C’era una volta il Giappone. Quello di guerrieri e lottatori, di templi, santuari e teatri Kabuki, di fiori e uccelli esotici, di draghi e animali divini e leggendari, dei quartieri di piacere e delle sue sofisticate cortigiane abbigliate con incantevoli kimono e graziosi ventagli.

È il mondo chiuso dell’epoca Edo, quando, pena la morte, era vietato l’ingresso agli stranieri e i giapponesi non potevano lasciare il Paese. Oltre 250 anni di politica autarchica, dal 1603 al 1868, per difendersi – sembra – dall’influenza coloniale e religiosa di Spagna e Portogallo e mantenere intatte le proprie tradizioni millenarie. Ma se il periodo dello shogunato Tokugawa mantenne il Giappone in una condizione feudale, fondando il potere su una rigida gerarchia di signori e samurai, in realtà riuscì anche ad assicurare un lungo periodo di pace dopo secoli di guerre intestine, periodo in cui fiorirono commerci e attività artistiche e letterarie, mentre Edo - l’attuale Tokio – cresceva sempre di più fino a prendere il posto della vecchia capitale Kyoto.

Ecco, Hokusai nacque in questo mondo, un ‘mondo fluttuante’, economicamente vivace che intorno allo sviluppo di Tokyo vide nascere una nuova classe mercantile e artigianale, non in contrasto con l’aristocrazia samuraica ancora al comando, ma estremamente innovativa, attenta e pronta a cogliere le opportunità che i molti anni di armonia offrivano alle attività di intrattenimento, trasporto e vendita di merci e servizi. Lui, Hokusai, ancora oggi poco noto al mondo occidentale, non nacque ricco, probabilmente figlio di una concubina, si ingegnò facendo mille mestieri fino a quando non consacrò la sua vita al disegno, continuando, comunque, a vivere in povertà e in continua emergenza.

Eppure fu lui, insieme a Utamaro e Hiroshige, a ispirare gli impressionisti e poi ancora Van Gogh, Degas, Toulouse-Lautrec, fino alla corrente Liberty. Furono i suoi paesaggi bidimensionali dal colore netto, le sue scene di vita quotidiana, la sua prospettiva essenziale, in cui il movimento si intuiva grazie alle curve sinuose, a colpire gli artisti occidentali quando il Giappone si aprì al resto del mondo dopo che le ‘navi nere’ americane del commodoro Perry forzarono il porto di Edo costringendo il paese del Sol Levante ad avviare un commercio internazionale. Quando successe, nel 1868, Hokusai non c’era già più, ma le sue opere solcarono il mare e raggiunsero le nostre terre conquistando collezionisti e artisti fino a suscitare la moda dilagante del Giapponismo.

Una grande e inconsueta mostra a Palazzo Blu di Pisa ci trasporta nell’enigmatico universo giapponese, prima della sua occidentalizzazione, quando le stampe di Hokusai diffondevano visivamente i sogni delle nuove classi sociali che volevano godere i piaceri della vita, cogliere l’attimo di uno spettacolo teatrale, di un paesaggio, di un fiore, della bellezza femminile, dell’appagamento erotico.

Oltre 200 opere ci fanno viaggiare tra la vita, gli usi, i costumi, le mode e la cultura di un cosmo che per noi è lontano e ancora sconosciuto. Vengono da due collezionisti italiani, Edoardo Chiossone, genovese, incisore e professore di disegno, tra gli artefici stranieri della modernizzazione del Giappone, e Enrico di Borbone, conte di Bardi, veneziano, grande viaggiatore e amatore d’arte. Anche loro furono influenzati e colpiti dalla qualità artistica dell’arte giapponese e fondarono in Italia, nelle rispettive città di nascita, due Musei di Arte Orientale, i più grandi in Italia.

Cominciando il viaggio, guidati da Rossella Menegazzo, docente di storia dell’arte dell’Asia Orientale all’università di Milano e curatrice della mostra, ci troviamo in corteo sul lungo ponte di Yohagi a Okazaki, vicino a Kyoto, probabilmente diretti verso Edo, come erano soliti fare i signori feudatari, obbligati a portare omaggi al castello dello shogun Tokugawa. Ma anche lo spettacolo pirotecnico al ponte Ryogoku, a Tokyo, nelle ore serali, e l’ingresso nel tempio buddista del Toeizan, sempre a Tokio (allora Edo) ci invitano a mescolarci tra la folla festante che si riversa sulle strade. Gli uomini sono tutti calvi nella parte centrale della testa, con un codino raccolto nella zona alta della nuca, secondo le acconciature tradizionali del periodo Edo e dei samurai.

Le donne indossano kimono e raggruppano i lunghi capelli sulla sommità della testa, trattenendoli con un nastro e adornandoli con un pettine ornamentale sulla fronte. È questo il ‘mondo fluttuante’ - Ukiyoe – che Ukusai ci racconta, soffermandosi con attenzione sulle attività umane che si svolgevano davanti ai suoi occhi in località e paesaggi celebri ai giapponesi. D’altronde il benessere e l’arricchimento di alcune classi sociali favoriva il movimento verso le località più curiose, note e sacre del Giappone, che molti cittadini potevano ormai visitare. Così si era sviluppata la produzione di stampe, tirate in centinaia di esemplari, che poi venivano vendute come souvenir nelle varie botteghe aperte lungo i diversi percorsi.

