Ab assuetis non fit passio.
Ti ricordi ancora di Roma, cara Lou? Com’è nella tua memoria? Nella mia rimarranno un giorno solo le sue acque, queste limpide, stupende, mobili acque che vivono nelle sue piazze; e le sue scale, che sembrano modellate su acque cadenti, tanto stranamente un gradino scivola dall’altro come onda da onda; la festosità dei suoi giardini e la magnificenza delle grandi terrazze; e le sue notti, così lunghe, silenziose e colme di stelle.
(Rainer Maria Rilke, Lettera a Lou Andreas-Salomé)
Il vero stupore nasce dall’imprevisto. E in questa città, splendida e unica, l’inatteso è la norma. L’imprevisto di passeggiare per le strade e trovarsi di fronte a un non so che di meraviglioso, come un angolo inaspettato che ti proietta nel passato, l’imprevisto dell'invito di un innamorato a guardare verso il cielo blu cobalto e senza nuvole, del saluto di un ammiccante passante sconosciuto, del sorriso di una vecchia e agghindata signora che passeggia lungo i Fori Imperiali con il suo minuscolo cagnolino bianco, del clacson impazzito di un automobilista un po’ maleducato, dell'incedere zoppicante ma simpatico di un piccione impavido che ti si avvicina alla ricerca di un po' di briciole di pane.
L'aria e la luce cristallina ti invitano ovunque e comunque a dire sì, ad accettare che la bellezza, per quanto a tratti decadente e un poco trasandata, sia la sola (o meglio, la migliore) chiave di lettura di un mondo che si presenta vociante, caotico e perso.
Difficile, dunque, parlare di questa città magica, eternamente giovane e bella, elegante e profumata di fiori, senza cadere nella retorica. Quando una cosa è bella oggettivamente e la si ama profondamente, le parole sono tutte già pronunciate o sussurrate. Difficilissimo, allora, descriverne strade, vie e viuzze affollate, monumenti e fontane d’altri tempi, il magico alberato Lungotevere, piazze e palazzi maestosamente decorati, quando tutto è stato già detto, tutto già dipinto. Non è, tuttavia, arduo fotografare cose nuove, immortalare momenti sempre diversi, dipingere nuove storie con obiettivo, pennelli colorati e stilografiche dall'inchiostro leggero e spensierato. Questo perché la morbida e sinuosa signora di velluto dagli abiti un poco sdruciti, come amo chiamarla fra me e me, riserva sempre sorprese, nuovi scorci e nuovi spunti.
Così, fra i tanti fotografi che sono persi per la Città Eterna, Elliott Erwitt, parigino classe 1928 e americano d’adozione, raccoglie scatti indimenticabili in un libro unico nel suo genere, Roma, una collezione di fotografie raccolte durante 50 anni, una vita intera. Invitato a collaborare con la famosa agenzia Magnum, nel 1953, dal leggendario Robert Capa, co-fondatore della stessa con Cartier-Bresson, Erwitt immortala una città e la sua gente, perché, a suo dire, ogni posto al mondo non è nulla senza la sua gente, i suoi cani, i suoi gatti, ossia gli esseri viventi che in essa respirano. Sulle pagine che si susseguono e che si sfogliano leggiadramente, quasi spettinate da un audace alito di vento, con sorpresa e amore oltre che con la passione che solo chi ami Roma ad oltranza può condividere, sfilano fotografie in bianco e nero che lasciano un segno. Quasi un sigillo di ceralacca rossa, a forma di cuore, ti rimangono ricamati sulla pelle gli scorci dei Fori Imperiali al tramonto, le statue decapitate a sentinella di una strada percorsa da calzari antichi o di parchi ed aiuole fiorite, i busti altezzosi di personaggi antichi, le scarpe lucide di una signora inginocchiata nel confessionale, giovani ed anziani che chiacchierano nelle piazzette. È la vita romana, quella all’aperto, quella di un vecchio teatro che potrebbe aver ospitato Petrolini in via dei Coronari, oggi chiuso ed abbandonato, delle foto di cardinali in fila, del Colosseo perso nella sua immensità notturna, di uccelli appollaiati sulla testa di una statua deturpata da scritte a gesso bianco, di oggetti d'antiquariato dove campeggia un'immagine altezzosa del Duce, di matrimoni e processioni, di innamorati che si baciano sugli scalini delle chiese o lungo i muretti che si affacciano sulla città distesa. Come sottolinea Michele Serra nella prefazione al libro, Erwitt ha assorbito da Roma il suo pregio più grande, ovvero la capacità di ingannare il tempo, di trattenerlo e confonderlo nel caos straordinario dei suoi scorci urbani, insomma di disorientarlo, perché il tempo quando arriva a Roma si perde nel labirinto. E aggiungerei, nel suo cielo. Una città piena di sorprese, di fascino e di vita, alla quale non si può mai dire di no. Io, per lo meno, non ci sono riuscita... nonostante i contrasti.
