Planté dans la terre par ses racines, planté dans les astres par ses branchages, il (l’arbre) est le chemin de l’échange entre les étoiles et nous.
(Antoine De Saint-Exupéry)
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, in bilico, in attesa e nel timore che un colpo di vento malandrino quanto irriverente ci faccia sobbalzare, vacillare, tremare, ripiegare su noi stessi e, infine, cadere.
L’incertezza, quella sensazione che non piace alla mente umana, desiderosa di un sogno, di un piano anche a breve termine, di un traguardo, di un obiettivo. Di un punto di arrivo. Possibilmente bello.
E invece siamo qui, in balia di quell’alito di vento che ci potrebbe far cadere per sempre ma che, cadendo, darebbe, comunque, vita e nutrimento alla terra. Siamo qui, affacciati alla finestra, un giorno di festa nazionale di un Paese che ricorda i suoi caduti, quelli di una guerra lontana ma così vicina. Ogni immagine diventa simbolica, più di quanto non lo sarebbe stata in tempi normali, ogni accenno patriottico un motivo di commozione o lacrima.
Siamo qui ad assistere, inermi, alla partenza di una generazione di anziani che ci ha garantito libertà e benessere, al loro andarsene silenziosi senza la possibilità di un’ultima carezza. Se ne va la storia, ma dobbiamo ricordare che quella storia siamo noi, noi che adesso siamo assistendo a una parte di essa, così diversa, così folle e disarmante perché ci pone di fronte a un nemico invisibile e che non parla, che non insulta o sputa sentenze, ma che ci obbligherà ad avere coraggio. Tante le parole che si sentono e si leggono sui giornali che abbiamo timidamente imparato a riprendere in mano, una carta stampata che pare ritrovare uno spazio inedito nelle giornate di chi alterna le ore fra lavoro a distanza, cucina d’altri tempi, chiacchierate con vecchi amici ritrovati e qualche rebus o parola crociata.
Libertà, resilienza, adattamento, cambiamento, paura, coraggio, responsabilità, solidarietà, amicizia, resistenza, pazienza. Mindfulness. Dalla finestra si vedono uomini mascherati, cani che hanno una libertà a noi oggi negata, si sentono i suoni della natura ai quali non eravamo più abituati, cinguettii e fruscii che, nel silenzio, riportano serenità e pace. Le città sono silenziose e quiete, i quartieri deserti, non vi è più calca e assembramento, ricerca dell’inutile, la distanza fisica va a braccetto con quella della mente. Il vuoto prende il suo spazio. Se non fosse per la tragedia che ci circonda, la sofferenza e le perdite che molti di noi hanno subito, si potrebbe dire che è tutto bellissimo.
Il paradosso resta nel fatto che questo virus che ci toglie il respiro ci ha portato un’aria respirabile nelle città, ci ha riavvicinato al sussurro del dolce respiro della natura. Tutto continua, tutto ci mostra che può tranquillamente continuare senza di noi, noi ospiti di una terra meravigliosa, uomini richiamati all’ordine, fermati dalla Natura perché incapaci di farlo da soli. Forse dovevamo in qualche modo essere fermati, congelati per mesi solo con noi stessi e i nostri cari, per capire quanto loro fossero importanti, ancora di più se anch’essi congelati lontani.
Fermati, immobilizzati come in un’istantanea in bianco e nero, rallentati per capire l’importanza di essere noi stessi, di quanto correre e accumulare non sia realmente un valore, di come si possa vivere con meno, con cibi genuini e preparati con amore, parlando con amici con i quali non si aveva mai il tempo di chiacchierare, riscoprire i legami dell’infanzia, quelli veri e che restano per sempre, capire chi veramente c’è. Monito e conseguenze pesanti. A salvarci resta la consapevolezza di essere vivi, la capacità di capire che la cultura sarà il nostro viatico per la rinascita. Sperando che di tutto questo si faccia tesoro.
Il mondo visto dalla finestra è meraviglioso. Un battito di ali argentino. Ora abbiamo il tempo di osservarlo. Questo periodo di pausa forzata ci ha riavvicinato alla sua bellezza e alla sua essenza, alle sue ragioni continuamente inascoltate, sbeffeggiate e schiaffeggiate. Nella difficoltà di concentrazione dovuta a un forte e tumultuoso sentimento di smarrimento, abbiamo tentato piano piano, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, di riprendere in mano i libri di un tempo, di sfogliare nuovamente pagine di vita che ci attendevano in attesa di essere ricomprese, rivalutate, ripensate, riviste, rimodulate, rivissute.
Il rinviato ora è qui. Il qui e ora che si impone. Rileggiamo con altro sentire. Spes contra spem.
