Grace Kelly, Kim Novak, Tippi Hedren, attrici stupende. Le bionde che mandavano in sollucchero Hitchcock perché sembravano disinteressate ai sensi. Sembravano. Michele Manzotti, giornalista de La Nazione, critico musicale, conduttore del leggendario programma di Controradio Il Popolo del Blues, fa pensare a loro. No, non ha i capelli color del grano e il filo di perle ma, uomo educatissimo, sotto la calma olimpica nasconde un vulcano, uno Stromboli, per la precisione, visto che è fiorentino con legami eoliani, e ha la fortuna di non dover soffocare la veemenza lavica perché la incanala nella musica dove ogni “esplosione” è legittima. Inoltre, non gli difetta il senso dell’umorismo: vedere la sua versione di 38 luglio degli Squallor per credere. “Confermo – dice -. Ho una passione sanguigna, quasi fisica, che non può essere scissa anche dal non prendersi troppo sul serio. Ho il gusto dell’ironia: non possiamo parlare dall’alto, si devono smorzare i toni, forse è appunto la mia educazione che lo ritiene necessario. Sì, sono proprio uno Stromboli e d’istinto mi comporterei in maniera completamente diversa, ma la ragione aiuta e, insomma, l’ardore è bene spostarlo sulla musica”.
Suoni uno strumento?
Ho cominciato a studiare pianoforte a dodici anni privatamente e ho smesso nel 1986. Più in là non sarei potuto andare, me ne sono accorto tentando di leggere un pezzo molto difficile. Ho, comunque, dato quattro esami di conservatorio e sono soddisfatto di questa mia pratica musicale.
Qual era il pezzo?
Jardins sous la pluie di Claude Debussy.
Pure tu però…
Lo so, ma era uno dei pezzi in programma all’esame dell’ottavo anno di pianoforte. Avevo già letto tutti gli studi di Clementi Gradus Ad Parnassum, dodici fughe del Clavicembalo ben temperato di Bach, avevo iniziato a leggere con estrema difficoltà di Studi di Chopin, ma per Jardins sous la pluie c’era proprio bisogno del professionista. Dopo la laurea in storia della musica ho studiato con il maestro Luciani a Fiesole che mi accettò per fare un po’ di contrappunto, per non perdere il contatto con lo spartito, con la partitura, con le chiavi di lettura e parlo della chiave di basso, di soprano, di tenore etc. Nel 1988 comincia la mia seconda vita, quella da giornalista, con la vittoria della borsa di studio della Poligrafici Editoriale.
Al principio hai fatto proprio il cronista, scollegato dalla tua preparazione musicale?
Sì, e non è stato facilissimo perché non nasco cronista. Lo sono in parte diventato, ma non mi sento un cronista puro. Questo lavoro mi ha dato il modo di vivere, di mantenere una famiglia e arrivare a una fine di carriera adeguata ed è molto importante, lo riconosco. Ma io ho ascoltato musica da quando ero piccolo e sentivo che mi mancava sempre qualcosa, mi dispiaceva non essere in collegamento con ambienti che conoscevo: l’assunzione al Resto del Carlino ha voluto dire andare via da casa per undici anni. A Rovigo, comunque, dove sono stato quattro anni, ci sono un’ottima stagione lirica, un’ottima stagione teatrale, c’era Delta blues. Tentavo di godermi i concerti e ho trovato anche il modo di scriverne.
Il Popolo del Blues?
Il Popolo del Blues per me nasce con la conoscenza, a fine ’98, di Ernesto De Pascale (1958-2011 n.d.r.) che della trasmissione e del marchio è stato l’anima. Non era un rapporto semplice perché Ernesto era un capoufficio di se stesso. Però è stato lui che mi ha aperto un altro tipo di sguardo: prima ero il fan poi ho capito che bisogna ascoltare di tutto senza pregiudizi. Per dire, oggi sui social si parla di Sanremo come nei bar: quanto fa pietà quello, quant’è brava quella, che abito ha quell’altro. Proprio dall’esperienza di Ernesto, ho tentato di vedere Sanremo sotto una luce diversa: chi investe per un artista per quanto riguarda la promozione, il lavoro di scrittura, l’orchestrazione. Il festival muove un indotto, ce ne siamo accorti con la pandemia e, per poco che è stato, ha fornito lavoro a chi non l’aveva avuto per un anno.
Sei un “no-fan”, dunque, attento a ogni sfera musicale. E se un artista si impadronisce del tuo cuore?
