È uno degli artisti italiani più eclettici ed interessanti. Lo conoscevo soprattutto per le armi in terracotta ma l’incontro dal quale è tratta questa intervista mi ha fatto conoscere altre opere molto intriganti per cui vale la pena leggere il testo dell’intervista e scoprire il mondo di Antonio Riello.
Partiamo dal tuo ultimo progetto e dal periodo di lockdown se questo in qualche modo ha influenzato l’indirizzo della tua ricerca.
Mi sono ritrovato, come tutti, confinato in casa. Passavo molto tempo in cucina. Luogo di amore, di cura, perché cucini di solito per qualcuno che ami, ma anche un luogo di violenza e di crudeltà. Fai operazioni tecniche sul corpo di animali, sulle verdure, ecc. come in un’officina di torture. Così ho cominciato a riflettere su questo luogo e sul suo "paesaggio di oggetti". Un po' come Mark Dion, uno dei miei artisti preferiti, ho iniziato un lungo lavoro di classificazione (forse risentendo anche della mia formazione scientifica). Costruendo così un dizionario enciclopedico visivo dell'ambiente culinario. Una mappatura e una tassonomia dove alcuni utensili sembrano veri e propri strumenti di tortura altri invece hanno l'aria più innocente ma non meno intrigante. Siamo a circa 250 immagini.
Come hai proceduto in questa classificazione? Con quali strumenti?
Penso che l’artista oggi non debba lavorare con i mezzi dell’Accademia, la grafite, le matite, ecc. A me piace lavorare con la biro, quella originale con l'inchiostro blu, perché la biro la usano gli studenti, le casalinghe, i bottegai, chi deve prendere un appunto. Mi piace questa ordinarietà, la vita comune, le persone comuni. E poi la biro è lo strumento che utilizzò per primo un altro dei miei eroi: Alighiero Boetti. Mi ha probabilmente influenzato in questa avventura anche Alberto Giacometti con i suoi ritratti. Sono sempre stato un grande fan del Giacometti disegnatore/pittore più che dello scultore perché lo trovo più complesso, più raffinato, più straordinario. Inizialmente ho disegnato su semplice carta A3 che avevo in casa poi sono passato a materiali con prestazioni più tecniche. C’è un’overdose di tutto quello che è digitale (con il problema che tutto invecchiare con una rapidità straordinaria).
Mi piaceva molto l’idea di ritornare all’analogico, con la biro e con la carta. Proprio come un illustratore. Volevo fare un passo indietro, ritrovare un rinnovato understatement. Oggi il sistema artistico tenta di forgiare in continuazione nuove star. Credo sempre più nell’umiltà dell’arte, degli artisti, del prodotto artistico. L’artista con la sua azione dovrebbe anche e soprattutto saper trasformare le cose semplici in straordinarie meraviglie. Questi miei oggetti di cucina sembrano materializzarsi da un campo di energia. Immagina, in estrema sintesi, una strana e intrigante relazione tra le poetiche di Alberto Giacometti e le atmosfere da teletrasporto fantascientifico di Star Trek....
Abbiamo accennato prima al concetto di ambiguità, questi lavori da un lato raffigurano semplicemente oggetti presenti in cucina, dall’altro lato si ricollegano al tema della violenza come succedeva anche in altri tuoi lavori precedenti, penso alle pistole, fucili, bombe in ceramica. C’è nella tua pratica una linea di analisi che collega violenza ed estetica?
Credo che questo sia il mio principale leitmotiv. Mi ha sempre affascinato il controverso rapporto che esiste tra etica ed estetica. E come, in particolare, l’estetica attraverso i suoi "trucchi" riesce a modificare la percezione etico-morale che noi abbiamo (fatte salve le specificità culturali). Gli artisti oggi dovrebbero esser attivisti, antropologi, urbanisti, sociologi. Non c’è quasi più l’artista che produce opere d’arte tout-court (quasi il sottoprodotto di un’attività e di un impegno più complessi e vasti). La prassi artistica deva saper trovare le cifre per raccontare i disagi e, appunto, le ambigue disavventure dell’etica.
Quindi la scelta degli oggetti non è tanto legata al legame con la violenza quanto piuttosto all’ambiguità.
