La parola “eroe” nelle nostre lingue moderne ha sempre un significato positivo: un eroe è una persona che, anche a prezzo della propria vita, ottiene la salvezza di una o più persone. “Eroe” è una parola che deriva dal greco, e nel mito greco ha un significato più sfumato: è sì una persona eccezionale, spesso un semidio, spesso fa del bene, ma può anche compiere azioni che oggi troveremmo inaccettabili. La percezione nei secoli della figura del più celebre eroe greco, il re di Itaca Odisseo, ne è l’esempio più grande: mai un eroe ha avuto rappresentazioni così contrastanti a seconda dell’autore, rivestendo ruoli simbolici positivi o negativi a seconda del contesto.
Odisseo appare per la prima volta nell’Iliade e nell’Odissea di Omero. Nel primo poema è uno degli eroi di primo piano, mentre diventa il protagonista assoluto del secondo, che ne narra il ritorno a Itaca dopo la guerra di Troia. Ha una caratteristica che lo distingue da tutti gli altri protagonisti omerici, ovvero un’intelligenza acutissima: è il polymetis parola resa dal Pindemonte come “uom dal multiforme ingegno”. È anche il vero vincitore della guerra, grazie all’inganno del cavallo. Ma l’intelligenza è, moralmente, un’arma a doppio taglio.
In Omero Odisseo è un personaggio assolutamente positivo in entrambe i poemi. La sua intelligenza, diversa comunque dalla saggezza di Nestore, è l’arma che risolve le situazioni più intricate. Il lettore di Omero non può non ammirare la capacità dell’eroe di Itaca nell’uscire da situazioni disperate, come la grotta del Ciclope o riconquistare quasi da solo il suo regno.
Eppure, nonostante l’autorità di Omero nel mondo antico, paragonabile a quella della Bibbia nel mondo giudaico-cristiano, non bastò: già nella tragedia ateniese l’intelligenza di Odisseo si tramutò in propensione all’inganno: Sofocle ne fa ancora una figura nobile nell’Aiace ma già nel Filottete lo presenta come un meschino truffatore. Euripide arriverà a calcare ancora di più la mano presentandolo come falso, crudele e machiavellico nell’Ifigenia in Aulide e nelle Troiane. Odisseo diventa l’emblema di quei sofisti e dei loro allievi, come Crizia e Alcibiade, che hanno usato la loro eccezionale intelligenza a danno di Atene. Voce fuori dal coro è Platone che, nel suo Ippia Minore loda l’intelligenza di Odisseo che “sa scegliere” a discapito della sincerità di Achille che però, meno intelligente, non sa scegliere.
Nel mondo romano Odisseo diventa, forse attraverso la mediazione etrusca, Ulisse. Curioso come sia uno dei due eroi, essendo l’altro Eracle/Ercole, il cui nome viene latinizzato: Roma “si appropria” dei due massimi simboli della forza e dell’intelligenza del mondo greco. Ma “Ulisse” è percepito come un eroe esclusivamente negativo. Da un lato è comprensibile: Roma discende dall’eroe troiano Enea, da un uomo che vide la sua città distrutta da quell’astuzia diabolica che constraddistingue l’eroe di Itaca. Enea è, in tutto e per tutto, l’antitesi di Ulisse: il troiano è pius rispettoso degli dei mentre il greco sfida Poseidone. Enea è un guerriero mite e schietto, quanto Ulisse è subdolo e capace di crudeltà: Enea è l’archetipo della virtus romana e Ulisse è il simbolo di quei graeculi verso i quali il buon romano prova un sentimento misto di ammirazione e diffidenza. Nell’Eneide Virgilio definisce Ulisse dirus “crudele” e scelerum inventor “inventore di delitti”. Nelle Metamorfosi Ovidio lo rappresenterà come colui che, usando artifici retorici, si approprierà indebitamente delle armi di Achille che spettavano ad Aiace.
Sarà Dante, nel Medioevo, a fondere i due lati dell’intelligenza di questo eroe. Il poeta fiorentino conosceva solo l’Ulisse virgiliano e ignorava l’Odisseo omerico. Infatti, lo mette all’inferno. Ma lo renderà anche protagonista di un nobilissimo viaggio.
Ulisse è all’inferno per gli inganni che Virgilio elenca (il cavallo, il furto del Palladio, il ritrovamento di Achille) e non per il suo viaggio. Dante esalta il viaggio di Ulisse mettendogli in bocca nobilissime parole: se l’eroe di Itaca naufraga dinanzi alla montagna del Purgatorio, è solo perché spinto dalla ragione umana e privo della fede cristiana che farà sì che invece Dante arrivi alla meta. Ma la ragione in questo caso è positiva.
Dal canto ventiseiesimo dell’Inferno dantesco parte la rivalutazione moderna di Ulisse: il laico Novecento ne diede sempre interpretazioni positive. Si può dire che, paradossalmente, questo eroe antico sia stato più amato nella modernità che nell’antichità. Una modernità affascinata da un’intelligenza non priva di lati oscuri.