Leggo spesso, anche sui social, dei dibattiti interessanti sul confronto tra i carnefici e i superstiti delle loro vittime, soprattutto quando, in forza delle attenuanti, accresciute a favore di chi collabori con gli inquirenti per la soluzione giudiziaria del caso e grazie alla premialità della legge penitenziaria italiana, degli assassini riacquistano la loro libertà dopo quindici o venti anni dalla commissione del loro reato.

Il problema si pone con drammatica evidenza per chi sia stato privato di un genitore, in tenera età o addirittura quando era stato soltanto concepito, ad opera di un terrorista o comunque di un omicida che abbia posto fine alla vita di un proprio caro in maniera predeterminata e atroce, con l’uso delle armi, magari tendendo un’imboscata a chi stava soltanto svolgendo il proprio dovere.

È il caso, ad esempio, di tanti poliziotti, carabinieri e altri servitori dello stato che fungevano da protezione a qualche politico o magistrato finito nel mirino della mafia o del terrorismo e ucciso al posto del loro protetto oppure, nella maggior parte dei casi, insieme a loro (cito a i casi più noti, ma non sono che alcuni tra i centinaia di fatti di sangue in cui dei bambini ancora in fasce o nel seno materno, hanno perso il proprio papà per un atto sanguinario e omicida: Aldo Moro e la sua scorta, Borsellino, Falcone e le loro scorte).

E non mancano fattispecie criminose in cui le vittime sono cadute da sole, essendo prive di scorta (anche qui cito, scusandomi, per ragioni di brevità, di non poter essere esaustivo, il professor Bachelet, il giornalista del Corriere della sera Tobagi, il giuslavorista Marco Biagi).

In questi casi ci si chiede allora: ma è giusto che un assassino riacquisti la sua libertà, arrivando a tormentare addirittura con la sua presenza fisica, le vittime del suo misfatto, già dilaniate dai ricordi, dai fantasmi e dalle ossessioni riconducibili in maniera forse inimmaginabile alla perdita cruenta dei propri affetti fondamentali?

Nessuno può immaginare il dolore di un figlio che ha perso il padre in quelle circostanze in cui è stato ucciso un membro delle forze dell’ordine di scorta a un potente, oppure lo stesso potente preso di mira (non fa alcuna differenza, la morte li accomuna tutti sotto la stessa sorte, condannando i loro figli e congiunti superstiti a scontare, come qualcuno ha detto, un ergastolo bianco, fatto di atroce dolore, di rabbia e impotenza).

Credo che in tal caso, in un figlio si risveglino, inevitabilmente, quei sentimenti ancestrali di vendetta descritti così chiaramente nell'Antico Testamento (occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, vita per vita).

È umano e comprensibile: millenni di civiltà giuridica, svanirebbero di colpo dall'animo umano, se colpito in modo così atroce. E non si può certo pretendere che gli altri, quelli colpiti negli affetti più intimi e profondi, siano seguaci del Cristo, l'Uomo-Dio che ha cancellato, con l'esempio, la vendetta, trasformandola in amore e perdono.

E sono convinto che i sentieri dell'anima, solcati dal sangue e dal dolore, non possano mai incrociarsi con le strade percorse dalla società, che in maniera asettica e autonoma, tracciano dei percorsi riabilitativi che prescindono totalmente dai sentimenti individuali delle vittime (negli USA, ad esempio, sarebbe inconcepibile, che un assassino possa evitare la pena comminata dalla legge, senza il perdono dei parenti prossimi delle vittime).

Ritengo che sia perciò impossibile cercare di conciliare due processi (quello individuale e intimo dei superstiti e quello oggettivo e codicistico dello Stato) che non possono incontrarsi, in quanto non sono assimilabili. La percezione degli uni affonda nel dolore, nella rabbia, nell' impotenza, sancita dall'esistenza di un ordinamento che si è ormai definitivamente sostituito nella gestione di un evento crudele che esso non è in grado, e neppure lo vuole, di affrontare, sostituendosi anche nel dolore, ai poveri congiunti sopravvissuti al cruento omicidio. E così essi restano soli, a elaborare il loro dolore insanabile ed eterno, mentre la società continua per la sua strada.

A nessuno può essere concesso, a mio modesto avviso, di sindacare o valutare quel dolore incolmabile e immenso.

Soltanto il carnefice, forse, potrebbe tentare, in maniera del tutto indipendente, a penetrare quella corazza di dolore, avvicinandosi alle vittime, se glielo consentano, e nei dovuti modi, per chiedere loro il perdono per averli privati in maniera brutale, di un affetto così caro e insostituibile. E spetta soltanto ai superstiti decidere, in modo insindacabile, se concederlo o meno.

Ma per far ciò bisognerebbe essere dei grandi uomini, degli animi superiori. E sinceramente non credo che se ne trovino molti, tra quelli che hanno osato togliere un padre all'amore dei figli.