Penso che la "Forma Simbolica" (citando Panofsky) di questo nostro tempo sia proprio una sorta di entropia semantica. È questa ambiguità tardo-moderna (e i suoi equivoci) che mi interessa. Non penso affatto riguardi solo la dimensione creativa o la cultura, la vedo piuttosto come un’attitudine che permea ogni aspetto della società.
Concludiamo il discorso rispetto a questo progetto degli utensili della cucina. È un progetto concluso o pensi ad un seguito?
Ti confesso che la mia idea, forse folle - sicuramente ambiziosa, è quella di andare oltre la mia cucina. Vorrei fare con la stessa tecnica dei ritratti in scala 1:1 di oggetti grandi ed iconici che mi piacerebbe possedere. Diciamo che li "rubo", ovvero me ne impossesso disegnandoli. Ho iniziato con una moto, una Harley Davidson. Anche auto (una Lamborghini e una Fiat 500, alfa e omega delle quattro ruote) per poi arrivare anche degli imponenti yacht, barche, aeroplani. Disegni enormi di moltissimi metri quadri, al limite dell'assurdità e della megalomania (che mi diverto molto sempre a sbeffeggiare).
C’è quindi un’aspirazione profonda a classificare, cosa significa per te?
L’attitudine classificatoria è un elemento che è presente nel mondo dell’arte, riguarda l’artista, il collezionista, il museo, le collezioni. Tutto l’800 è stato all'insegna del creare griglie e mappe del mondo per poi poterlo in qualche modo controllare. Creare immagini di qualcosa significa poterlo manipolare. E in tempi confusi ed incerti questo bisogno di controllo è molto forte. Abbiamo bisogno di sicurezze. Ma curiosamente è un gioco che non ha fine perché non si riuscirà mai a ordinare completamente la realtà che è ovviamente in continuo divenire. Lo sappiamo, è una partita in cui è impossibile vincere, la sfida però va onorata.
Volendo dare a chi ci legge degli strumenti in più per comprendere la tua pratica artistica, potendo/dovendo/volendo esprimere la tua pratica in tre caratteristiche, quali sceglieresti e perché?
La prima parola è sicuramente "ossessione", il mio bisogno di ordinare sistematicamente e parossisticamente è figlio dell'esigenza di trovare ordine ed equilibrio nella mia vita. La seconda è l’"ordinarietà". Non ho mai pensato di appartenere a un’élite intellettuale. Sono sempre stato affascinato dalla cultura pop, al limite del kitsch talvolta. I miei gusti sono i gusti ordinari di tutti noi, della massa. Non ho un background fascinoso. Ho un passato normale, ordinario, dell’Italia di quando ero ragazzo. Certe cose ti rimangono dentro. Questo mondo non-eccezionale deve avere la sua epopea, deve avere qualcuno che la racconta, perché è facile raccontare le grandi storie avventurose, molto più difficile è raccontare il quotidiano, l'esperienza comune. Questo, dopo tutto, credo sia la mia missione. Ma mi sento di avere strettamente a che fare anche con una speciale forma di "archeologia".
Nell'Alter Modern Era siamo tutti in qualche modo archeologi, il confronto con il passato è indispensabile, esattamente così come negli anni Novanta del secolo scorso era fondamentale guardare al futuro. L’artista deve scavare nel passato, non per nostalgia ma perché nel gioco serio dell’arte contemporanea l’artista è in fondo anche un raddrizzatore di torti che cerca di far vedere le vicende storiche da un punto di vista inedito. Dico archeologia proprio per indicare che bisogna scavare. Nella cultura anglosassone (che comunque ha permeato la seconda parte della mia vita) da un po’ di anni il grande tema è il post-colonialismo. Nella cultura americana prende delle particolari sfumature, principalmente in termini razza e genere. Dobbiamo assolutamente confrontarci con la Storia, una questione che sento come necessaria ed urgente.
Un aspetto che se vuoi, passami il termine, è contro natura. Noi abbiamo gli occhi che guardano avanti, e quindi in un certo senso ci proiettano verso il futuro e non verso il passato.
Certo è vero, ma oggi dobbiamo saper andare anche indietro. È uno sforzo, è una fatica che l’arte contemporanea deve fare. L’arte è in prima linea. È per questo che dico che l’artista deve essere uno "scavatore", insomma una specie di storico e anche, quando serve, un bravo "domatore" di luoghi comuni.
