Moby Dick, il capolavoro di Herman Melville, è un libro profondamente permeato dall’Antico Testamento, a partire dai nomi dei protagonisti: il narratore, un vagabondo, si fa chiamare Ismaele come il figlio di Abramo abbandonato nel deserto. Il protagonista di chiama Ahab, come il sovrano di Israele che abbandonò il culto di YHWH e contrastò il profeta Elia di cui si parla nel Primo Libro dei Re. E l’anziano che mette in guardia Ismaele dall’imbarcarsi con Ahab si chiama proprio Elia. La frase messa in calce all’ultimo capitolo è tratta dal Libro di Giobbe mentre l’ultima frase del romanzo (“Era la «Rachele» che incrociava raminga e che, tornando sui suoi passi alla ricerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano”) riecheggia il verso di Geremia 31,15 ripreso anche da Matteo quando narra la Strage degli Innocenti (“Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché essi non sono più”). La stessa balena bianca del titolo, il cui nome è ripreso da quello di Mocha Dick, un reale capodoglio albino che terrorizzava le baleniere dell’epoca, viene spesso definito “leviatano” come la misteriosa creatura mostruosa citata nel Libro di Giobbe e nel Salmo 104.
È quasi normale per una società intrisa di calvinismo puritano come quella americana del XIX secolo mettere la Bibbia, e in particolare il Vecchio Testamento, un po’ ovunque. Va detto però che Moby Dick va oltre, presentandoci un protagonista che sfida quella società: il capitano Ahab è un anticonformista.
La lettura puramente letterale del Moby Dick lascia sconcertati: il capitano Ahab ci appare come un pazzo. Impegna la sua ciurma multietnica, simbolo già di quell’America asilo di tutti i popoli della terra, nella guerra al capodoglio che lo ha mutilato. La voce del suo secondo Starbuck ci appare ragionevole: perché impegnare le forze nella lotta contro una bestia che ti ha ferito solo perché questo è il suo istinto quando possiamo dare la caccia ad altre balene e guadagnarci sul loro olio? Starbuck descrive l’ossessione di Ahab come blasfema.
Il secondo di Ahab è un perfetto calvinista. Per capirlo bisogna affrontare un altro testo: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. Il protestantesimo, in particolare il ramo calvinista, vede gli uomini predestinati alla dannazione o alla salvezza sin dalla nascita. L’unica possibile ascesi è quella data dal lavoro. E la ricchezza terrena è il segno della predestinazione alla salvezza, così come furono ricompensati con grandi ricchezze i patriarchi dell’Antico Testamento: per un cattolico, sensibile più alla diversa morale evangelica e neotestamentaria, questo discorso è quasi incomprensibile. Ma se lo si capisce, si comprende non solo il Moby Dick ma anche la mentalità americana capace di coniugare Bibbia e business.
Ahab, che porta il nome del re d’Israele che rinunciò al Dio di Abramo, rinuncia a questa morale, sente che gli va stretta. E decide di cacciare quella balena che lo ha mutilato.
Ma chi è Moby Dick, il “leviatano”? La letteratura americana ottocentesca è molto sensibile alla natura. Di primo acchito si potrebbe dire che Moby Dick è la natura che Ahab vuole domare. Ma forse questa è solo una lettura parziale.
Come abbiamo detto, Ahab è il nome di un re ribelle a Dio e che dal Signore verrà punito: morirà in battaglia e i cani ne leccheranno le ferite. Ahab verrà trascinato, con tutta la sua ciurma ad eccezione di Ismaele, negli abissi del mare: una punizione biblica, una punizione divina. Moby Dick, la balena bianca, è Dio. Melville dedica tutto un capitolo al bianco della balena: un colore splendido e terribile, il colore della luce ma pure del pallore della morte. È l’ambivalenza della parola sacro che, in latino, significa sia santo che terribile: e Santo e Terribile è il Signore.
Ahab si vuole vendicare di quel Dio che lo ha mutilato. E viene punito dallo stesso Dio. È follia, dice Starbuck, consacrarsi a questa caccia. Diamoci piuttosto al lavoro e al guadagno, che questa è la strada giusta, la strada che Dio stesso ci indica nella Bibbia.
Il rifiuto dell’etica puritana, il rifiuto stesso del capitalismo voluto in qualche maniera da Dio porta Ahab alla morte. Ismaele non giudica, si limita ad osservare questo duello tra il capitano e il secondo: e proprio questa sua posizione astratta dalle passioni antitetiche degli altri protagonisti faranno sì che il Dio che si manifesta sotto la forma di un leviatano marino lo risparmi per raccontare la vicenda.