Ritorno fan! Ultimamente mi è capitato con il progetto Extraliscio. Nel 2017 andai a vedere uno spettacolo teatrale e musicale di questa banda di pazzi (Mirco Mariani, Moreno Conficconi detto il biondo e Mauro Ferrara n.d.r.), e una compagnia di Pistoia Gli Omini. Fu amore a prima vista. Con mia moglie andammo dietro il palco e ci facemmo la foto con Moreno il biondo che per fortuna adesso è molto più famoso di quanto non fosse una volta. Tramite questa esperienza ho conosciuto un mondo che colpevolmente snobbavo e invece è importantissimo perché ne fanno parte signori musicisti e c’è la voglia di far divertire che è uguale alla voglia di far divertire in altri modi, in altri ambiti: uno non va a un concerto di musica classica per annoiarsi. Va a cercare qualcosa che lo faccia tornare a casa dicendo: che bella serata. Ecco, l’approccio tento di mantenerlo uguale in tutte le situazioni che mi vedono ascoltatore.
Senti musica da quando eri bambino. Per abitudine familiare?
Il piatto su cui giravano i dischi a casa mia ha avuto un grosso merito nella mia formazione: ci poteva essere Debussy, ci poteva essere Brahms che io, ovvio, non comprendevo. Ma ascoltavo. Il primo LP di cui ho ricordo è Help! dei Beatles, prestato ai miei genitori. Per me è stato una scintilla. Ho ascoltato e mitizzato i Beatles per tanti anni poi, al di là della loro grandezza, ho detto: non si possono ascoltare solo i Beatles, tuoi “parenti”, c’è molto di più nella storia della musica. Mi piace, a sessant’anni, che tante cose differenti facciano parte della mia interiorità e, con gli articoli che scrivo, tento di trasmetterle agli altri.
Vuoi comunicare la gioia e lo slancio o anche un po’ insegnare?
Insegnare forse non è il termine giusto, ma una sorta di didattica ce la metto sempre perché devo descrivere lo stile di un disco. Se il disco non ha meriti non ne parlo nemmeno perché non ho la vocazione dello stroncatore, però se c’è qualcosa che interessa è bene dirlo, in una scena musicale o in un’altra. È bene poter recepire le influenze musicali da tanti paesi, a partire dell’Italia che a volte snobbiamo un po’. Nascendo musicalmente con i Beatles sono più portato ad ascoltare musica che abbia un testo anglosassone, che pure non capisco completamente, ma i cantautori e gli interpreti italiani, certo mi piacciono. La musica che ascoltavamo nella televisione degli anni Sessanta per me non è stato un fatto episodico ed è giusto che sia stato storicizzato. Se si parla di Non ho l’età di Gigliola Cinquetti che, prima italiana, ha vinto l’Eurofestival nel 1964, è importante che si ricordi a quanto la Cinquetti ha dato alla musica italiana, tanto che in Francia ha un successo straordinario: fa furore con L’orage ovvero La pioggia. Quindi nella musica c’è qualcosa che fa tornare tutto. Non so come spiegarlo, ma ci sono delle cose che alla fine tornano al punto di partenza e questo mi piace tantissimo. Spesso e volentieri capisci che è un mondo molto più aperto di quanto si creda e proprio per questo è affascinante. Al di là del codice di notazione, che è già un miracolo per conto suo, di che cosa ci ha dato la natura con il suono e con chi lo ha incasellato, da Guido d’Arezzo a Johan Sebastian Bach che hanno fatto il massimo, c’è qualche cosa nel mondo musicale che unisce tanti punti proprio perché c’è un linguaggio universale anche tra i generi e fra i luoghi che sono più vicini di quanto si pensi.
Diciamo con Nietzsche che senza la musica la vita sarebbe un errore?
Un errore e veramente triste. Magari quando finirò di lavorare a tempo pieno ne ascolterò un po’ di più in maniera diversa. Adesso non sono molto aiutato da miei orari né dai mezzi di ascolto. Prima ho parlato del vinile. C’era quasi un rito nel pulirlo e metterlo sul piatto. Il CD nonostante tutto è il supporto più comodo e non comprendo come mai i produttori di computer e di auto non abbiano scelto di metterli all’interno dei computer e delle auto. Secondo me è una cosa sbagliata: da quando è iniziata la musica liquida il mondo discografico ha preso delle botte da cui non si è più ripreso e questo è un peccato. Leggevo oggi sui social lo sfogo di un amico jazzista: “Purtroppo tutto cospira affinché il CD non sia il supporto più utilizzato, ma non posso non inciderlo perché il CD è il mezzo più simbolico per noi musicisti”.
Ti è mai capitato di “regalare” la musica chi non l’aveva?
