium explorator”1. Dal punto di vista politico, la sua Renovatio Imperii fu generata dal sogno, in parte realizzato, di unificare il mondo mediterraneo e i paesi vicini in una grande società pacifica, un’ecumene regolata sotto la legge del panellenismo e governata con la certezza del diritto. Proprio in questo fu un ottimo innovatore: il philellenos, così chiamato per il suo forte interesse per la cultura ellenistica, riuscì perfettamente a coniugare il mondo romano con quello greco, proprio nel momento storico in cui l’Impero di Roma aveva compreso di essere la più grande potenza economico-politica mondiale, animata dall’idea di attuare la sua missione morale imperialistico-civilizzatrice sul resto dei territori conosciuti. Fu in questo periodo che Roma, dopo aver inglobato la Grecia tra le sue province, iniziò a considerarla in maniera più obiettiva, riconoscendone la vasta eredità culturale perfettamente complementare alla sua, e andando così a costituire il fondamento di tutto il nostro pensiero occidentale.
Quello che, però, la maggior parte dei lettori ricorda su Adriano, è il ritratto che di lui ci ha regalato Marguerite Yourcenar, donna di grande spessore culturale, morale e psicologico, indipendente e rivoluzionaria nella vita e nelle opere, scrittrice poliedrica, poliglotta, innovatrice e portatrice di una sfrenata passione per il mondo classico. Nella sua opera del 1951, Memorie di Adriano, questo personaggio appare ben diverso da quello che gli storici hanno delineato: quello della Yourcenar è un Adriano saggio, pacato, credente in quella simpatìa lucreziano-epicurea tra uomo e natura e nella casualità più totale degli eventi dell’esistenza, nemico degli adulatori e dell’ostentazione, innamorato del cibo e dell’arte greca, ma appassionato di romanitas, della dedizione accurata al negotium, devoto all’amore nella sua forma più totale, e alla bellezza, in tutte le sue fattezze. Alcuni studiosi ripudiano questa versione yourcenariana, perché troppo romanzata e fantasiosa, sebbene basata su fonti storiche come l’Historia Augusta e Cassio Dione. L’autrice ha, infatti, ripercorso la vita di Adriano attingendo in parte da un’opera e in parte dall’altra, proponendo ora una versione e ora l’altra sulle varie vicende che interessarono quest’uomo, immaginando di fargli esporre un racconto accorato, un epitaffio inciso su carta stampata o, più propriamente, un’epistola nostalgica indirizzata al suo protetto, l’allora diciassettenne Marco Aurelio.
Si tratta, dunque, di un romanzo che, come tale, non ha l’obbligo di sottostare alla necessità di ispirarsi al vero o ad un’analisi eccessivamente meticolosa delle fonti storiche; in esso è solo racchiusa l’idea che la Yourcenar si era creata di Adriano. La storia, la letteratura e l’arte greche e romane non avevano segreti per questa autrice che, partendo dallo loro rievocazione, ha saputo creare nei suoi lavori il suo mondo letterario, vicinissimo a quello antico ma profumato di una fragranza originale e personale: costellato di personaggi antichi, conservato nella ruvidezza incisa di un’epigrafe greca o nascosto nel segreto di un Sileno, esso sapeva ugualmente, e sorprendentemente, parlarci di tutto il genere umano, quello antico, ma soprattutto quello moderno; perché i tormenti e le esperienze di Adriano erano le stesse di ogni essere umano, e attraverso la sua storia Marguerite ha saputo raccontare la storia di ogni uomo, e di ogni donna, spogliando l’imperatore della sua solennità di porpora per lasciarlo nudo e impotente agli occhi del lettore, identico a chiunque altro perché posto davanti all’incombenza della morte, spinto dal suo ultimo desiderio di confessione e anelante di immortalità e riscatto.
Quello che, però, la storia ci ha restituito è un’immagine di Adriano ben diversa: dalle fonti antiche appare un personaggio vario e ricco di sfaccettature, molto spesso contraddittorio. Soprattutto le fonti letterarie, si sa, peccano di imparzialità: ogni storico romano tende a mostrare la versione dei fatti che più si confà al proprio orientamento politico. Svetonio (I sec. d.C.), cavaliere filo-repubblicano, tendeva a preferire imperatori più moderati, come fu a suo parere Augusto che esaltò nelle Vite dei dodici Cesari, a scapito di un Adriano, per lui troppo autoritario e assoluto come sovrano. La corrente di pensiero stoica, che seguiva, lo faceva sperare in un’utopistica intesa perfetta tra senato e princeps, allora ormai assente, almeno per quanto riguardava la politica adrianea. Pare che proprio questo atteggiamento di opposizione valse a Svetonio la destituzione dalla sua funzione di segretario incaricato alla corrispondenza imperiale. Neanche Cassio Dione (n. prima del 163-m. dopo il 229), autore greco dell’aristocrazia senatoria, appoggiava l’operato di Adriano e lo dipingeva come un dominatore, appassionato di ogni forma d’arte e artista convinto, che si vendicava solenne contro chiunque osasse contraddirlo o eccellere rispetto a lui.