Si trattava di silografie di piccole dimensioni, ma quelle di Hokusai erano particolarmente audaci per la composizione grafica e l’uso di colori brillanti come il blu di Prussia importato dalla Germania. Perché se nei lunghi anni dello shogunato Tokugawa le porte del Giappone erano chiuse all’Occidente, è pur vero che gli olandesi (e solo loro) con la Compagnia delle Indie potevano approdare in un unico porto, quello di Nagasaki. Ed è qui che arrivarono alcune novità dal resto del mondo, come, appunto, una diversa tonalità del blu e anche la tecnica della prospettiva nella riproduzione delle immagini, tecnica fino agli anni Trenta dell’Ottocento sconosciuta dagli artisti giapponesi.

Hokusai era tutt’uno con la sua arte, eternamente insoddisfatto e alla ricerca della perfezione, curioso verso tutto ciò che vedeva e soprattutto verso la vivacità e la varietà umana e della natura colta fin nei particolari, nelle pieghe, nelle pose, nelle smorfie, nei caratteri, - scrive Rossella Menegazzo nel catalogo. - Un’espressione artistica irrinunciabile che lo portò a toccare ogni soggetto con lo stesso occhio scrutatore e la mano veloce.

A riprova di questa ossessiva ricerca della perfezione i molti nomi e sigilli usati dall’artista, che ad ogni cambiamento di stile faceva corrispondere una firma diversa. Nacque nel 1760 con il nome di Tokitaro, che poi sostituì con Shunro, Sori, Hokusai, Taito, Iitsu e Manji, secondo le trasformazioni che avvenivano nella sua arte e nella sua vita.

Dall’età di 6 anni ho la mania di copiare la forma delle cose, - scrive lui stesso firmandosi Manji, il vecchio pazzo per la pittura, - dai 50 in poi ho pubblicato molti disegni, ma si può dire che tra quello che ho raffigurato fino ai 70 anni non c’è nulla di considerevole. A 73 ho cominciato ad intuire la struttura di animali e uccelli, insetti e pesci e la natura di erbe e piante, perciò a 86 progredirò oltre; a 90 ne avrò approfondito ancor più il senso recondito, mentre a 100 potrò forse finalmente raggiungere la dimensione del divino. Quando ne avrò 110 anche un punto o una linea saranno dotati di vita propria. Se posso esprimere un desiderio prego quelli tra loro signori che godranno di lunga vita di controllare se quanto sostengo si rivelerà infondato.

A parte i Surimono, che sono produzioni più raffinate - quali biglietti augurali e commemorativi, calendari e inviti - riservate alla clientela ristretta e culturalmente più elevata di privati e circoli poetici, sono state le vedute del Monte Fuji, eseguite dopo aver compiuto 70 anni, a dare all’artista la celebrità in patria e l’immortalità nel mondo. Il Fuji, con i suoi 3776 metri, non è solo la montagna più alta del Giappone, ma, secondo il pensiero shintoista, è anche un luogo sacro agli dei. Hokusai, nella sua ricerca di immortalità, era devoto a questo luogo, tanto da dedicargli i tre volumi delle Cento vedute del Fuji e una serie policroma composta di 46 opere dal grande impatto scenografico in cui il blu di Prussia prevale aggiungendo fascino e luminosità.

La montagna sacra si staglia ovunque, spesso in posizione centrale, dando così l’idea della profondità, pur in mancanza di una vera e propria prospettiva. Ma ancora una volta è un viaggio nel leggendario ‘mondo fluttuante’ della sua epoca quello che Hokusai ci invita a fare. Raramente, infatti, il Fuji è rappresentato da solo: in primo piano ci sono gli uomini e le loro attività. Nella Ruota idraulica a Onden, cinque operai stanno lavorando; in Hodogaya sul Tokaido, un gruppo di uomini e animali percorre la strada alberata che unisce Kyoto e Edo. Anche nella Grande onda di Kanagawa, la sua opera più famosa, il protagonista è ancora una volta l’uomo. Ghermite dall’artiglio schiumoso dell’onda, alcune fragili imbarcazioni cercano di sottrarsi alla forza dirompente della natura, mentre il monte Fuji, imbiancato dalla neve, è testimone unico e impassibile del dramma.

Per sopperire alle costanti difficoltà economiche Hokusai, come molti altri artisti, fece ricorso, tra l’altro, agli Shunga, letteralmente ‘Immagini di primavera’. In mostra troviamo esposto l’album Pivieri sulle onde, titolo che poco o niente ha a che fare con i fantasiosi giochi erotici riprodotti. Corpi in posizioni improbabili e organi genitali di proporzioni esagerate in grande evidenza sono i soggetti della raccolta di 12 stampe policrome. Gli Shunga garantivano entrate sicure a tutti gli artisti ed erano molto popolari nel Giappone dell’epoca. Venivano donati persino alle giovani spose, in segno augurale – si dice – oppure come manuali a scopo ‘didattico’. Bisognava, però, aggirare la censura e per questo le copertine e i titoli degli album non corrispondevano al contenuto. Ma evidentemente i funzionari governativi chiudevano un occhio. O meglio, di certo li aprivano tutti e due per guardare bene i disegni, ma poi lasciavano correre fingendo di non avere visto bene.

Gli dei dispettosi non ascoltarono però la richiesta di tempo di Hokusai per migliorare sempre di più la sua arte. Morì all’età di 89 anni, il 10 maggio 1849, senza aver potuto comprendere, secondo la sua tesi, la dimensione del divino. E lui ci restò male.

Se il Cielo mi concedesse ancora 10 anni - sollecitava in punto di morte. Anche solo cinque anni in più e sarei potuto diventare un vero artista.

Dispiace dargli torto, ma se potesse sapere che le sue immagini, hanno giocato un ruolo chiave nell’arte fino ai giorni nostri, forse anche lui capirebbe quanto le sue preoccupazioni fossero infondate.