-Non è sicuro di quello che dice? Si prepara a cambiare di nuovo, a spostarsi in ragione delle domande che le fanno, a dire che le obiezioni non si accentrano realmente sul nucleo delle sue formulazioni? Si prepara a dire ancora una volta di non essere mai stato quello che le rimproverano di essere? (…)
-Ma voi pensate davvero che io ci metterei tanta fatica e tanto piacere a scrivere, credete che mi ci sarei buttato ostinatamente a testa bassa, se non preparassi - con mano un po’ febbrile - il labirinto in cui avventurarmi, in cui spostare il mio discorso, aprirgli dei cunicoli, sotterrarlo lontano da lui stesso, trovargli degli strapiombi che riassumano e deformino il suo percorso, in modo da perdermici e comparire finalmente davanti a occhi che non dovrò più incontrare? Più d’uno, come faccio senz’altro io, scrive per non avere più volto. Non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere.(Michel Foucault, L’archeologia del sapere)
Nell’Apologia di Socrate, Platone riporta l’autodifesa di Socrate davanti agli Ateniesi nel processo a suo carico; durante il processo, Socrate riferisce di quando un suo allievo, interrogando l’oracolo di Delfi - il dio Apollo - su chi fosse più dotto del proprio maestro, si sentì rispondere che nessuno era più dotto di lui. Socrate racconta come da quel momento, essendo in imbarazzo “sul senso di quel dire”, abbia incominciato la propria ricerca presso gli uomini più dotti di Atene, onde dimostrare allo stesso dio Apollo che questi si sbagliava. Socrate racconta come, attraverso questa ricerca, egli si sia potuto rendere conto come la sapienza professata dagli uomini più dotti di Atene fosse solo un’illusione rispetto alla propria ignoranza.
Socrate dichiarava di “sapere di non sapere”: egli ammetteva la propria ignoranza, ed essendone consapevole, questa diveniva la “dotta ignoranza” che lo rendeva più saggio di coloro che, non avendo coscienza della propria ignoranza, si illudevano di sapere. Il continuo porre domande da parte di Socrate creava, in chi dichiarava di saperne più di lui, un senso di stupore e smarrimento: quell’aporìa - il paradosso - che apriva la strada all’incertezza.
Le domande illegittime e la banalizzazione della persona
Sapere di non sapere rappresenta la messa in crisi profonda di un’illusione, quella di sapere; tramite il paradosso, si svela lo specchio su cui riflettiamo ciò che sappiamo, illudendoci che esso esista di per sé, cioè indipendentemente da noi e dal nostro desiderio di conoscere e capire. Il paradosso è un concetto ‘caro’ al pensiero complesso: il paradosso non può non manifestarsi quando si passa dall’approccio esclusivo - fondato sull’o/o - all’approccio inclusivo - fondato sull’e-e. Includere situazioni opposte e difficilmente conciliabili ci fa sprofondare nell’incertezza di ciò che non è definito una volta per tutte, categorizzato e salvato nella nostra memoria come fosse la memoria conservata in un dispositivo, banale perché prevedibile.
La dotta ignoranza è quindi, a suo modo, una forma di sapienza: si manifesta quando la persona diviene consapevole del proprio non sapere, aprendosi all’incertezza e al dubbio, cominciando a porsi delle domande a cui non è in grado di rispondere. Quelle che von Foerster definisce delle “domande legittime”. Le domande illegittime sono invece le domande di cui si conosce già la risposta, che ci si aspetta di sentir ripetere così come già la conosciamo. Come si fa a scuola con gli studenti, ponendo domande di cui si conosce - o si dovrebbe conoscere - già la risposta, ed in base alle quali si misura il processo di omologazione del sapere, banalizzando la persona che lo esprime. Niente sorprese, tutto prevedibile, nessuna incertezza. La persona sa di sapere, e su questo fonda le proprie certezze e la propria credibilità.
Non sapere di essere osservatori e l’ignoranza di secondo grado
“Sapere di sapere” e “non sapere di non sapere” possono essere interpretate come due facce della stessa medaglia. Traggono origine da un medesimo presupposto, che è quello di ritenere che il sapere rappresenti una forma di dominio sull’altro; ma nel momento in cui ci si illude di sapere, si è ignari del pericolo costituito dalla propria ignoranza. Chiudendo il proprio sapere all’interno di un recinto costruito sulla certezza e la prevedibilità delle risposte, la propria arroganza induce a lasciar fuori dal perimetro della quotidianità tutte le domande che aprono ad incertezze, ma anche a nuove possibilità.
L’ignoranza, il non sapere, può essere consapevole o meno: se siamo consapevoli della nostra ignoranza, sappiamo di non sapere ed abbiamo l’occasione di migliorare, di comprendere, di partecipare al gioco della vita, di fare domande e di indagare nuove realtà possibili. Se invece siamo inconsapevoli della nostra ignoranza, non sappiamo di non sapere e viviamo nell’illusione di sapere.
