Ce ne stavamo seduti qua e là. Misi un disco di
Louis Amstrong, una musica che amo, ci sono cresciuto
insieme. Era molto carina. Mi successe di alzare lo sguardo…(Woody Allen, Stardust Memories)
Che cos’è la grazia in estetica? Qualcosa non molto differente da cosa sia la grazia in teologia e in mistica: un qualcosa tra luce, leggerezza, facilità, semplicità, trasparenza, leggiadria, eleganza, sprezzatura. Un qualcosa che appare epifanicamente ma non perde mai il senso dell’Essere. Solo lo fluidifica, lo veicola e veste con stile, perfezione, garbo, cura. Grazia è l’Essere che cura il proprio apparire, il proprio esserci.
Tiepolo ci dà un grande aiuto nel percepire la grazia, nell’affinarci a sentirla, viverla, custodirla. Nei dipinti di Tiepolo, abbiamo tutta una fenomenologia della grazia che ci permette di coglierne alcune essenze o, meglio, alcune sue forme di manifestazione e condivisione fino, così, a poterla scorgere anche nei film di Woody Allen. Proviamo ad elencare i tipi di grazia tiepolesca o, meglio, i tipi di sua formalizzazione pittorica.
Tra i ritratti non possiamo non soffermarci sulla Dama con tricorno, dove la grazia appare quale forma delicata e deliziosa nel tondo lunare del volto femminile ritagliato dal copricapo e dal mantello. Nero su nero e il volto che da ovale si fa ellittico. Qui, la grazia si apprezza proprio nell’equilibrio di un sottile vacillare, nella proporzione aurea tra leggere imperfezioni e limitazioni. Un ritmo musicale anima anche la stasi apparentemente più immota.
Per trovare una luminescenza così ammaliante nella sua grazia occorre andare all’ombrellino fluorescente della Dama con parasole di Goya. Qui, una grazia di equilibrio, là una grazia cosale, stillante dalla materia stessa del rappresentare, endocromatica. Il verde del parasole assorbe luce e la riverbera nella sua sostanzialità figurativa. L’oggetto viene trasfigurato nella luce divenendo un insieme di cerchi che alternano luminosità maggiore e minore.
In entrambe le opere, il ventaglio opera quale importante fattore della messa in scena della grazia femminea e signorile. In Tiepolo, la grazia spesso appare in una declinazione che include il concetto di gloria e di trionfo. Cosa sia la gloria già lo spiega filosoficamente e teologicamente con grande chiarezza e precisione lo stesso San Paolo quando parla del Figlio quale “irradiazione della gloria del Padre” e “impronta della Sua sostanza” (Eb. 1,2-3).
La “gloria”, quindi, implica irradiazione e sub-stantia. È la gloria che regge il reale, lo trasfigura e lo oltrepassa nella sua luce. Tiepolo è il maestro della gloria celeste quale grazia e della grazia quale gloria. Una gloria-grazia umile e altera, lontanissima e intima, abissale nella sua apparente indifferenza e disinvolta nella sua fisica gestualità.
Ne abbiamo una visione chiara nell’affresco Nobiltà e Virtù che abbattono l’ignoranza di Palazzo Manin. Le donne celesti alate appaiono traboccanti di vesti eppure nude di biancore iperuranico. Sono nude e vestite nel contempo e i loro occhi si mostrano semichiusi nel cielo che attraversano, riempiono, dominano. Ci guardano ab excelsis, quasi non sopportando loro stesse l’eccesso di chiarezza che abitano.
La gestualità è imperiale: lenta, aggraziata, decisa ma leggera nel reggere lo scettro e la corona d’alloro. Non c’è fatica né scompostezza nell’abbattere l’avversa Ignoranza: ella rovina al loro stesso apparire, crolla dall’alto di fronte alla loro pura presenza. Non è una vittoria: è un trionfo.
Nel Trionfo di Flora, appare ancora di più la tipica aristocratica indifferenza delle donne tiepolesche. Qui Flora guarda verso l’alto, come distaccata rispetto al fasto dell’incedere del suo stesso corteo festante. La grazia quale sopportazione, raffinata resistenza, vuoto verso il mondo, pienezza interna. La grazia quale stasi, lentezza, distrazione.
Simile raffinato distacco lo troviamo nell’Incontro tra Antonio e Cleopatra. La regina guarda oltre, sembra indifferente al saluto devoto di Antonio. Il suo spirito riposa in se stessa. La grazia quale regalità, autosufficienza, bastevolezza. Cleopatra si fa algida, freddissima, statuaria. Nel Mondo Novo di Cà Rezzonico la grazia traspira sottilmente dalla concentrazione composta delle figure, pur popolari, dalla linea leggermente curva dell’asta che regge la lanterna. Unico dipinto dove quasi tutte le figura sono di schiena. La grazia quale incantamento, mistero, enigma, occultamento, assenza di volto. In Tiepolo la grazia non è distinguibile da una messa in scena teatrale condotta con una regia perfetta.