Anche le immagini che vi proponiamo noi, quelle del fotografo romano Marco Migliozzi 1, si mescolano a questo infinito che profuma di antico. Visione e realtà che si afferrano.
Se il tempo si perde tra le viuzze, gli scorci del genitor urbis, il Tevere, non sono da meno. Amo questo fiume scolorito e spettinato, grasso e magro a seconda dei momenti dell’anno, amo i suoi ponti che uniscono, le sue vedute mozzafiato.
Regna il Silenzio i luoghi. Nel vespro il Tevere splende:
l’onda perenne ei reca della sua pace al mare.
Guardano il padre fiume le querci immote, ch’ei nutre,
spiriti nella dura còrtice meditanti;
esseri paghi: bevono l'acque con l'ime radici,
godon raccorre i soffi tiepidi nelle chiome.(Gabriele D’Annunzio, Elegie Romane, Libro III, La Sera Mistica)
Al grande fiume sono stati attribuiti molti nomi: Rumon, Albula, Thybris, Thebre o Tevere. Quello che è certo è che da esso nasce Roma. Un legame indissolubile.
Facendo un salto nel mondo delle favole, che maggiormente mi si addice, prima che in quello dei miti e delle leggende o della storia, mi piace ricordare il mondo di fantasia di una blogger, Maria Cerbelli, nel cui universo magico ritrovo un monte talmente alto da essere avvolto ogni giorno da nuvole dense come ovatta che lo rendevano invisibile all’occhio umano: il Monte Fumaiolo, abitato solo da folletti, gnomi e fate. Qualche animale, nessun altro essere vivente, men che meno l’uomo. Un bel giorno, da due grotte ai lati della montagna sgorgarono due zampilli d’acqua limpidissima, che presto divennero ruscelli. Il Fumaiolo decise di chiamare una delle sorgenti Savio, l’altra Tevere. Savio chiese al Fumaiolo di poter compiere il suo destino, ossia di raggiungere il mare, nella via più rapida e semplice; Tevere ammise, invece, di aver deciso di percorrere la strada più lunga perché, prima di giungere al mare, voleva attraversare le campagne, rendere fertili i terreni e placare la sete della madre terra. Seguendo il rispettivo volere, il primo fu indirizzato a nord-est e il secondo a sud-ovest, avvertito, e consapevole, che il cammino sarebbe stato più impervio e difficile e che si sarebbe dovuto impegnare maggiormente per raggiungere il mare. A Tevere non importava, la sua fatica sarebbe stata ricompensata da tutte le cose conosciute e apprese durante il viaggio. Dopo un lungo silenzio, una gazza ambasciatrice annunciò che Savio aveva raggiunto il mare e compiuto rapidamente il suo destino, mentre Tevere era ancora lontano dall’arrivare. Le sue acque, ormai abbondanti, stavano nutrendo i campi che attraversava e stavano portando vita in tante campagne. Le sorgenti di Savio cominciarono a deridere le falde di Tevere, etichettato come un fannullone che non arrivava a compiere il suo destino. A quegli sberleffi, le sorgenti di Tevere cominciarono a chiedersi se il loro fiume non avesse fatto una scelta sbagliata nell’intraprendere la strada più difficile. Il monte decise di intervenire e rassicurò le falde di Tevere: “Non disperate, perché anche il vostro fiume compirà il suo destino e raggiungerà il mare. In più, poiché non ha esitato a intraprendere la strada più impervia pur di rendere fertili i terreni e placare la sete della terra, riceverà una ricompensa”. Passarono anni prima che Tevere arrivasse al mare, senza mai pentirsi della scelta. Il viaggio era stato faticoso ma la bellezza di quanto aveva visto e nutrito era impagabile. Di fronte alla distesa di acqua azzurra del Tirreno cui finalmente tuffarsi dimenticò la ricompensa. Ma un giorno, inaspettatamente, una giovane donna si avvicinò alle sue rive e vi posò il canestro di paglia che portava con sé. Lì dentro c’erano Romolo e Remo e da essi sarebbe iniziata un’altra storia… Quella che intreccia il fiume con la più profonda e intima storia di Roma. Storia e poesia andranno sempre a braccetto, rincorrendosi, come due fidanzatini novelli, fra le sue anse rigogliose. Assieme ad arte e cinema, a lettere e libri che parlano di bellezza, a dipinti che la immortalano, eterna e pavida.
I ponti gli piacevano, uniscono separazioni, come una stretta di mano unisce due persone. I ponti cuciono strappi, annullano vuoti, avvicinano lontananze.
(Mauro Corona, La casa dei sette ponti)
Tra le anse e i suoi pensieri, Roma è la città che unisce le epoche, trait d’union fra la storia e le storie di vita che passano da una riva all’altra. Tutte caratterizzate dall’unicità che fa parte di ogni percorso. Grazie anche ai suoi ponti, quelli che spesso ammiro estasiata, dove le parole si perdono e i pensieri si accavallano, dove si parla, ci si abbraccia, si cammina prendendosi per mano, ci si bacia, si sogna di un futuro insieme, si fanno progetti vicini e lontani, si guarda l’acqua che scorre per cercare di vedere l’infinito, si saluta un orizzonte nitido che ti avvicina a chi sta dall’altra parte del mare. Panta rei. Anche in questo caso il passato ci riporta ad antichi fasti, come ovunque qui. Dichiarazione d’amore inevitabile.
