Diverse voci, anche di differente orientamento politico e sociale, prima della crisi del coronavirus hanno gridato al fallimento della globalizzazione e dell’Unione Europea. Con la pandemia in atto, vi sono stati molti che teorizzavano la fine non solo di “questa” Europa, basata soprattutto su un sistema finanziario predominante su qualsiasi altra istanza, ma anche della globalizzazione fondata su questa idea e spalmata a livello planetario.

Com’è noto, l’idea di globalizzazione – come è concepita oggi nell’occidente europeo – è figlia del desiderio illuminista di metter fine alla successione di guerre e di rivolte che hanno caratterizzato da sempre l’Europa: il manifesto europeo di questa aspirazione, com’è noto, è Per la Pace Perpetua di Immanuel Kant del 1795 dove il filosofo di Konisberg proponeva una sorta di “costituzione universale” che regoli i rapporti tra Stati uniti all’interno di una federazione di popoli che debbano essere considerati ognuno alla stregua di singoli uomini, ricalcando, in qualche modo, la metafora hobbesiana del Leviatano, rappresentata nella copertina del libro.

Già in quel periodo si sentiva una comunanza mondiale, dice Kant, tanto che “la violazione di un diritto compiuta in un punto della terra viene percepita in tutti” (Betrand Russell, nel 1923 riprenderà questa idea, in Le prospettive della civiltà industriale, dicendo che “uno stato mondiale concepibile solamente quando le differenti parti del mondo diventino così intimamente correlate che nessuna parte possa essere indifferente su ciò che accade in ogni altra parte”); in modo non dissimile oggi si dice, seguendo Anthony Giddens, di “intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località molto lontane, facendo sì che gli eventi locali vengano modellati da eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa”, o con Manuel Castells di “un’economia che funziona come un’unità in tempo reale”.

Rispetto a Kant, l’enfasi si è spostata dalla centralità della morale e del diritto alla centralità dei rapporti commerciali ed economici, elevando, una sovrastruttura soverchiante (il liberismo) sulla struttura materiale dei bisogni sociali; dice quindi bene Einaudi quando, ne Il Buongoverno, sottolinea come il liberismo “non è né punto né poco ‘un principio economico’, non è qualcosa che si contrapponga al liberalismo etico; è una “soluzione concreta” che talvolta e, diciamo pure, abbastanza sovente, gli economisti danno al problema, ad essi affidato, di cercare con l’osservazione e il ragionamento quale sia la via più adatta, lo strumento più perfetto per raggiungere quel fine o quei fini, materiali o spirituali che il politico o il filosofo, od il politico guidato da una certa filosofia della vita ha graduato per ordine di importanza subordinandoli tutti al raggiungimento della massima elevazione umana”.

Il passaggio dalla sfera etico-giuridica alla sfera prettamente finanziario-economica ha reso la globalizzazione un complesso e fragile sistema scevro dai reali bisogni materiali e culturali non solo degli individui, ma anche dei popoli: è bastata un fenomeno naturale – la pandemia e poi la guerra in Ucraina – in un momento di crisi sistemica, per fare venire prepotentemente al pettine tutti i drammatici nodi che il tanto decantato successo del mercato libero e globale andasse in una ennesima forte crisi.

Non è un caso se il sistema del capitalismo cognitivo stia ora tentando un passo indietro: un ritorno drastico alla vecchia logica degli Stati nazionali, fomentato da fenomeni culturali correlati al sovranismo come la cancel culture (come ben illustra C. Rhodes), un sistema ben collaudato che, invece di farci fare un salto in avanti nello sviluppo e nella cooperazione umana – con buona pace dei tanto sbandierati progressi in Intelligenza artificiale -, promette di farcene fare uno indietro, usando una metafora atletica, cioè, è come se volessimo dalla tecnica Fosbury ritornare allo scavalcamento ventrale perchè più sicuro, invece di cercare di perfezionarlo (come infatti fece lo stesso Fosbury).

Sin dalla teorizzazione kantiana, i vari tentativi di globalizzazione, hanno avuto in comune due presupposti: la prima è l’essere centrati sullo Stato-Nazione, la seconda su una visione di scarsità zero delle risore naturali, a disposizione unicamente degli esseri umani, in particolare di quelli occidentali. Gli anni ’10 degli ultimi due secoli (XX e XXI), sono stati fondamentali per capire la tenuta delle due globalizzazioni che si sono succedute: la prima basata sull’imperialismo delle grandi potenze europee basato sul diretto controllo (colonialismo) di altre zone di produzione del mondo; la seconda basata sul consumismo come ideologia portante di quell’Impero, per dirla con Negri e Hardt, che attraverso lo scambio delle merci, quanto più possibile omologate e standardizzate, altro non è che “un progetto globale di potere in rete” grazie alle capacità dell’Information Technology.

Quest’ultima globalizzazione si è scontrata con una serie di fattori già conosciuti da tempo: la scarsità delle risorse (vedi il celebre Rapporto del Club di Roma del 1970) contro l’aumento esponenziale degli abitanti della terra; il conseguente collasso ecologico, già prefigurato nella piattaforma dell’ecologia profonda di Devall e Sessions (la quale prende spunto dai lavori sull’ecologia profonda del filosofo norvegese Arne Naess, che muove la weltanschauung da una prospettiva antropocentrica ad una ecocentrica); l’emergere della Cina come superpotenza mondiale, e lo spostamento del baricentro economico-politico della terra sempre più ad est.

