La malattia del linguaggio e del pensiero che penetra fin nel profondo della psiche contemporanea consiste nel fatto che lo sappiamo, ma non ci crediamo. Siamo sommersi da un flusso accelerato di dati, informazioni, conoscenze (sulla globalizzazione, sulla crisi climatica, sulla diffusione del contagio) che rischiano di diventare un pensiero magico che distoglie dalla realtà, produce sentimenti di paura, di minaccia e persino di cieco affidamento, che erigono una barriera nei confronti del coinvolgimento personale e del senso di responsabilità. (…) L’interdipendenza e la rete di relazioni che ci legano ad altri esseri umani noti e ignoti e alle creature del mondo non umano resta un’affermazione astratta se non viene messa in atto ogni giorno, in ogni cosa che facciamo, in ogni nostra emozione e pensiero.
(Laura Boella1)
Viviamo in tempi in cui il “pensare male” - riduzionista, semplificatore, compartimentato - ci caratterizza e ci impedisce di avere una conoscenza complessa, l’unica possibile per affrontare le sfide attuali2.
La comprensione cognitiva di ciò che riguarda l’approccio complesso - sia negli studi scientifici sia in quelli umanistici - è fondamentale per coglierne gli aspetti concettuali ed essere pronti ad applicarli.
La conoscenza della teoria delle reti, dei criteri dell’auto-organizzazione, della legge di potenza, della crescita esponenziale, della circolarità dei feedback, dell’emergenza dal basso, della teoria del caos, dei frattali, dei sistemi gerarchici: questi sono solo alcuni degli approfondimenti legati alla teoria della complessità, fondamentali per comprendere il mondo interconnesso, interdipendente, imprevedibile in cui siamo completamente immersi.
Non ci possiamo più permettere di non conoscere questi temi, e la loro introduzione nei programmi educativi - dalle primarie alle università - è d’obbligo se non vogliamo continuare a guardare il mondo attraverso una cultura ancora di stampo ottocentesco, come miopi che non sanno che gli occhiali sono già stati inventati da un pezzo.
Nonostante questa impreparazione riguardo ai concetti base della complessità, non è solo attraverso il loro studio che saremo pronti ad affrontare efficacemente ciò che ci aspetta e che bussa insistentemente alle nostre porte per entrare. E spesso bussa sotto forme che non ci piacciono affatto: oggi è l’epidemia che vuole entrare nelle nostre case, domani sarà la crisi economica, dopodomani sarà il cambiamento climatico, e poi ancora la crisi delle istituzioni democratiche, in un crescendo accelerato di eventi connessi e interdipendenti, da cui non riusciamo più a chiamarci fuori dicendo: “io non c’entro”, “non riguarda me”.
È sempre più evidente, purtroppo, che non basta sapere per credere.
A Raymond Aron, che era fuggito a Londra durante l’occupazione nazista di Parigi, fu chiesto se non fosse a conoscenza di quello che stava succedendo all’epoca nell’Est. Rispose: “Lo sapevo ma non ci credevo, e siccome non ci credevo, non lo sapevo” 3.
Sappiamo del cambiamento climatico, eppure non crediamo davvero che stia accadendo. Sapevamo che sarebbe arrivata un’epidemia da Coronavirus, eppure non ci abbiamo creduto, così come, in fondo, non abbiamo creduto nemmeno all’arrivo - prevedibile - di una seconda ondata in autunno. E non crederci non è solo come non sapere, è peggio. Ci rende non solo ciechi, ma ostinati nella nostra cecità, la difendiamo.
Ma cosa ci serve per credere anche se sappiamo?
Due elementi fondamentali: da un lato l’empatia - o, meglio, la fraternità, la compassione - che ci lega emotivamente ed affettivamente agli altri esseri, umani e non umani. E, dall’altro, il superamento dell’apatia - o, peggio, dell’accidia - che non ci fa agire aspettando che qualcun altro, o qualcos’altro, lo faccia per noi. Viviamo in tempi che non consentono di aspettare che le cose accadano, occorre anticiparle prima che sia troppo tardi ed esserne travolti.
Per capire la complessità, dobbiamo viverla, provarla fisicamente ed emotivamente, passarci attraverso per imparare a darle un nome che abbia un senso per noi.
Il compito a cui siamo chiamati ora è quello di “sentire la complessità”: nella nostra pelle, nella nostra carne, nel nostro stomaco, nel nostro cuore. È un sentimento indicibile, non ci sono parole che possano aiutarci a spiegarlo. È un sentire personale, intimo, che penetra in noi e ci cambia per sempre. Senza questo passaggio, il “pensare complesso” rischia di non essere sufficiente a renderci persone consapevoli della complessità che ci accomuna e ci denota costitutivamente, da dentro a fuori e da fuori a dentro.
Pensare complesso e sentire complesso sono come le due ali di un uccello: servono entrambe per volare.
Se il pensare complesso è la vastità, l’orizzonte senza fine del conoscere e del riconoscere, che ci porta - in un percorso circolare come l’orizzonte terrestre - al punto da cui eravamo partiti arricchiti da nuovi saperi, il sentire complesso è la profondità del nostro stesso esistere, la comprensione dell’appartenenza a un destino comune, a una “comunità di destino” 4 non solo umana ma terrestre, che include tutti gli esseri di questo unico, indivisibile esperimento che è la vita.
Note
1 Laura Boella, Siamo sulla stessa (complessa) barca. O vinciamo insieme o perdiamo tutti, Tuttolibri, 07.11.2020.
2 Edgar Morin, Il Metodo 6. Etica, Raffaello Cortina Editore, 2005.
3 Claude Lanzmann, Prologo a Il rapporto Karski, in Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena, Guanda, 2019.
4 Edgar Morin, Anne Brigitte Kern, Terra-Patria, Raffaello Cortina Editore, 1994.