L’Historia Augusta, scritta a più mani, rivelatasi spuria, nonostante privilegiasse gli imperatori concordi con il senato, ci mostrava un Adriano non troppo negativo, ma sicuramente variegato e multiforme, come lo definì anche Aurelio Vittore (IV sec. d. C.). Quest’ultimo, storico di umili natali, ci descriveva fedelmente, anche se sinteticamente, la visione che l’opinione comune dell’epoca aveva di questo princeps: un uomo terribilmente ambizioso, esibizionista, avido di potere e al tempo stesso dissimulatore, conoscitore del mondo greco, tanto da esser chiamato in tono dispregiativo ‘Graeculus’, ossessionato dalla bellezza e convinto di poterla riprodurre nell’arte; aveva una memoria sorprendente e grande resistenza fisica; manifestò la sua romanitas nel riformare l’esercito, l’amministrazione e le istituzioni, e restrinse e delimitò i confini dell’impero, eliminando le province meno sicure. L’epigrafia lo dipinge anche come un brillante soldato e un ottimo generale, che imponeva disciplina ferrea ai suoi uomini e mostrava allo stesso tempo comprensione e cameratismo all’occorrenza. La glittica e la numismatica descrivono il suo rapporto con la moglie Sabina, sicuramente pessimo secondo le fonti letterarie: per Vittore a causa di lui, per l’Historia Augusta a causa di lei, la quale però nelle monete appare come solenne ed esemplare, perché portatrice delle doti più amate dai romani, ossia rispetto della dignitas del marito, univirato, pudicitia e pietas. Rappresentata come Venere in alcune monete, rispecchiava bene la visione religiosa di Adriano, che da subito dedicò un tempio a Venere e Marte o, secondo una versione più recente di Veyne e Foucault, rappresentava un nuovo modello di coppia in cui la donna, non più sottomessa all’uomo, aveva smesso di essere solo un mezzo attraverso cui ottenere doti o potere, per diventare una sorte di confidente: ecco l’importanza elevata che le donne della famiglia imperiale avevano in questa età. Primo esempio furono le macchinazioni operate da Plotina, moglie di Traiano, perché Adriano sposasse Sabina, ultima erede della famiglia Ulpia e nipote di Traiano, venisse adottato e ottenesse la successione.
Le statue e i ritratti, di cui abbiamo 150 esemplari, studiati dal Bernoulli a fine Ottocento, individuati e catalogati in sei tipologie dal Wegner, otto per Fittschen e sette per la Evers, mostrano differenze minime e sono tutti caratterizzati dalla contaminazione greca, dal momento che ci mostrano un imperatore con la barba: non era un caso se nella parte orientale dell’impero Adriano, ancora vivente, venisse già acclamato come dio e protettore contro le orde barbare alle frontiere. I ritratti, in cui non appaiono segni di invecchiamento, si possono datare solo in base alla capigliatura e alla tecnica di realizzazione degli occhi: intorno al 128-130 d.C. gli scultori cominciarono a non dipingere più i globi oculari, ma ad incidere l’iride e a incavare leggermente la pupilla; nelle opere che evidenziano i tratti fisionomici, il volto appare asciutto e severo, il capo è fiero, è presente una corta barba sulle gote e i riccioli sono disposti a corona sulla fronte e sulle tempie secondo la vecchia moda di epoca Flavia; l’espressione del volto è concentrata, pensosa e assorta, la ‘torvitas’ pliniana, intensificata dal corrugamento delle sopracciglia (caratteristiche ricorrenti anche nei ritratti di età augustea: si ricordi a proposito l’Agrippa in marmo giallo di Vibo Valentia), gli occhi si presentano non troppo grandi e ravvicinati fra loro, la linea del naso è dritta e l’impostazione del volto è per lo più a tre quarti. Di suoi ritratti, loricati, in marmo, in bronzo, come pontifex maximus, come Marte o alla greca con pallio e tunica, era colmo l’impero: avendo capito la grande importanza propagandistica dell’arte, la usò per esaltare, oltre che se stesso da imperatore, anche la grecità stessa, intesa come collante culturale in tutto l’impero.
Tra gli storici moderni è impossibile non citare Yves Roman, autore di una biografia critica che, partendo dal titolo, L’imperatore virtuoso, svela il giudizio controcorrente, il bilancio positivo su questa figura controversa: il termine ‘virtuoso’ per Roman rappresenterebbe la brillante traduzione di ‘multiforme’, epiteto da intendersi, questa volta, non proprio in senso elogiativo, perché fu appiccicato ad Adriano dai suoi detrattori con l’intento di rappresentarlo come incostante, complicato, capriccioso e testardo fino alla brutalità. L’Adriano di Roman riusciva a trascorrere molte ore sotto i ferri del parrucchiere, fino a cambiare sette pettinature diverse, per via dell’insoddisfazione verso il suo aspetto fisico, ma era un genio versatile ed eccentrico, con la pecca di non riuscire affatto a mascherare la volubilità con l’untuosa discrezione tipica dei politici navigati. Sapeva, però, quando frenarsi: a tal proposito Roman ricorda l’aneddoto secondo il quale quando una anziana signora gli pose delle domande, lui rispose bruscamente di non aver tempo da perdere e, una volta che la donna gli disse che allora non avrebbe dovuto fare l’imperatore, l’uomo fermò il corteo e ascoltò la signora.
Come immaginare, dunque, questo imperatore, così controverso e particolare? Se è vero, come scrisse Marguerite Yourcenar, che “anche a Plutarco sfuggirà sempre Alessandro”, non sarà mai possibile giungere ad un’analisi completa di questa figura imponente, ma la summa delle diverse versioni riuscirà a ricomporre e riordinare i tasselli che ne disegnano il mosaico.
1 Tert., Apol., V, 34.
Bibliografia
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