Nella Verità e il Tempo di Palazzo Leoni Montanari, il braccio della donna si apre teatralmente divenendo l’asse portante della visione, il motore immobile di una rappresentazione dove tutto è al suo posto in una necessità perfetta e il centro è dato proprio dal senso di abbandono, di vuoto, di flemmatica nobiltà. Il reggersi quale dolce fierezza. La grazia quale equilibrio perfetto tra le opposte polarità dell’astratto e del gesto.
Nei soffitti di Wurzburg, Hermes vola sicuro in un azzurro-rosa irreale, adimensionale, disincarnato. Questa grazia, quale messa in scena e assolutizzazione delle posture, attraversa ogni tema narrativo fluidificando e avviluppando le forme in incroci, curvature, ellissi.
A San Lorenzo in Verolanuova, Mosè sembra un direttore d’orchestra e gli alberi ondeggiano come danzassero o si abbracciassero. Cos’è quindi la grazia? Un tipo di ritmo, di musicalità? Una determinata contrazione-declinazione del senso dello spazio e del tempo?
Pensiamo di coglierla e continuamente ci appare e ci sfugge nel suo apparire. Eppure, tutta l’opera di Tiepolo sembra animata e retta dal senso della grazia, specie nei volti delle sue altere donne. Come fa la grazia ad apparire in forme storiche e pure cogliersi come eterna, trans-temporale?
La stessa grazia tiepolesca la troviamo in più momenti in alcuni film di Woody Allen. Sembra non esserci arte più lontana dal regista statunitense di quella aristocratica e raffinata del pittore veneziano, se pensiamo allo spazio che la nevrosi e la velocità metropolitana hanno nell’opera del drammaturgo americano. Eppure, ci sono dei momenti lirici nei suoi film dove possiamo fruire la medesima essenza e aura della grazia settecentesca a cui abbiamo accennato.
Alla fine di Manhattan, Woody corre per incontrare la sua giovane Tracy che sta partendo per Londra. La vede che si sta pettinando vicino al portone d’uscita e la contempla, in silenzio. Anche lei si accorge di lui e lo guarda. Poi parlano, in un’atmosfera assorta, lenta, soffusa. La grazia quale unità, silenzio, intimità, corrispondenza di sguardi e sensi, volontà di cogliere un’eterna fanciullezza, di vivere una perfezione.
Ancor più profondamente, alla fine di Starsdust Memories, abbiamo una scena incantevole che ci illustra cosa sia il senso della grazia. Woody racconta la bella giornata primaverile mentre lo vediamo mangiare uno yogurt, ascoltare Louis Amstrong e guardare assorto la sua bella compagna che un po’ legge una rivista sdraiata per terra e un po’ ricambia lo sguardo. Si tratta di un’incantevole, arcadica e “settecentesca” Charlotte Rampling, con il suo sguardo intenso, profondo ma pure leggiadro ed elegante.
Woody ci spiega a suo modo la sua esperienza della grazia ed è la sua essenza aionica: commozione profonda, stasi, contemplazione partecipata, di appagamento e di totalità, piena corrispondenza dentro-fuori, intensità nell’equilibrio, accordo dei sensi fisici con quelli spirituali. Aiòn sospende il peso del decorso e la fatica dell’estensione. Tutto appare quale è. Il dove, il quando, il come non sembrano più in contraddizione. Così quando si baciano veramente, continuando il set filmico oltre la sua prassi, sempre in questo magnifico film.
Il senso della grazia alleniano attraversa e trasfigura i canoni del tragico e del lirico ponendosi benignamente quale sospensione del tragico e stasi del lirico, trasfigurando anche il senso del malinconico disfarsi delle cose e del tempo stesso come nel finale leopardiano-sabbatico di Radio Days, quando salgono sul tetto del palazzo delle feste, a Capodanno, e negli auguri che si scambiano a casa di Joe.
Così, nel mito del Circo che chiude con la sua magica e fatante grazia Ombre e Nebbia. Punto di equilibrio sempre perfetto nel suo telos greco anche in Un giorno di pioggia a New York dove, nel mezzo del racconto, ecco il kairos della grazia quando Gatsby suona il pianoforte, fuori piove e la casa è lussuosa, arcadica, fuori dal tempo e Chan si sta preparando nella sua stanza, accanto.
Momento aionico di stasi, di rispecchiamento nel silenzio musicale del pieno accordo che giunge alla sua maturazione nella scena finale dell’incontro dei due sotto la pioggia e l’orologio ruotante Delacorte di Central Park. Sogno, musica dell’accadere e incontro si congiungono. L’incanto sta nel passaggio da un piano all’altro dell’esistere? Nella confusione circolare fra sognare ed essere sognati? Nei rari momenti di intensità quando deponiamo una maschera e non ne abbiamo ancora indossata un’altra? Nella magia degli incroci? Ci può essere grazia senza una “messa in scena”? L’Arcadia, appunto.