Esiste un’altra intelligenza, più adatta alle sfide che ci aspettano? Esiste un’intelligenza non novecentesca? La stiamo formando da qualche parte, in qualche scuola, in qualche azienda, in qualche centro sociale? Abbiamo ragione di pretendere che emerga in superficie nella gestione del mondo, e di pretenderlo con una rabbia pericolosa?
(Alessandro Baricco, Mai più, prima puntata. Il Post, 9 marzo 2021)
Alessandro Baricco ha pubblicato una serie di articoli a puntate su Il Post con il titolo Mai più, partendo da un assunto che riguarda non solo ciascuno di noi preso individualmente, ma anche il nostro essere come collettività: siamo incapaci di affrontare i problemi che la pandemia ci sta sbattendo violentemente in faccia. Le soluzioni a cui si arriva collettivamente non solo non sono efficaci, ma sono addirittura insensate, pur essendo figlie di una sequenza logica coerente in sé. Per dirla con le parole di Baricco: “Una certa ottusa razionalità meccanica si è a tal punto fissata sulla soluzione di un problema, da perdere di vista il quadro più complessivo della faccenda, vale a dire quel che chiamiamo il senso della vita.”
In questo primo articolo cercherò di affrontare con lo sguardo della complessità le domande che Baricco ci pone, poiché riguardano il nostro futuro come collettività umana.
Esiste un’altra intelligenza, più adatta alle sfide che ci aspettano? Esiste un’intelligenza non novecentesca?
Sì, esiste. Ed è l’intelligenza che connette, l’intelligenza relazionale, che potremmo considerare figlia del secolo che stiamo vivendo. Non che non fosse presente anche prima: in fondo l’intelligenza è – nel suo stesso significato etimologico - saper ‘leggere tra’: tra le righe di ciò che si legge, tra le parole che si ascoltano, tra i fenomeni che si osservano. Capire le connessioni, non fermarsi ai singoli elementi.
Eppure, ha dominato – e domina tutt’ora – un’intelligenza diversa, che si ferma solo sui singoli elementi, perdendo completamente la capacità di connetterli e di capire perciò gli effetti che scaturiscono dalle relazioni che li legano. Ha comunque dato buoni frutti – conoscenze scientifiche specialistiche, tecniche applicative, tecnologie avanzate – ma l’incapacità di uno sguardo d’insieme, dall’alto, che includesse anche gli effetti delle azioni che compiamo in nome di questa intelligenza, ha causato danni enormi a cui non sappiamo porre rimedio.
Dalla seconda metà del Novecento hanno cominciato ad emergere riflessioni sempre più approfondite su ciò che è stato definito come ‘paradigma complesso’, posto in alternativa al ‘paradigma riduzionista’ per il modo in cui si osservava e si interpretava la realtà: non più come elementi separati, ma come sistemi intrecciati e annidati uno nell’altro, dal mondo biologico a quello sociale, dalla chimica alla cibernetica. Il paradigma complesso è divenuto l’applicazione concreta dell’intelligenza che connette e che cerca di comprendere le relazioni che rendono la vita possibile su questo pianeta.
Chi proponeva questo tipo di intelligenza offriva uno sguardo diverso sul mondo: perciò veniva facilmente deriso, giudicato quanto meno ‘strano’, e appartenente a una piccola setta di studiosi che si capivano solo tra loro. Parlavano di complessità del mondo. Di sistemi dinamici, vicini al caos eppure ordinati. Di interdipendenza. Di imprevedibilità. Di incertezza. Argomenti scomodi, a cui non veniva offerta una risposta univoca e rassicurante. Dicevano che siamo sempre dentro una relazione, dentro una situazione, che ci determina e che contribuiamo a determinare, in una co-evoluzione reciproca ricca di sorprese. Che non esiste un osservatore che sia fuori dal sistema che osserva. Proponevano di non focalizzarsi sui singoli elementi di un fenomeno ma di cercarne lo schema di connessioni, le interdipendenze. Di non affrontare un problema dividendolo in parti e analizzandole separatamente, per accorgersi solo alla fine che il problema nel frattempo era già cambiato.
In effetti, erano studiosi ‘strani’: erano – e si sentivano - molto lontani dal pensiero dei loro contemporanei. Erano persone come Ilya Prigogine, Gregory Bateson, Heinz von Foerster, Francisco Varela, Humberto Maturana, Philip Anderson, Edgar Morin. Morin termina così il suo primo testo che introduce al pensiero complesso, Il paradigma perduto1, pubblicato nel 1973, prima che si dedicasse alla prima versione de Il Metodo: “Mi si permetta qui di abbandonare il “noi” convenzionale dell’autore per comunicare il sentimento che si è rafforzato in me nel corso di questa ricerca. La piena coscienza dell’incertezza, della casualità, della tragedia in tutte le cose umane è ben lungi dall’avermi condotto alla disperazione. Al contrario, è corroborante barattare la sicurezza mentale con il rischio, perché così si guadagna la potenzialità. Le verità polifoniche della complessità esaltano, e mi capiranno quelli che come me soffocano nel pensiero chiuso, la scienza chiusa, le verità limitate, mutilate, arroganti. È corroborante sfuggire per sempre alla teoria dominante che spiega tutto, alla litania che pretende di risolvere tutto. È corroborante infine considerare il mondo, la vita, l’uomo, la conoscenza, l’azione come dei sistemi aperti. L’apertura, abisso sull’insondabile e il nulla, ferita originaria del nostro spirito e della nostra vita, è anche la bocca assetata e affamata attraverso la quale il nostro spirito e la nostra vita esprimono i desideri, respirano, bevono, mangiano, baciano.”