I ponti risalenti all’epoca di Roma ancora in piedi sono sei: Milvio, Emilio, Fabricio, Cestio, Adriano e Aurelio. Il settimo, del quale non è arrivata traccia fisica all’età contemporanea, sarebbe stato il Sublicio (dal latino sublica che significa palo o trave di sostegno), il più antico, risalente al VII sec. a.C. che aveva fatto di Roma una città cosiddetta di primo ponte, in quanto in grado di controllare l’unico attraversamento del fiume e che fonti antiche collocano a sud dell’isola Tiberina. Ponte Milvio, che oggi collega il quartiere Flaminio con la via Cassia, anch’esso inizialmente in legno, pare risalire al IV sec. a.C. e collegava le legioni di Roma, i suoi funzionari e mercanti, con il nord della città. Nei secoli ha subito molti restauri, fra cui il fondamentale del 1805 durante il pontificato di Pio VII i cui lavori furono affidati all’architetto Giuseppe Valadier che, oltre a costruire gli attuali imbocchi in muratura, mise il ponte in comunicazione con la campagna circostante. Il Ponte Rotto, già chiamato Ponte Emilio o Ponte Lepido, è, invece, il più antico costruito in pietra. La sua struttura fu realizzata nel II sec. a.C. su iniziativa dei consoli Marco Emilio Lepido e Marco Fulvio Nobiliore, per ragioni di circolazione interna alla città. Dopo vari crolli nei secoli la metà orientale del ponte fu travolta dalla piena del fiume del 1598. Da allora divenne il Ponte Rotto, finché nel 1887 furono fatti saltare con la dinamite i due archi più vicini alla riva di Trastevere e, nel 1890, fu costruito al suo posto il Ponte Palatino, noto oggi come il Ponte Inglese per l’inversione del senso di marcia della circolazione delle auto. Oggi si ammira ancora un’arcata dell’originale, rimasta in piedi al centro del fiume, in linea con l’Isola Tiberina. Il Ponte Fabricio, del 62 a.C., conosciuto come ponte Quattro Capi, collega la sponda sinistra del fiume, a valle del Tempio Maggiore della comunità ebraica, all’Isola Tiberina. Il Ponte Cestio, che collega l’Isola Tiberina a Trastevere, costruito fra il 46 e il 44 a.C., fu completamente ricostruito nel IV sec. d.C. con materiale provenienti dal Teatro Marcello. Fu il ponte a subire maggiori stravolgimenti rispetto alla sua forma originaria a causa dei lavori di allargamento del letto del fiume necessari alla costruzione degli argini di fine Ottocento. Ponte Sant’Angelo, già Ponte Elio o Adriano, che collega lungotevere degli Altoviti a Castel Sant’Angelo, è il più recente dei ponti romani ancora in piedi. Fu costruito, con travertino e peperino, fra il 133 e il 134 d.C. dall’Imperatore Adriano per condurre dalla città al proprio mausoleo. Dove oggi c’è Ponte Sisto (del XV sec.) a congiungere Piazza Trilussa con via dei Pettinari, prima vi era un ponte antico che qualche fonte chiama pons Aureli o pons Antonini (nel Medioevo) qualche altra pons Agrippae e pons Janicularis. Documenti e scritti si perdono nel tempo. Memoria che va. Ma la storia continua.
La città dei ponti, quelli che uniscono le generazioni, le vite di chi li attraversa per andare altrove, per andare aldilà di qualcosa, aldilà dei limiti, aldilà di tutto quello che scorre e non ritorna. Una città di trasformazione. Che amo profondamente, nonostante tutto.
Sono costretto a continue trasformazioni, perché tutto cresce e rinverdisce. Insomma, a forza di trasformazioni, io seguo la natura senza poterla afferrare, e poi questo fiume che scende, risale, un giorno verde, poi giallo, oggi pomeriggio asciutto e domani sarà un torrente.
(Claude Monet)
1 Marco Migliozzi. Laureato in sociologia, Marco Migliozzi si interessa e studia fotografia. Il suo archivio fotografico si arricchisce di scatti provenienti da varie zone del mondo: Groenlandia, Antartide, Iran, Borneo, Giappone, Africa, America del Sud... Dai suoi numerosi viaggi, nascono fotografie che vengono esposte in personali. Tappa importante è la pubblicazione dei suoi lavori su Repubblica.it e National Geographic. Alcuni scatti sono apparsi recentemente anche su World Energy Review, The Power of Trees. Si occupa inoltre di visual art e tra i suoi interessi c'è quello per la computer graphic.