Nella mia attività di formatore mi trovai spesso in situazioni a dir poco “imbarazzanti”. M'è capitato, più di una volta, di esser stato invitato in una classe scolastica ed il preside, animato di buona volontà, mi presentava come un esperto di cooperazione internazionale e aggiungeva spesso una frase tipo: “Perché ricordatevi ragazzi non bisogna dar loro il pesce ma la canna da pesca affinché se lo possano pescare il pesce”. Il preside usciva. Io ero allucinato e, forse, lo spalancarsi a mo’ serranda dei miei occhi lo dimostravano. Ma andiamo in Africa a vedere cosa accade e poi, a fine articolo, torneremo in classe.
Negli anni pre-Covid feci un viaggio in Africa occidentale per monitorare alcuni progetti. Arrivato a Cotonou in Benin conobbi un capo che aveva 10 mogli e 50 figli. Era il re della pesca in quanto aveva piazzato i propri figli lungo il Golfo di Guinea presso le capitali degli Stati che ivi si affacciavano. I figli/e erano tutti chief fisherman, in concorrenza tra loro, a capo di cooperative di pescatori e gestivano mercati ittici e ristoranti. Insomma, un business che rendeva il papà orgoglioso.
Naturalmente il pescato doveva essere venduto e consumato in giornata; altrimenti essiccato perché la catena del freddo che ne permette l'export era impensabile per gli africani della scorsa generazione che erano pescatori, commercianti e ristoratori ma non ancora industriali come i nuovi business men.
Il mercato era florido sino all'arrivo, ad inizio millennio, dei pescherecci industriali stranieri, in particolare cinesi che depredano l'oceano. Lo stesso, sino a pochi anni fa, dava lavoro al 10% della popolazione dei piccoli stati che si affacciavano sul Golfo più un ulteriore 10% tra commercianti e ristoratori in una filiera del turismo che aveva tassi di crescita a doppia cifra.
Ognuno di questi pescherecci è oggi in grado di catturare una quantità di pesce pari a quella di più di un centinaio di canoe di pescatori. Non solo. Gli “stranieri” usano metodi di pesca non sostenibili, che distruggono banchi già eccessivamente sfruttati, vanno spesso con reti a strascico a differenza delle canoe le cui reti sono tirate a mano da giovani con braccia robuste.
Tra il 2000 e il 2016 in Ghana la quantità di pescato è diminuita del 37% e il reddito dei pescatori locali è sceso del 40% come documentano i videoreporter Lorenzo Colantoni e Arianna Massimi su Internazionale.it.
Ma ciò non accade solo nell'oceano Atlantico ma anche nel nostro mare Mediterraneo. Dal 2000 ad oggi la Sicilia ha ridotto i pescherecci da 4.329 a 2.882. Più sale il conflitto con i Paesi a Sud del Mediterraneo (Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto) e meno pescatori affrontano il mare aperto dov'è sempre più difficile sapere i confini tra acque territoriali e internazionali. Ma i nostri pescatori, a differenza di quelli che saccheggiano l'Atlantico, hanno anche una funzione sociale non da poco in quanto salvano vite umane di migranti in balìa delle onde. Giovanni Tumbiolo, in qualità di presidente del Distretto Produttivo della Pesca di Mazara del Vallo, ricevette in periodo pre-Covid, una targa come cittadino europeo dell’anno a nome di tutti i pescatori che continuano a salvare le vite dei migranti che naufragano nel Canale di Sicilia. Lui, in cambio, approfittò dell'invito a Bruxelles per chiedere all'allora Presidente Tajani d'intervenire nella guerra del pesce.
Il governo Conte 2 ha dovuto addirittura mobilitare i servizi segreti per dissequestrare i pescatori in Libia che erano entrati in acque libiche e fatti prigionieri dalla marina militare dell'ex colonia italiana. L'Italia s'è dovuta accordare con il maresciallo Khalifa Haftar, il capo militare che controlla l’Est della Libia. Nel farlo ha ricevuto le critiche più dure dalla comunità internazionale perché con i ribelli non si contratta incrinando le relazioni internazionali con diversi Paesi atlantici. Ed è anche per questo che il neo-premier Mario Draghi ha dovuto sottolineare, nel suo discorso programmatico al Senato della Repubblica, la fedeltà atlantica.
Per la FAO il problema non è solo continentale ma transnazionale. Un terzo degli stock ittici mondiali è sovra sfruttato. In base ai dati FAO, il consumo mondiale di pesce pro capite ha stabilito un nuovo record nel 2020, raggiungendo la soglia dei 21 kg pro capite l’anno, con un aumento medio del 3,1% dal 1961. La forte domanda di pesce arriva dai nascenti mercati africani delle 54 capitali e l'offerta viene soddisfatta da pescherecci industriali, cinesi ma anche africani, che non guardano molto alla sostenibilità ma sono diretti da uomini avidi che nulla hanno a che vedere con i nostri chief fisherman figli di un capovillaggio.
Il rapporto FAO si basa sulle informazioni raccolte prima dell’epidemia di Covid-19, che ha portato a un declino dell’attività di pesca globale a seguito di restrizioni e carenze di manodopera a causa dell’emergenza sanitaria. Insomma, grazie al Covid, i pescherecci non possono più uscire come prima e gli oceani stanno tornando a ripopolarsi.
In chiusura del mio incontro in classe cito spesso una frase di Jomo Kenyatta, primo presidente del Kenya:
Quando i missionari giunsero, gli africani avevano la terra e i missionari la Bibbia. Essi ci dissero di pregare a occhi chiusi. Quando li aprimmo, loro avevano la terra e noi la Bibbia.
Ebbene, oggi, oltre alla terra, suolo e sottosuolo, possiamo aggiungerci anche l'acqua.