Non è la prima volta nella storia conosciuta del mondo che ad una crisi dell’occidente vi è un emergere della Cina, è già successo, almeno, tra il 1400 e il 1500 quando la Cina produceva il 25-30% della ricchezza mondiale; e solo la morte dell’ammiraglio Zheng He e la cautela contabile dei mandarini di corte, non ha portato la Cina ad essere un paese, se non imperialista, almeno colonialista (come invece succede oggi in Africa dove negli ultimi trent’anni la Cina si è premurata di fornire ai Paesi africani infrastrutture a basso costo ottenendo in cambio l’accesso alle risorse minerarie ed energetiche locali e l’appoggio politico dei paesi africani nei consessi internazionali).

Tutti i fautori della globalizzazione sono partiti dall’idea centrale di Stato-nazione (come abbiamo visto, per esempio, con Kant); appare che questa centralità dell’idea di Stato-nazione sia pensata come imprescindibile per qualsiasi tipo di architettura della globalizzazione. È quindi naturale che si tenti di sostituire l’agonizzante globalizzazione con un ritorno a concezioni sovraniste (come d’altronde venne fatto con l’emergere nel secolo scorso delle teorie socialnazionaliste e fasciste in Europa).

Esiste una via diversa che non passi dall’idea di Stato nazionale ma che privilegi un differente modello di sviluppo che promuova un maggior livello di benessere sociale, una minor disparità economica e faccia da trampolino per una ripresa di un cosmopolitismo economico e solidale?

Nel libro del giapponese Kenichi Ohmae, La fine dello Stato-nazione (1996), viene sostenuta una visione alternativa rispetto al tentativo di passo del gambero odierno; Ohmae, infatti, spiega che il digitale ha reso obsoleto lo Stato-nazione perché non è più l'unità politica ottimale per organizzare l'attività economica; le più importanti decisioni economiche, infatti, vengono prese all'interno di “regioni economiche” (quali la Silicon Valley, Singapore o l’area della Brianza, in Italia), che inglobano i confini nazionali di più Stati e che riescono ad attrarre i capitali geografici indipendentemente dall'appartenenza a delle determinate frontiere nazionali.

È necessario, allora, secondo il teorico giapponese, il passaggio da una prospettiva centrata sugli Stati-nazione a una prospettiva che si catalizza sugli Stati-regione, ossia su sfere territoriali che, indipendentemente dal loro essere inseriti o meno all'interno dei confini di uno o più Stati nazione, sono capaci di attrarre i capitali globali e di essere luoghi di prosperità economica.

Lo smantellamento dello Stato-nazione, se si segue il ragionamento di Ohmae, è necessario in quanto retaggio di una logica sette-ottocentesca; cioè una forma transitoria che serviva sia come territorio per tutti coloro i quali erano accomunati da vincoli linguistici e di sangue e per questo titolari in egual modo di diritti universali, sia per gestire l'attività economica. La famosa pagina di Adam Smith “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro interesse personale”, dove si afferma una idea di ecomomia di mercato in grado di autoregolarsi, oggi recuperata dal neoliberismo della scuola di Chicago, stà li a mostrarcelo.

Il superamento dello Stato-nazione, quindi, a favore di uno Stato-regione, potrebbe, in questo senso, essere un primo passo verso una versione alternativa ai precedenti falliti tentativi di globalizzazione che, insieme alla possibilità per cui il denaro (tramite per esempio le criptomonete) possa circolare, come si augura il guru giapponese, in modo veramente libero. Questi fattori farebbero in modo da accordare una reale autonomia operativa agli Stati-regione generatori di ricchezza che si trovano del tutto o in parte entro i loro confini, stimolando l'impegno di quegli Stati a ricercare soluzioni globali e mettere a frutto la loro esclusiva capacità di porre al primo posto la logica globale e, infine, di fungere da porti di entrata nella nuova economia.

L'unica speranza, conclude Ohmae, è, quindi, riuscire a invertire - con l’apporto delle tecnologie digitali e di una nuova mentalità veramente cosmopolita legata ad esse - le tendenze accentratrici post-feudali dell'era moderna e autorizzare - o ancor meglio, incoraggiare - il pendolo dell'economia fino a compiere un'oscillazione che lo allontani dagli Stati-nazione per riportarlo in prossimità degli Stati-regione.

In conclusione, la prospettiva che propone Ohmae, che potremmo etichettare come glocalismo anarchico, potrebbe appunto, essere compatibile con l’impresa dell’anarchismo di Bakunin che aveva lo scopo di riconciliare la proprietà comune con la massima possibile diminuzione dei poteri dello Stato (e con essi, l’abolizione di tutte le diseguaglianze), o la loro riformulazione in senso digitale in modo da, come suggerisce Parag Khanna in La rinascita delle città-stato, sposare le virtù dell’inclusività democratica con l’efficacia del management tecnocratico (leadership distribuita o orizzontale); o addirittura, la completa abolizione dello Stato-nazione, che, certamente, non può essere realizzato senza le tecnologie digitali ed un nuovo modo di pensare le organizzazioni umane.