Probabilmente la tecnologia ci ha abituati ad andare molto in fretta e ad avere poca consapevolezza di quello che stiamo facendo per cui, dici, è necessario fermarsi un attimo e guardarci dietro, recuperare la memoria di tutto quello che abbiamo fatto.
Sì infatti. Oggi sembra che esista solo ciò che troviamo nelle prime 2/3 pagine in Internet, quello che non vi compare non ha in apparenza dignità e importanza. Voglio essere un esploratore delle aree neglette dalla cultura della rete. Ri-scoprire vicende e fatti perduti (vittime di una pericolosa e diffusa forma di "amnesia digitale").
Visto che ti ho chiesto di definire la tua pratica artistica attraverso tre concetti, ti chiedo ora di scegliere tre lavori che ritieni più rappresentativi della tua pratica.
Quello di cui abbiamo parlato prima, i Quarantine Drawings, è sicuramente il lavoro con cui mi identifico di più attualmente. Un’altro è quello delle armi in ceramica, le Ceramic Weapons, che nasce intorno al 2003. Cercando qualcosa che potesse esprimere il rapporto etica/estetica mi sono soffermato sulle armi da guerra. Ma mi affascinava parimenti anche la ceramica, così demodé e bistrattata dagli artisti in quegli anni. Vado così alla mitica Bottega Gatti di Faenza che ha da sempre un rapporto particolare con gli artisti, il nonno dell’attuale proprietario realizzava per Balla e Boccioni. Ci passano pure la Accardi e Sylvie Fleury e soprattutto Luigi Ontani. Inizio a familiarizzarmi con i classici decori faentini di epoca rinascimentale. E scopro che questi pattern bellissimi hanno origine nel Medio Evo come copie riviste e corrette di decorazioni presenti su oggetti (tappeti e ceramiche) provenienti dal Medio Oriente fin dal tempo delle Crociate. La grande stagione artistica faentina ne farà il proprio stilema, ce ne sono otto tipi diversi nel canone. Questo gioco mi affascina: le armi da un lato (bombe, Kalshnikov, mitra) e i pattern dall’altro. Il mix produce una fragile aggressività: la ceramica è di per sé materiale fragile per antonomasia e le armi rimandano a minacce, guerre e aggressioni. Questo ossimoro rappresenta forse anche noi: diventiamo aggressivi quando abbiamo paura, quando siamo fragili. I due termini sono strettamente legati ed esprimono genericamente, in qualche maniera, alcuni aspetti della condizione umana. Sono affascinato dal nomadismo culturale che passa attraverso la storia della ceramica e quella del Mediterraneo: migrano non solo le persone ma anche le idee ed i motivi che abbelliscono i manufatti.
Il terzo lavoro è Ashes to Ashes, un progetto nato nel 2009 quando ho deciso di fare qualcosa per i miei amati libri. Ne ho tantissimi, sono un bibliomane. I libri che amo di più li ho letti e riletti e ad un certo punto mi sono chiesto cosa ne sarà di loro quando non ci sarò più? Finiranno su una bancarella di seconda mano? In un’umida cantina? In un polveroso solaio mangiati dai tarli? Fini ingloriose. Come salvare i loro corpi fisici dal decadimento? Ho iniziato a scannerizzarli e salvarne il contenuto. Poi a bruciare pagine e copertina con uno speciale forno e raccogliere rispettosamente le ceneri in modo rituale. Disegnando e realizzando poi, insieme ad un soffiatore di vetro, delle urne cinerarie che hanno la forma di grandi calici, come fossero dei reliquari da Chiesa medievale. Al loro interno c’è un piccolo spazio dove ripongo e sigillo le rispettive ceneri. Nella parte superiore vengono incisi il titolo, l’autore, la data e il luogo di prima edizione il luogo e l’anno della distruzione. Come delle lapidi. L’anima è salva e il corpo diventa opera d’arte, affidato ad una sorta di "Eternità tascabile", quella dell'Arte. I miei diletti libri saranno custoditi e accuditi in qualche museo o collezione. Ogni calice ha una sua unicità e la forma non è mai legata direttamente al titolo ma alle mie personali sensazioni suscitate proprio da quello specifico libro.
È un racconto visivo dell'intimità della mia vita intellettuale e delle sue passioni ed è comunque anche una minuziosa ricerca sul vetro veneziano e sulla sua tradizione (di nuovo la Storia...). Ne ho fatti 430 fino ad oggi e non intendo fermarmi.