Questa parentesi silenziosa e di isolamento mostra a ciascuno la propria vera natura, il confronto quotidiano è spesso solo con sé stessi, un esercizio che aiuta a capire le cose a cui dire finalmente di no.
Personalmente ho ritrovato la direzione, forse la sto solo riorientando perché molte delle conclusioni cui sono giunta si sono semplicemente consolidate; chi, come me, crede nell’essenziale, nel minimalismo e nella disciplina è sicuramente avvantaggiato, anche se pure a noi il tempo di vacillare si è fatto sentire.
Dobbiamo essere albero, mi dico e mi ridico, un saggio insegnamento atavico che vale sempre ma che oggi sembra sempre più fondamentale. Nessun ripensamento o dubbio. Poche certezze.
A parte quanto rimane in noi di essi, gli alberi conoscono la nostra anima e, come ricordava Victor Hugo, sono simbolo di per sé di presenza, affiancano la nostra vita spirituale. Stanno, svettano, guardano verso il cielo a esso tendendo i rami a volte stanchi ma imperturbabili, con speranza, con devozione, con rispetto al bianco delle nuvole. Stanno. Semplicemente stanno. La presenza è un atto che impegna, una reale presa di coscienza del mondo, che ci lega di fatto al presente. È l’abolizione di ogni distanza tra sé stessi e il mondo, il che non fa sorprendere, dunque, che l’albero accompagni tanto spesso il nostro cammino spirituale.
Nulla è più vicino al mondo di un albero, che ne sposa i contorni fino a fondersi con esso e a trasformarlo.
Lui, sensibile all’astro solare e alle profondità terrestri, dal movimento posato e sobrio. Bello, essenziale, elegante, educato, onesto, sobrio, lento, perché capace di prendersi il proprio tempo.
Scrigno di ricordi e memorie, paziente, sensibile alle stagioni, alle fluttuazioni quotidiane della luce, si lascia guidare da una temporalità cosmica di cui incarna una clessidra vivente. L’albero ci fornisce l’ora intima del mondo, pulsante, vivente, scalpitante, lucente, stabilmente meraviglioso, meravigliosamente grande.
Equilibrato e deciso, capace di trovare risorse nella scarsità, alleato sincero e solidale, perché con le sue radici intercomunicanti dona nutrimento alla vegetazione che gli chiede aiuto, con la sua ombra protegge quelle piantine che hanno bisogno di difendersi dalla luce. Ricco, ma solo della sua linfa e della sua forza, noncurante del superfluo, diverso nella coabitazione con le altre specie, decentrato perché senza organi interni, interamente proiettato verso l’esterno. Lui per noi, lui per loro. Un tutt’uno. Sensibile al cosmo. Ramificato, con la sua immensa capacità di abbracciare il mondo, profondendogli energia.
L’albero si fonde con il proprio ambiente, cresce in esso e con esso, l’uno il prolungamento dell’altro, difficili da dissociare. Gli alberi hanno talmente afferrato il mondo che non ne sono più separabili. Le loro radici varcano confini di giardini, città e Paesi, non vi è barriera che tenga. L’albero svetta, nei campi, nelle pianure e sui dirupi, lungo le rive dei fiumi e nelle oasi dei deserti.
Si adatta e cresce, sopravvive contemplativo, guardando solo verso il cielo azzurro e, a volte, con qualche nube di panna. Rivolto all’infinito e verso di esso, in un orizzonte la cui linea accarezza le nostre teste affaticate, i capelli incanutiti. Si piega ma non si spezza. O almeno ci prova. In armonia sostanziale con l’universo, come un accordo sinfonico che concorre al disegno di uno spartito quasi metafisico dal suono tintinnante dolce e sottile. Come un acquerello delicato che infonde pace e serenità all’occhio più disorientato e stanco, il tratto di un pennello su una foresta verde di pensieri che rinascono dalle ceneri.
L’albero trattiene il nostro sguardo perduto, ci calma e culla nelle tempeste più violente. Energia pura. Fluido, sospeso al suo divenire, si rinnova ogni anno, muore e rinasce all’arrivo di ogni stagione. Cambia pelle. Spostato dall’uomo in ambienti a lui non congeniti, fa la conoscenza dei nuovi vicini, quelli non scelti da lui ma con i quali saprà trovare nuove occasioni di condivisione, ricomponendo una sua comunità. Connesso, perché come diceva il biologo Alan Rayner, un albero non è mai solo. Simbiotico.
Dobbiamo essere come gli alberi. E alla fine, come scrive Concita De Gregorio, dopo una quarantena che è un vero setaccio, tutto andrà come può, ma soprattutto andrà come vogliamo che vada.
Alcune riflessioni sono maturate dalla lettura di Jacques Tassin, Penser comme un arbre, Odile Jacob, 2018, 142 p., che vi consiglio.