È un problema di percezione: noi non sappiamo, ossia ignoriamo, ciò che non percepiamo. E se percepiamo solo ciò con cui siamo in grado - attraverso il nostro corpo - di entrare in relazione, tutto ciò con cui non siamo in grado di entrare in relazione, benché esistente, rimane escluso dal nostro campo di consapevolezza, impedendo di esplicitarne l’ignoranza (“non so di non sapere”). Mancando la percezione, diveniamo ciechi a noi stessi, sviluppando una “ignoranza di secondo grado”: un livello di ignoranza molto difficile da riconoscere. L’uomo percepisce il mondo esterno, ma non può percepire sé stesso che percepisce il mondo esterno. Per riconoscere questo tipo di ignoranza, occorre comprendere che siamo sempre degli osservatori, che non possiamo disincarnarci da noi stessi.
La responsabilità di voler sapere
Quanto della nostra ignoranza, oltre a dipendere dall’incapacità fisica di percepire, dipende anche da una nostra scelta profonda di non voler sapere? La vera differenza tra le persone rispetto alla propria ignoranza è nella consapevolezza che se ne può avere; sapere di non sapere, come dichiarava Socrate, apre la persona all’apprendimento: basta cominciare a osservare, ad ascoltare. Basta aprirsi all’altro ed apprendere dal sapere incarnato nell’altro, in un rapporto di stima e fiducia reciproca. Il non essere consapevoli della propria ignoranza, il non sapere di non sapere, invece, chiude la persona in una forma di ottusità.
Spesso questa forma di ignoranza è scelta dalla persona, perché il non osservare, il non ascoltare, possono divenire un alibi rispetto alle proprie responsabilità. Chiudersi rispetto all’altro, mentre non consente di apprendere, mantiene allo stesso tempo nell’illusione dell’immutabilità, l’inganno di credere che le cose e le persone siano date per sempre, anche loro fisse e immutabili.
Sapere di non sapere può renderci attivi rispetto alla nostra ignoranza: è un’occasione per trasformarne la passività e la stasi che essa comporta in una opportunità di comprensione, come un nuovo e contorto cammino da percorrere; è una possibilità per poter partecipare alla costruzione della realtà, facendosene carico per la propria parte. Colui che interroga l’altro per conoscere è consapevole di non sapere, è il “dotto ignorante”: è l’uomo cosciente delle proprie incertezze, dei propri dubbi e che nulla dà per scontato. In primo luogo, la risposta che cerca.
Vi è quindi una differenza sostanziale tra la forma esplicita dell’ignoranza - “io so di non sapere” - e la forma implicita dell’ignoranza - “io non so di non sapere”, e tale differenza è di natura etica: riguarda la responsabilità di ciascuno nella determinazione della dinamica delle relazioni umane. Nel momento in cui la persona dichiara di sapere di non sapere, essa si assume anche la responsabilità di poter e dover apprendere: di potere e dovere osservare e di potere e dovere raccontare, riportando così nel mondo delle sue relazioni la propria esperienza in prima persona. Nel momento in cui la persona non è in grado di dichiarare di non sapere, si dissocia dalla propria realtà, dal proprio ambiente, come se non le appartenesse, come se tutto ciò che accade non la riguardasse, poiché essa non è in grado di osservarlo e tanto meno di poterlo raccontare: non ha alcuna responsabilità di ciò che accade, o è accaduto sotto i suoi occhi, se solo avesse guardato.
Esplicitare la propria ignoranza riguarda tutta la comunità umana
Il passare dall’ignoranza implicita all’ignoranza esplicita è, dunque, da ritenersi un processo fondamentale non tanto e non solo per il singolo soggetto, quanto per tutta la comunità in cui esso si riconosce, perché avere il coraggio di divenire consapevoli della propria ignoranza è il primo passo per poter modificare sia sé stessi che il contesto nel quale si agisce e nel quale si comunica attraverso i propri comportamenti. Ciò consente di poter cambiare, di poter osservare, di poter esplorare: fare domande, anziché avere già tutte le risposte; avere uno sguardo sul mondo come quello di un bambino, per il quale tutto è possibile.
Affinché questo avvenga, e consenta a tutta la comunità umana coinvolta di aprirsi alla necessità di comprendere, è necessario che venga soddisfatta una condizione fondamentale: che ci si riconosca reciprocamente come esseri non banali, a cui è data la possibilità di fare e di ricevere domande di cui non si conosce la risposta, accettando l’incertezza e l’imprevedibilità che ne scaturisce.
Ma l’incertezza produce anche un senso di smarrimento di sé: ogni tentativo di conoscenza, ogni ricerca, è un passo indietro rispetto a chi siamo e a chi siamo stati; è una rinuncia, un abbandono di certezze che difficilmente trovano comprensione e apertura nell’altro. Nel rinunciare alla certezza del sapere, mostriamo la nostra vulnerabilità, e possiamo essere colpiti per questo. Socrate è stato condannato a morte per ciò che è apparso come sfrontatezza: mostrare agli altri la propria ignoranza.
Mai dire al re che “è nudo”, né dichiararsi nudi. Significa chiedere all’altro di fare altrettanto.