Al liceo mi divertivo a far conoscere gruppi e musiche ai compagni perché la trovavo una forma di socialità. Una volta capitai in uno studio medico per una visita e il dottore mi disse: “Ma lei è quello che fa le trasmissioni su Rete Toscana Classica? Io la devo ringraziare, mi ha fatto scoprire delle cose incredibili”. Si trattava di madrigali. Un collega: “Mi hai fatto scoprire musiche bellissime, grazie mi sono divertito ad approfondirle”. Beh, mi fa piacere.
Se tu fossi direttore artistico?
Mi sono fatto questa domanda molte volte perché, come ci sono tanti direttori tecnici della Nazionale, ognuno è un direttore artistico. Ultimamente questo sogno-vocazione, che probabilmente non sarà mai concretizzato, anche se nella vita mai dire mai, è molto legato al folk. Perché in fondo tutto nasce dalla tradizione popolare, dalla letteratura minore che poi minore non è e tanti compositori classici hanno preso dalla tradizione…
Dvořák…
È il primo che viene in mente. Negli ultimi anni sono andato a vari festival di folk, specialmente Oltremanica, e ho apprezzato questo racconto in musica: fiabe, leggende. Se vogliamo, c’è anche un collegamento con il mio mestiere: le murder ballads sono fatti di cronaca che vengono messi in musica.
Oltre ai Beatles chi c’è nel tuo pantheon? (premesso che dichiari: per chi fa il nostro mestiere i pantheon devono essere privati).
I Jethro Tull che, dal ‘68 in poi, hanno toccato vari generi a me molto familiari: il blues, il folk (primi fra tutti a riusare il mandolino, la balalaika, i flauti di un tempo). Hanno pubblicato gli album su un determinato argomento, hanno utilizzato il prog, inteso come il non avere respiro fra un momento e l’altro, anche se il prog è un genere che ai Jethro Tull non si addice in modo particolare, e si sono cimentati in maniera più o meno felice con altre atmosfere: il glam rock degli anni ‘70 a Londra, l’elettronica agli inizi degli ‘80, addirittura un po’ di rap a fine ‘90. E la rilettura della Bourée di Bach. Sono stati molto eclettici. Chi fa parte del pantheon a pieno titolo è soprattutto Johan Sebastian Bach perché è il compositore più moderno che esista e l’ha dimostrato in vita. Non ho letto le biografie di Bach, ma le sue opere parlano da sole e la sua musica si è anche prestata a rielaborazioni pur rimanendo sempre riconoscibile. Ci sono anche il sinfonismo di Beethoven, tutto il sinfonismo dell’800, l’opera di Verdi che ha raccontato l’Italia come poi i film della commedia all’italiana negli anni ’50 e ‘60. Al di là del pantheon c’è molto altro che uno adora. Ad esempio, ho sentito tantissimo i Manhattan Transfer. Cito anche il rapporto con gli Swingle Singers che è stato anche personale e, dal 2004 al 2016, stretto: ho fatto un po’ di promozione nel nostro paese. Gli Swingle Singers hanno messo Bach nella musica jazz ed erano molto presenti in Italia: Berio li ha chiamati per le sue composizioni a partire dalla sinfonia nel 1969. Anche Azio Corghi e altri compositori hanno destinato la loro musica a queste otto voci.
Che cos'altro tieni a dire?
A me piacerebbe che chiunque fosse mosso da una grande curiosità e ascoltasse più musica possibile: non c’è bisogno di avere dodici stazioni radio o dodici canali TV, ne bastano due o tre per rendersi conto di quel c’è in giro. È tanto e non riusciamo a scoprirlo come sarebbe giusto fare. L’esperienza di Extraliscio, scusa se ci ritorno, è la vera fusione di un’anima popolare con un’attitudine rock ovvero quella di essere fuori dalla norma da un punto di vista strumentale. Sono contento che siano entrati in un circuito che non sarebbe stato possibile affrontare se non avessero trovato Elisabetta Sgarbi che li ha presi per mano e portati a quello che sono ovvero un’espressione popolare e colta al tempo stesso. Un esperimento di alto valore musicale con un grosso seguito popolare non è facile.
Come è successo?
Per quello che so, il poeta bolognese Ermanno Cavazzoni li ha presentati alla Milanesiana in un piccolo spettacolo ed Elisabetta Sgarbi è stata folgorata. È nato il film che è andato alla Mostra di Venezia, Extraliscio-Punk da balera, la partecipazione a Sanremo. Una promozione radiofonica e televisiva con caratteristiche professionali: tutto quello che dovrebbe essere normale e in Italia non è normale se non hai una persona che mette tante idee e anche un po’ di soldini.
Raoul Casadei l’aveva sempre detto: vai col liscio. E noi con i timpani tappati, supponenti.