Per chi si avvicina alla complessità del mondo sentendola dentro di sé, questo è il bivio che si trova davanti: accoglierla o rifiutarla. Non esistono vie intermedie. Se la si accoglie, il sentimento è molto affine a ciò che descrive Morin: è corroborante, è esaltante. Ma, contestualmente, accoglierla è anche rischioso, poiché richiede di rinunciare a molte certezze: al controllo, al dominio, al pensiero unico, alle soluzioni definitive. Se invece la si rifiuta, il sentimento è il fastidio, l’irritazione, e – diciamolo pure - la paura. Paura dell’incertezza, della perdita del controllo, delle sfumature, dell’imprevedibile, dei problemi senza una soluzione già definita e definitiva. Ottima scelta per piccoli problemi di routine, in cui non c’è bisogno di fermarsi a osservare l’insieme come sta evolvendo, in cui basta intervenire e sostituire una parte perché tutto funzioni come prima. Pessima scelta per problemi interconnessi, che si alimentano tra loro e che possono innescare un processo di auto-genesi esponenziale.
Ma a quel tempo i problemi che stiamo affrontando oggi sembravano lontani ai più, un mero esercizio di stile. Allora, specie dagli anni Ottanta in poi, era molto meglio continuare con i mantra che andavano per la maggiore: il pensiero positivo, il successo alla portata di ognuno, il miglioramento continuo, l’auto-realizzazione, l’essere creatori di sé stessi, il superare i propri limiti. Una sorta di pensiero magico che sosteneva che l’ottimismo, la competizione, l’individualismo, l’edonismo, erano la via certa per il successo. Una profezia che si auto-avverava: chi aveva avuto successo era la dimostrazione concreta di aver sempre pensato positivo, di non essersi mai fatto abbattere dalle avversità della vita. E chi non aveva avuto successo era la prova provata di non aver creduto abbastanza in sé stesso. Chi non riusciva nella vita era in qualche modo colpevole del proprio fallimento.
Non che oggi questo pensiero non sia ancora diffuso, ma comincia a suonare stonato alle nostre orecchie. Dovremmo ammettere, secondo la sua logica auto-confermante, che abbiamo fallito, visti i problemi immani che siamo costretti ad affrontare in modo palesemente inadeguato. È evidente, e sotto gli occhi di tutti, che questo incantamento non ha funzionato. Che il benessere di pochi – quelli che ce l’hanno fatta – è avvenuto a scapito del benessere collettivo, mentre i problemi oggi da affrontare sono innanzi tutto problemi collettivi, e solo dopo diventano anche individuali.
Un piccolo esempio dei problemi che siamo costretti ad affrontare collettivamente? Il riscaldamento globale; l’inquinamento; la distruzione degli elementi base della vita – acqua, terra, aria, foreste; le migrazioni di massa; le pandemie.
L’inquinamento contribuisce al riscaldamento globale, che a sua volta produce non solo ulteriore inquinamento – con gli incendi dei boschi, ad esempio, o con la liberazione nell’aria di gas metano conseguente allo scioglimento del permafrost – ma anche la distruzione degli elementi base della vita, e questa a sua volta contribuisce alla diffusione di virus che sfociano in pandemie.
Ognuno di questi problemi è perciò inaffrontabile per almeno due aspetti: non è affrontabile da ciascuno di noi preso individualmente, per quanto ci si possa sforzare di farlo; non è affrontabile separatamente dagli altri problemi, poiché ognuno contribuisce ad alimentare gli altri, direttamente o indirettamente.
Come a dire: noi siamo intrecciati l’un l’altro nell’affrontarli, loro sono intrecciati l’un l’altro nel mantenere attivo il processo che li fa evolvere con una dinamica esponenziale. E, aspetto non trascurabile, ‘noi’ e ‘loro’ siamo connessi. Noi siamo parte – fondamentale – di questi problemi. Siamo l’osservatore che è parte del sistema che osserva.
Sono così strettamente intrecciati tra loro - e noi siamo così strettamente intrecciati con loro - che sarebbe folle, oltre che inutile, cercare di affrontarli con il tipo di intelligenza a cui siamo abituati. Se continuiamo a farlo, non è difficile prevedere come andrà a finire per tutti noi. È l’intelligenza che Baricco ha scelto di chiamare ‘novecentesca’, quella che, quando viene esercitata, sfocia in un vicolo cieco, nella decisione unica fondata sulla giustificazione che “non ci sono alternative” - “There is no alternative”, o TINA. Peccato che, oltre a essere l’unica decisione che rimane possibile, sia anche quasi sempre sbagliata. Ma chi, oggi, educa al pensare complesso? Chi apre le porte all’intelligenza relazionale?
1 Edgar Morin, Le paradigme perdu: la nature humaine, Ed. du Seuil, 1973. (Edizione italiana: Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana? Ed. Bompiani, 1974).